Fascicolo n.7 – Doc. n.19 bis – “Sfaldamento della Monterosa da parte della Coduri”. “Testimonianza di A. Minetti “Gronda”, e altri. (Doc. in fotoc., comp. da 9 f., 9 p. manosc., d. presunta 1976/79, s.f.). Presente pure all’ILREC di Genova: Fondo Gimelli 2-b19-23.

Trascrizione

Sfaldamento della Monterosa da parte della Coduri.
Autori: Minetti Ildo “Aquila” e Minetti Egidio “Tom”, fratelli di “Gronda” – Perego Luigi – Minetti Antonio “Gronda” – Braconi Arnaldo “Marte” e la signora Lina sua moglie – e Piero cognato di Braconi. 

Aquila (Minetti Ildo).
«Era il giorno 27 Agosto 44, venni chiamato dal Tasso [Tasso G. Battista n. 1892],  nella sua bottega da ciclista (sita a Casarza Ligure nella attuale via Annuti Vittorio “Califfo” n. 1921), Partigiano fucilato alla Squazza dalle brigate nere di Chiavari) che mi mise al corrente di approcci da lui avuti con 2 alpini della Monterosa e che era riuscito a convincerli ad abbandonare il loro reparto per raggiungere i partigiani, però prima di decidersi a salire in montagna, volevano parlare con un collaboratore dei partigiani, per avere notizie di come vivevano, quanti armamenti avevano, dove si trovavano ecc., che se la cosa fosse stata seria e sicura, loro avrebbero cercato di convincere tutta la batteria che si trovava in Francolano [frazione di Casarza Ligure sul confine col comune di Sestri Lev. n.evb.] composta da una 30ina di alpini. Sentito tutto quello che volevano sapere, che certamente non avrei detto, mi insospettii e dissi al Tasso: “Sentite Giovanni, quello che questi due vogliono sapere non mi ispira nessuna fiducia, state attento che possono essere due spie, che una volta saputo quello che gli interessa e conosciuti noi per quello che siamo, ci denunciano e andiamo incontro a guai seri, voi siete già stato arrestato una volta e la seconda non ve la perdonerebbero di certo”.

