Fasc. 30 – Doc. 6By Elio V. Bartolozzi: “Attestati di benemerenza dei Governi Alleati conferiti ai civili”. Nella fattispecie al cittadino bergamasco Giovanni Trabucchi residente in Liguria fin dal 1951, prima in Val Fontanabuona e poi a Lavagna, dove morì il 22 febbraio del 1967.

Giovanni Trabucchi

Per conferire un riconoscimento a chi si era particolarmente prodigato per la sconfitta del nazi-fascismo in Europa, alla fine del 2° conflitto mondiale il Comando Supremo delle Forze Armate Alleate istituì una serie di riconoscimenti destinati a coloro che maggiormente avevano contribuito alla vittoria finale sul nazi-fascismo.

Riconoscimenti che nel caso dei partigiani combattenti, consistevano principalmente nell’attribuzione della Bronze Star Medal, quarta onorificenza più elevata per valore dimostrato in combattimento, e nona fra tutte quelle riconosciute dalle forze armate statunitensi.
Durante l’ultima guerra (1940/45) l’U.S. Army ne assegnò 53 ad altrettanti cittadini italiani indissolubilmente legati alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Come, ma solo per fare qualche esempio, a: Ferruccio Parri, “Maurizio”, capo partigiano e membro del CNLAI, primo Presidente del Consiglio e Capo del Governo di Unità Nazionale istituito alla fine della guerra; a Raffaele Cadorna Jr, generale e comandante del CVL.; a Edgardo Sogno, partigiano e noto uomo politico nazionale; a Enrico Mattei, imprenditore e partigiano, poi deputato DC; a Ilio Barontini “Dario”, tra i primi fondatori del PCI e poi senatore per lo stesso partito; a Aurelio Ferrando “Scrivia”, comandante della nota divisione partigiana “Pinan-Cichero”; a Angelo Scala “Battista”, comandante della “Brigata Volante Balilla” attiva a Genova e delegazioni; a Eraldo Fico “Virgola”, comandante della divisione partigiana “Coduri” operante nel Tigullio e nel suo entroterra; e ad altri 45 valorosi.

Ai civili ritenuti meritevoli, vennero invece attribuiti degli Attestati di Benemerenza, come quello riportato nella parte terminale di queste note, concesso nella fattispecie al Sig. Trabucchi Giovanni, nato il 21.10.1893 a Bergamo, ove allora risiedeva, in Via Fontana n. 19. Il quale, durante la guerra aveva (con tutti i rischi, per sé stesso e per la sua numerosa famiglia che da questo suo operare ne poteva derivare, qualora fosse stato scoperto) occultato, fornendo vitto e alloggio, a decine di persone, militari e civili compresi, sia italiani che di altre nazionalità (tipo russi, polacchi, iugoslavi, greci, francesi, inglesi, ecc.), sottraendoli a sicura cattura e conseguenti condanne a morte o inviate, con pochissime speranze di poterne uscire vivi, in campi di concentramento in Germania ad opera delle SS e dei loro aguzzini italiani presenti ovunque.
Nel caso qui documentato, l’attestato, accompagnato da una lettera di ringraziamento, consta d’una pergamena di medie dimensioni (26,5 x 19 cm) scritta su entrambe le facciate. Sulla facciata anteriore, in lingua inglese, è contenuta la motivazione con la firma autografa del Generale H.R. Alexander; mentre sulla facciata posteriore vi è la versione in italiano dello stesso documento.