“No, no, mi rispose, sono convinto che sono sinceri, sono dei bravi ragazzi, sono certo che fanno sul serio, ad ogni modo, se non vuoi aiutarmi, mi rivolgo altrove ma in questa faccenda voglio andarci fino in fondo”. Vista la sua decisione e la sicurezza e fiducia che aveva gli ho detto: “Va bene Giovanni, vi aiuterò, vedremo se sarà possibile far passare tutta la batteria ai partigiani, ma per adesso non si può far nulla, i partigiani non sono in zona, sapete che hanno subito un rastrellamento e hanno dovuto ritirarsi [era il periodo tra il 2 agosto e i primi di settembre in cui la Coduri s’era trasferita sul M. Penna. n.evb.], appena tornano in zona incontreremo i due alpini e vedremo il da farsi”. Quando i partigiani tornarono in zona, ho avuto un biglietto da Gronda, mio fratello, che mi chiedeva tabacco e altra roba e mi dava appuntamento a Iscioli. Mi recai all’appuntamento e spiegai loro quello che il Tasso voleva fare e chiedevo consigli; ricordo bene che Virgola mi disse: “ State bene attenti che non sia un trucco e che vi tirino in un’imboscata, è già successo, state molto all’erta”. E rivolto a Gronda: “curati di questa faccenda, ma se vedi che ci sono dei dubbi non andare, matureranno bene e poi si vedrà!». Tornato a casa misi al corrente il Tasso di tutto e decidemmo di avere un colloquio con i due alpini. Ci siamo incontrati nel retro bottega del Tasso e ci siamo messi d’accordo, però gli alpini, dopo averci assicurati che tutta la batteria sarebbe venuta via, ci dissero che questa loro adesione doveva figurare come un’azione fatta dai partigiani e che loro sopraffatti dovettero arrendersi. Dopo un altro incontro con il Gronda, si decise di fingere l’azione la sera e demmo agli alpini la [nostra] parola d’ordine che era [quella sera]: “Gino-Genova”. Ricordo bene che la sera del [1° ott. 44] verso le ore 19, ci siamo incontrati io, Tasso, Odofaci Giuseppe “Geppin” n. 1909, [Gueglio Achille e Finocchietti Cesare] e un altro signore di Genova di cui non ricordo il nome e che era con noi in contatto [Pecchioli Ruggero?]; avevano già prelevato un alpino che volontariamente ha voluto andare con i partigiani e un altro alpino “Roma” che però all’ultimo momento si ritirò dicendo che voleva convincere i suoi commilitoni che trovavansi alle Case Nuove e che erano parecchi. Dissi a coloro che rimanevano a casa e particolarmente al Tasso, “state all’erta, almeno fino alle ore 23 e se sentite sparare è segno che abbiamo avuto un’imboscata, quindi regolatevi in merito, ma voi Giovanni [Tasso] dato che vi conoscono bene, in questo caso allontanatevi da casa”; lui mi rispose “non pensare a noi, stai attento tu che noi ce la caveremo comunque”. Partimmo io, il [Gueglio Achille] e l’alpino [Roma] e ci incontrammo con Gronda al punto fissato, alla Madonnina di Verici. Il Gronda, che nel frattempo aveva avuto un’altra  segnalazione di un altro gruppo di alpini che volevano venire in montagna, con appuntamento dalla Chiesa di Verici, e visto che noi non avevamo notato nulla passando da lì, si insospettì e decise di andare lui con 6 uomini a vedere di che si trattava, e mandava altri 12 partigiani con me a prelevare gli altri in Francolano. Ricordo che c’erano, fra gli altri, Rango, Valencia, Bruneri, Cannella, Bertieri. Mentre il Gronda partiva per la Chiesa, io e gli altri ci incamminammo in fila indiana lungo il pendio che dalla Madonnina scende a Francolano; dopo circa 10 minuti che camminavamo e quando già eravamo in vista della casa dove erano acquartierati gli alpini, ho notato (dato che camminavo in testa e la nottata era chiara) brillare due canne di fucile, o mitra, e immediatamente mi gettai a terra e gridai agli altri di fare altrettanto. Indi scaricai contro gli alpini il caricatore della pistola,  mentre gli altri miei compagni lanciarono bombe a mano contro il nemico appostato mettendolo in fuga. E quando ritornarono con i rinforzi noi ci eravamo già dileguati.
Che cosa era successo?! Perché anziché  trovare gli alpini pronti a seguirci, ci siamo trovati di fronte ad una pattuglia appostata? I due alpini con i quali eravamo andati a colloquio si erano lasciati andare un po’ troppo nelle loro intenzioni, qualcuno capì che cosa si andava creando e quindi fece la spia (sembra sia stata una ragazza, ma non ci fu mai possibile appurarlo, essendo venuti a mancare i due protagonisti, come vedremo in seguito). Il comando alpino, tenendo all’oscuro l’intera batteria, sistemava intanto una pattuglia appena sopra la casa e rimaneva in attesa che gli alpini si muovessero per salire in montagna, ma non era a conoscenza della nostra venuta, ecco perché noi ci potemmo salvare. La stessa notte dell’imboscata, la Monterosa effettuò un grosso rastrellamento a Casarza Ligure, arrestò molta gente, fra cui il Tasso [Aquila e suo fratello minore, Minetti Egidio, appena sedicenne n.evb.] e li condusse nelle carceri di Chiavari. Ma mentre tutti gli altri, dopo un po’ di tempo vennero rilasciati, Tasso Giovanni venne invece processato e fucilato nel poligono di tiro di Chiavari il 5 ottobre 1944».

I due alpini, Francesconi Renato (n. 1925 a Crevalcore BO) e Santagostino Alessandro (n. 1924 a Casorate VA), furono arrestati e processati a Chiavari dal Tribunale di Guerra, dove, durante il dibattimento, ammisero (o gli fecero ammettere in maniera violenta) la loro connivenza con i partigiani. Condannati a morte per tentata diserzione e alto tradimento, furono fucilati nel cimitero di Casarza Ligure il 12-10-’44.
Ma nel cimitero di Casarza Ligure vennero fucilati dai nazifascisti altri tre alpini della Monterosa, incriminati degli stessi reati: Lazzaro Sergio (n. 1925 a Strà VE) il 9-9-’44; Milani Alfonso (n. 1924 a Cursolo-Orasso VB) e Moraldi Pietro (lombardo) il 20-10-’44. Dopo questi fatti la batteria alpina di Francolano venne smistata in altra zona.
A questo punto mi sembra oltremodo doveroso ricordare pure Ferrari Ernesto di Bargone, partigiano della «Coduri» che dopo essere stato arrestato dai nazi-fascisti e processato, fu condannato a morte. L’esecuzione avvenne il 24-9-’44 al poligono di tiro di Chiavari. E poi, il 30/9/44 a Castiglione Chiavarese, per diserzione, s’aggiunse pure quella dell’alpino Pezzotti Giovanni (n. 1925 a Brescia BR).

Perego Luigi
«La sera del 1° ott. 1944 mi trovavo in casa del Tasso assieme allo stesso e a Noce Antonio per ascoltare come di consueto radio Londra. In attesa della trasmissione, il Tasso ebbe a dirmi: ”questa sera succederà qualcosa do grosso”” al che io, all’oscuro di tutto, consigliai il Tasso ad allontanarsi da casa, perché tutti sapevamo che era segnalato, ma lui non ne volle sapere. Eravamo intenti all’ascolto della radio, quando sentimmo bussare fortemente al portone di casa; immediatamente ognuno di noi se ne tornò alla sua dimora (abitavamo tutti e tre nello stesso palazzo); qualcuno andò ad aprire e gli alpini, perché di loro si trattava, arrestarono tutti gli uomini, venni portato in istrada con tutti gli altri, dopo poco vidi venire dalla stradina nei ??? Mi portarono poi in casa del Minetti e cercavano Ildo “Aquila” ma non trovandolo, arrestarono il fratello di appena 15 anni, che logicamente era all’oscuro di tutto. Ci portarono tutti sotto il piazzale della chiesa e dopo una sommaria cernita, ci condussero alle carceri di Chiavari. Rimasi in quelle carceri 23 gg. Durante i quali assistetti a un’infinità di atti veramente barbari che commettevano particolarmente le brigate nere, nei confronti dei più segnalati. Pestaggi e torture di ogni tipo, prelievo quasi periodico di uomini, che i più fortunati venivano mandati nei campi di lavoro in Germania, mentre molti altri venivano portati sui luoghi dove venivano barbaramente uccisi. Poi finalmente venni rilasciato, a mio carico non risultò nulla di grave e anche per l’interessamento di un prete».

Minetti Egidio (“Tom” n. 1928)
«Confermo quanto detto dal Perego e aggiungerò solo che il Tasso era ormai certo della sorte della sorte che lo aspettava, non mangiava, fumava molto, rimase con noi 2 giorni, poi lo portarono nella cella dove andavano solo i condannati. Subì molti interrogatori, durante i quali le venivano inferte ogni sorta di sevizie, dopo 3 gg. di quel calvario, lo vidi passare ammanettato insieme al Canzio Antonio di Castiglione (5 ott. 1944), sembravano due maschere, pieni di lividi, di sangue di gonfiori di ogni genere, passando un brigatista ci disse: questi hanno finito di fare i traditori, li portiamo a fucilare !!!.

Io uscii dopo 16 giorni, venni due volte interrogato dallo Spiotta e dal Tenente Cristiani, non mi picchiarono, forse per la mia giovane età, ma appena a casa presi la strada dei monti e divenni un partigiano».

Minetti Antonio (“Gronda” n. 1920)
Da qui il testo di ricerca è di Gronda che scrive: Mi pare che questi fatti andassero descritti dettagliatamente, anche per dimostrare il valore di tutti coloro che si sono prodigati nello sfasciamento della Monte Rosa, dei pericoli a cui si esponevano, e con il sacrificio della vita, come toccò al Tasso Giovanni e al Canzio Antonio. (Nota fuori testo di Gronda: Gli alpini inviati dal Canzio in montagna erano del Rep. Sanità operante in Castiglione Chiavarese. Il Canzio ha sempre agito da solo, non si fidava di nessuno a Castiglione Ch.).
«La morte del Canzio la si deve soprattutto all’aiuto che sempre ha dato al movimento partigiano, al suo antifascismo e per l’abbattimento del fascismo stesso. Il “Tigre” con altri partigiani, in una azione a Masso fecero prigionieri n° 7 alpini, durante il ritorno si fermarono, come di consueto, in casa del Canzio in località Baresi di Castiglione Chiavarese. Venivano rifocillati, il Canzio diede le ultime notizie al Tigre, della forza e delle loro azioni delle forze delle forze nemiche (era il Canzio un ex maresciallo dei C.C.) poi il Tigre partì. Dopo qualche giorno, uno di questi alpini, fuggì, carpendo la buona fede dei partigiani e segnalò subito al comando quanto aveva visto e come il Canzio collaborasse con i partigiani. Appena scoperta la fuga, il comando partigiano, mandava ad avvertire il Canzio suggerendole di allontanarsi da casa, non volle sentire ragione e dopo poco lo prelevarono, lo incatenarono con le stesse catene con cui teneva legate le mucche e lo trascinarono a Castiglione Chiavarese. Lo fecero. Lo fecero sfilare così incatenato com’era nel paese come ammonimento dicevano, poi lo portarono a Chiavari e come il Tasso subì ogni sorta di sevizie finché lo portarono al poligono di Chiavari e lo fucilarono».