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Come visto sopra, Giovanni Trabucchi (n. 1893) era bergamasco di nascita, coniugato con la signora Maria Assunta Lupini, nata in località Carlinga, sempre in Bergamo, in data 03.08.1896. Contadino lui, operaia del Cotonificio  Legler  di Ponte S. Pietro – dove all’epoca lavoravano centinaia di persone, in gran parte donne – Maria Assunta. Spesso di questo suo vecchio lavoro lei ne parlava volentieri con me, soffermandosi  soprattutto su quando, d’inverno, doveva percorrere a piedi il lungo tragitto da casa sua al lontano stabilimento: roba da far accapponare la pelle tanto erano indolenzite dal freddo le sue mani e i suoi piedi. Poi una sera si vide seguire da un uomo, un giovanotto mica tanto male, che si offrì di accompagnarla a casa, dove, nel lasciarsi, si scambiarono solo un cordiale e un po’ impacciato buonasera.
Lo rivide però la sera dopo. Lui giunse in bicicletta, le si affiancò e a piedi proseguirono verso la Carlinga, chiacchierando mentre lui fumava. Il loro fidanzamento fu breve, solo pochi mesi, poi decisero di sposarsi e la coppia andò ad abitare, come frequentemente accadeva allora, in casa dello sposo, insieme al suocero Antonio, vedovo da qualche anno; una cognata nubile, Teresa; e un cognato, Giuseppe, non sposato.
La casa, non più esistente, si trovava a Longuelo, sulla sinistra dell’imbocco di via Astino con via Longuelo, dove nacquero tutti i loro figli; dei quali alcuni, purtroppo, che si spensero ancora in fasce. Solo cinque rimasero i superstiti: Ricardo (1921/1978), Angelo (1929/2008), Anna (1931/2016), Arturo (1934/2013), Rachele (n. 1936); due femmine e tre maschi. I maschi, tutti deceduti in Liguria, si erano anche sposati tutti e tre con ragazze di quest’ultima regione, e la figlia Anna, anch’essa sposatasi in Liguria con il fu Vinicio Ferrali, di origine toscana, alla loro morte, tranne Ricardo, hanno lasciato figli, nipoti e pronipoti. L’unica rimasta ancora in vita è la figlia Rachele che abita a Sestri Levante (GE), col marito. Pochi anni prima lo scoppio della guerra, l’intera famiglia di Giovanni si era intanto trasferita da Longuelo in Fontana, prima zona collinare della bassa Val Brembana poco sopra la chiesetta della Madonna della Castagna, in un bel podere con grande casa colonica: composta da un’ala destinata ad abitazione, posta al primo piano, affiancata da un ampio fienile con sulla facciata un’apertura ad arco da cui gettare giù il foraggio per governare il tesoro di famiglia: le due o tre mucche e qualche pecora da loro possedute, che erano alloggiate al piano terra, accanto alla cantina e all’ingresso principale della casa.
Qui la vita della famiglia di Giovanni procedeva serena, e anche abbastanza tranquilla sotto il profilo economico. Il proprietario, di nome Alliata (o Agliata), milanese e possidente di altre tre fattorie contigue a quella dei Trabucchi, era sufficientemente comprensivo e poco invadente; il terreno era fertile e il podere era grande a sufficienza per sfamare tutta la famiglia; l’acqua, sia quella per usi domestici sia quella per irrigare i campi, era buona e bastante per i diversi bisogni. Anche la frutta era abbondante. E la produzione di vino, per uso famiglia, bastevole. Nella stalla erano sempre presenti un paio di mucche, uno o due maiali, qualche pecora che forniva lana e carne alla famiglia, e qualche decina di conigli. Fuori, nell’aia, razzolavano diversi animali da cortile, anatre e galline soprattutto, che fornivano uova e carne da vendere, anche a chi passava di lì e ne chiedeva. Pure i figli crescevano bene: sani e con buona voglia di lavorare, sia in famiglia che periodicamente in giornata presso altre famiglie contadine della zona.
Poi, a sconvolgere ogni cosa, sopravvenne la guerra. Giovanni, pur non occupandosi direttamente di politica, lui ex bersagliere, era abbastanza assiduo frequentatore del circolo “ex combattenti e reduci” locale dove certamente s’era parlato e si continuava a parlare di politica. Riguardo ai figli e alla possibilità di una chiamata sotto le armi e di un loro successivo invio al fronte, non c’era troppo da preoccuparsi: infatti il maggiore, presentatosi al normale servizio di leva, aveva ottenuto il congedo illimitato per motivi di salute; e il secondo e il terzo (rispettivamente del ‘29 e del ‘34) erano ancora troppo giovani per correre questo rischio.

Ma la guerra aveva in serbo un qualcosa di assai più grave per tutti quanti. Infatti, a partire dagli ultimi mesi del ’41 e giù fino alla fine della conflitto, a gruppi di due o tre, o anche singolarmente, all’uscio di Giovanni si presentarono inizialmente gruppetti di jugoslavi ch’erano riusciti a evadere dai vari campi d’internamento fascisti disseminati nella bergamasca, (NOTA – da www.campifascisti.it: all’epoca a Bergamo risultano particolarmente attivi il Campo P.G. N° 92 di Grumello del Piano e i seguenti distaccamenti dipendenti da questo: dist. Di Caravaggio (BG); dist. di Palosco (BG); dist. di Fontanella (BG); dist. di Maniva (BS); dist. di Edolo (BS); dist. di Buccinasco (MI);  dist.i di Truccazzano cascina Malombra e cascina Truccazzano (MI), e dist. Villa D’Adda (BG), con un numero d’internati superiore anche ai 3.100. Non si hanno invece notizie certe su quanti siano stati i campi di lavoro sparsi un po’ dovunque ma facenti sempre capo ai suddetti campi prigionieri o d’internamento.) chiedendo rifugio e qualcosa da mangiare. Giovanni e la sua famiglia accolsero sempre tutti e, come poterono, diedero loro da mangiare. Poi, chi dopo qualche giorno chi dopo periodi più lunghi, lasciavano la casa per tornarsene, almeno così speravano, alla loro patria d’origine.
Non si hanno scritti di Giovanni e di nessun altro componente della sua famiglia – compreso il padre – che ci spieghi in dettaglio com’era organizzato tutto questo movimento di persone. Ma data la cadenza ravvicinata tra la partenza di alcuni e l’arrivo quasi simultaneo di altri, si ha l’impressione che a organizzare queste evasioni dai campi di prigionia, o dai diversi distaccamenti presenti nella bergamasca e nelle vicine provincie di Brescia e Milano, ci fosse qualche associazione di primo soccorso e sostegno che organizzasse il tutto e smistasse i fuggiaschi, in un primo momento, presso famiglie contadine fidate per poi accompagnarli al sicuro oltre confino. Perché molti di questi fuggiaschi – sempre secondo il ricordo dei figli con i quali il padre si è sempre trattenuto a parlare poco con loro di questo specifico argomento – nei discorsi loro facevano spesso riferimento alla Svizzera e ad altri itinerari forse ritenuti più sicuri. Ma era anche abbastanza difficile intendersi con loro, perché solo pochissimi sapevano qualche parola d’italiano.
In particolare, i figli di Giovanni ricordano soprattutto quello che allora avevano visto  direttamente nella fattoria paterna. Per esempio, si ricordano alla perfezione dei seguenti fatti, di cui però non sono ormai più in grado di collocarli cronologicamente nel tempo: dopo il primo flusso di arrivi composto di quasi tutti jugoslavi, fu la volta di un certo numero di greci, poi diversi francesi, qualche inglese, eccetera. Specialmente il ricordo di due jugoslavi hanno ben chiaro in mente, perché piuttosto aggressivi e violenti. E che spesso e volentieri bisticciavano fra di loro fin a quando uno non prese l’altro per la gola e con forza lo voleva spingere giù da un muro alto più di qualche metro. Finché non intervenne Giovanni a minacciarli di mandarli tutt’e due a spasso. Queste minacce ebbero l’effetto di calmarli e finalmente dopo pochi giorni se n’andarono per conto proprio.
Un altro fatto costantemente ricordato dall’intera famiglia è quello accaduto, sempre tra due jugoslavi, che praticarono il cosiddetto giuramento di sangue. Con la punta del rasoio si fecero uscire qualche goccia di sangue dai loro polsi sinistri, poi li unirono e li tennero stretti per alcuni minuti recitando entrambi parole nella loro lingua, che nessuno riuscì però a capire. Poi si abbracciarono e si baciarono; e indicandosi l’un l’altro con l’indice ripetevano: «Noi fratelli, noi fratelli…», mostrando, a chi li stava osservando, i due polsi con sopra lievi tracce di sangue. Anche la figlia Anna (n. 1931/2016) raccontava spesso di quando, quasi ogni mattina, prendeva una secchia di latte appena munto che la madre le aveva già preparato, e, passando da S. Sebastiano e proseguendo poi lungo la strada delle Mura, andava a venderlo in Bergamo Alta, percorrendo a piedi questo lungo tragitto. Oltre la fatica, c’era anche un po’ di paura quando, nei pressi della chiesa di S. Sebastiano, doveva per forza attraversare un campo di prigionieri al lavoro – che si diceva fossero inglesi – che in silenzio la guardavano e la seguivano con lo sguardo, ma nulla di brutto era mai successo: né uno sgarbo né mai una parola fuori posto. In seguito non giunsero più soltanto jugoslavi, ma si aggiunsero alcuni greci, un paio di francesi, un indiano, almeno all’apparenza, e qualche altro di nazionalità indefinita.

E questo fino all’8 settembre 1943.