Braconi, la sua Signora e Piero, cognato di Braconi.
(Lavoro svolto da Naccari, Luciano – parente di Marzo – e Gronda).

Signora Braconi
La signora Bracconi, in quel tempo ancora signorina, abitava con il padre, la madre e il fratello, in Torza di Maissana, gestivano la rivendita di tabacchi e un negozio di commestibili. Fin dagli inizi delle formazioni partigiane collaborò con gli stessi e grande fu il suo apporto alla lotta di Liberazione; ma diamo a lei la parola:

«Sento, con molto piacere, che state raccogliendo materiale per dare a colui che scriverà la storia della Coduri e che adesso state cercando, come diceva prima Luciano, particolarmente materiale inerente lo sfaldamento della Monterosa, ebbene io posso dirvi che noi a Torza abbiamo molto lavorato in tal senso, particolarmente noi ragazze che più di altri potevamo avvicinare i giovani alpini venuti dalla Germania dove avevano detto loro che in Italia vi erano molti giovani che avevano tradito la Patria e si erano dati alla montagna e agivano come dei veri banditi, il loro compito era quello di far cessare quello sconcio e debellare una volta per tutte questa piaga, questa onta che macchiava il popolo Italiano. La parola che maggiormente dicevano era che i responsabili di questo erano i sovversivi e loro complici.
Noi ragazze che niente sapevamo di sovversivi, di partiti, di politica in genere, spiegavamo a questi giovani che non era vero niente di quanto le avevano detto in Germania, ma che anzi, coloro che erano in montagna lottavano per un’Italia nuova e libera e soprattutto lottavano perché la guerra avesse finalmente fine. Ma non pensate che fosse tutto così semplice, cioè poter parlare in questo modo con gli alpini: dovevamo prima fare amicizia con loro, vedere di come pensavano e capire se ci si poteva fidare e tutto ciò per noi inesperte, era un lavoro non indifferente. Capito poi il soggetto, visto che si poteva parlare cominciava il nostro lavoro di convincimento, di chiarificazione. Non vi nascondo che fra un appuntamento e l’altro ci scappava anche qualche innocente bacetto, ma noi pensavamo che il gioco valesse la candela.
Il lavoro fatto diede poi i frutti, che se proprio non andò in porto come noi avremmo voluto, servì a qualche cosa. Infatti diversi di questi giovani convintisi che la vera ragione stava dalla parte di coloro che erano in montagna parecchi di loro presero quella via, ma l’intendimento dei partigiani era un altro: vedere di avere colloqui con gli ufficiali comandanti il presidio di Velva, convincerli a passare in massa dalla loro parte!
Cominciammo allora ad avvicinare qualche ufficialetto e via via sempre più in alto fino a che gli altri, molto più preparati di noi e avendo un terreno già ben preparato combinarono un primo incontro proprio in casa nostra. Eravamo allora nel mese di Agosto 44 ed io venni avvertita di preparare un locale per un incontro fra i partigiani e il comando del presidio di Velva. Non vi nascondo la mia eccitazione e anche la mia soddisfazione! Preparai la saletta di casa, qualche bottiglia di buon vino, pane e un po’ di salame nostrano. Il giorno prestabilito, mentre ero in strada ad attendere le due delegazioni, vidi diversa gente del paese che scappava in preda al panico (erano coloro che nulla sapevano) e gridavano arrivano gli alpini, scappate…! Cercai di calmarli, ma non potevo dire loro quanto stava succedendo. Avevano avvistata una pattuglia di alpini, con in testa tre ufficiali, che si dirigevano su Torza. Ma ecco che dallo stradone provinciale, provenienti da Varese giungevano i partigiani, erano in 4 e precisamente: Virgola, Leone, Bocci e Gronda; non vi dico la meraviglia dei miei compaesani e degli sfollati! (allora erano molti. Le due delegazioni si incontrarono proprio di fronte a casa mia, si salutarono militarmente e si presentarono, ricordo il più alto in grado degli alpini, che poi seppi era il capitano Garofalo, rivolgendosi a Virgola disse: Finalmente ho il piacere di conoscere il famoso comandante, tutti parlano di lei e se devo dire la verità, ne parlano molto bene! Chiese poi di vedere le armi “americane” e infine si accomodarono in casa e iniziarono il colloquio. Di questo ne parleranno coloro che vi hanno preso parte. In seguito poi, visto che tutto non andò in porto come doveva, anche se altri colloqui ci furono, anche al Santuario di Velva, io e la mia famiglia, ormai scoperti, dovemmo darci alla fuga, senza per questo aver cessato mai di dare il nostro contributo alla causa comune». (evb)

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