Perché già dal giorno successivo all’8 sett. si videro militari italiani abbandonare l’esercito e scappare verso i propri luoghi di residenza, e prigionieri in fuga dai campi di lavoro. Anche presso la casa di Giovanni si videro frotte di militari salire su da Mozzo e da altre direzioni, e correre a nascondersi tra i castagni e il bosco sopra le Cornelle, per poi allontanarsene. Qualche gruppo si fermava anche all’uscio di Giovanni a chiedere indumenti civili da indossare al posto della divisa; oppure cibo e bevande; oppure informazioni circa la direzione verso determinate città o regioni; o dov’erano ubicati i presidi delle SS e delle BN, se presenti in zona. La famiglia di Giovanni dava loro tutto quello che poteva, ma erano veramente tanti. In genere tutti bravi ragazzi, educati e rispettosi. Qualcuno, però, più arrabbiato, poteva anche mostrare qualche atteggiamento più violento, e lasciar capire che in tasca aveva pure qualche arma o un coltello che non avrebbe avuto nessuna remora a usare in caso di necessità o presunto pericolo. Ma era la paura che si agitava soprattutto in loro: la paura di essere catturati dai nazisti, e dai loro aguzzini italiani, e spediti in Germania a morirvi di stenti nei loro lager. Superato questo periodo, dove la confusione imperava su ogni cosa, la paura era tanta per chiunque e le notizie più disastrose viaggiavano alla velocità del fulmine. In tutti subentrò poi una specie di rassegnazione interiore che però non impedì a tanti di prendere coscienza degli eventi e operare a volte delle scelte conseguenti che nessuno aveva mai supposto di dover prendere.
Così avvenne che molti, per la maggior parte giovani o richiamati delle precedenti classi, magari già reduci del fronte russo, si rifiutarono di obbedire alle chiamate militare e si nascosero presso parenti o amici, o si rifugiarono in montagna. Oppure molti, per non mettere a repentaglio la vita dei propri cari (com’era chiaramente minacciato nei diversi bandi di arruolamento della RSI nei riguardi dei renitenti o dei richiamati: che se non si fossero dati presenti, nei luoghi indicati nei bandi, entro e non oltre i tre giorni successivi la perentoria data di scadenza ivi indicata, sarebbero stati dichiarati disertori e la pena di morte prevista dal C.P.M.G. per questo reato, sarebbe inevitabilmente ricaduta sui loro più stretti famigliari) li costrinse ad aderire, rimanendo in attesa di tempi più idonei per ulteriori decisioni, quale la diserzione per esempio.
Ma una bella sera (il 17 marzo 1944) tra gli alberi del vicino bosco, sopra la chiesetta della Madonna della Castagna, i Trabucchi videro la sagoma di un uomo muoversi con circospezione tra le piante, e poi dirigersi verso la loro casa e mettersi a parlare. Disse di essere piemontese e di non sentirsi troppo bene, perciò chiedeva aiuto, e chiedeva anche di potersi riposare qualche ora per poter poi riprendere il viaggio. Venne accolto e rifocillato con polenta e latte caldo e poi messo a dormire in un angolo del fienile dove rimase per più di un mese. Nella sua dichiarazione resa il 4/6/1945 per attestare quanto a lui accadde in quel periodo, su carta intestata del Comando Divisione Marengo, di cui egli era divenuto comandante, scrive:

TRASCRIZIONE:
Comando Divisione Marengo
Alessandria, lì 4 Giugno 1945
OGGETTO: Dichiarazione.

Io sottoscritto Comandante Nello (Capitano Novello Leone) della Divisione Matteotti Marengo dichiaro quanto segue:

Comandante di Gruppo Autonomo nelle Langhe venivo arrestato il   Giorno 7 Genn  1944 dalle SS. tedesche durante un rastrellamento.
Tradotto alle carceri di Torino, il giorno 17 Marzo mentre stavo per essere deportato in Germania riuscivo a fuggire da Bergamo.
Cercato rifugio nei cascinali circostanti della città trovavo nella casa di Trabucchi Giovanni buona ed ampia ospitalità.
Ebbi subito per interessamento del Trabucchi assistenza medica date le precarie condizioni di salute.
Il Trabucchi si recava anche presso la mia famiglia (Cassinasco Asti) per il ritiro di indumenti onde permettermi di riprendere la mia attività.

                                                                                                   [Segue timbro tondo: – COMANDO DELLA DIVISIONE  – con firma soprascritta]                                           

NOTA e.v.b.:  Una delle tante testimonianze della meritoria opera del Sig. Giovanni Trabucchi a favore della Resistenza. A renderla è stato il partigiano piemontese “Nello” (Novello Leone) nato a Cassinasco (AT) l’11.04.1914: Capitano in SPE del disciolto Esercito Italiano, unitosi alla Resistenza (in banda autonoma) in data 01.11.1943; nominato comandante di Brigata (entro la Div. Matteotti Marengo) in data 01.07.1944; poi elevato a Comandante della stessa Divisione in data 30.09.1944 e rimasto tale fino all’08.06.1945. (Notizie fornitemi da ISTORETO – Istituto Storico della Resistenza di Torino).

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Quindi era un ricercato delle SS tedesche, particolarmente pericoloso da tenere in casa. Ma la famiglia dei Trabucchi lo tenne lo stesso nascosto e lo fece curare da un dottore amico. Giovanni si recò poi ad Alessandria, presso la famiglia, per informarla prima dello stato del loro congiunto e poi per prendergli degli abiti e della biancheria personale di ricambio.
Tale viaggio durò in pratica quattro lunghi giorno che tennero in molta apprensione la famiglia di Giovanni, ma alla fine lui tornò a casa sano e salvo.
Ma solo pochi giorni dopo che l’ingombrante ospite aveva lasciato la fattoria di Giovanni (quindi era trascorso più d’un mese), arrivò una squadra di militari della Wehrmacht che circondò la casa, e in seguito due di loro che conoscevano un po’ l’italiano si misero a interrogare a uno a uno tutta la famiglia. Ma avendo ricevuto soltanto dinieghi, arrestarono Giovanni e lo condussero al loro comando di città. A tutti i costi volevano sapere che cosa era andato a fare ad Alessandria, chi conosceva là; gli chiesero anche esplicitamente del fuggiasco, ma Giovanni negò sempre. Però loro erano molto bene informati, probabilmente qualcuno aveva fatto la spia e adesso volevano riprendersi il loro prigioniero. Giovanni continuò a negare, tanto che alla fine lo minacciarono di fucilarlo. E probabilmente lo avrebbero anche fatto, se, secondo quanto hanno poi pensato in molti, non fosse intervenuto qualcuno che, in assoluto anonimato, avesse preso le sue difese salvandolo da morte quasi certa. Il giorno dopo venne infatti liberato. E i Trabucchi hanno sempre ritenuto che a intervenire fosse stata la Parrocchia; oppure il loro padrone di casa che, grosso possidente terriero, era tenuto in certa considerazione dai fascisti nostrani e anche dai tedeschi, loro degni alleati. Fatto si è che dopo aver dormito in guardina due notti Giovanni venne rilasciato. Ma la paura sua e dei suoi famigliari fu tanta, comunque i Trabucchi continuarono, con più prudenza, a prestare aiuto a tanta gente che scappando si presentava davanti al loro uscio.
Un altro episodio che nessuno di loro dimenticò mai, fu quando, un giorno, arrivarono quattro russi che si diceva fossero precipitati con il loro aereo nella campagna bergamasca, non troppo lontano da casa Trabucchi. Difatti vestivano una tuta da aviatori ricoperta di fregi disseminati un po’ ovunque. Tra loro c’era un giovane, senz’altro un pezzo grosso nella loro scala gerarchica, che gli altri non lasciavano mai solo. Anzi, in pratica lo tenevano quasi circondato, e dove andava lui andavano anche gli altri disposti in cerchio intorno a lui. Rimasero nascosti nella stalla dei Trabucchi (si suppone quindi che fosse inverno) per una notte soltanto, e da mangiare avevano chiesto solo polenta e latte appena munto. Al mattino dopo, quando la moglie di Giovanni entrò nella stalla per mungere le mucche, loro se n’erano già andati: in giro si sparse poi la voce che tra loro ci fosse uno dei figli di Stalin. Circostanza che però non fu mai possibile dimostrare e il dubbio è rimasto vivo fino ad oggi.

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Ho scritto queste note con la segreta speranza che in un angoletto del palco delle celebrazioni per il 70° Anniversario della Liberazione trovino idealmente posto, anche se minimo, tutti coloro che, come i componenti della famiglia di Giovanni – che in Italia sono sicuramente centinaia – si sono prodigati rischiando molto ma senza mai chiedere nulla per sé. Perché la Resistenza, quella spontanea, semplice, quella del popolo comune, quella che nei fasti celebrativi viene quasi sempre taciuta o ignorata. Io non ho mai incontrato Giovanni di persona perché, quando ho conosciuto i suoi due figli più giovani, era già mancato: a Lavagna (GE), cittadina della Riviera ligure di levante, dove s’era trasferito con l’intera sua famiglia – tranne il padre ch’era mancato poco dopo la fine della guerra e la sorella Teresa che s’era nel frattempo maritata – durante l’anno 1951. La documentazione qui riprodotta, che è solo una parte di quella originale contenuta nel suo fascicolo personale riguardante l’attribuzione della Benemerenza Alleata, me l’ha consegnata nel 1978 la vedova del figlio maggiore di Giovanni, Riccardo, deceduto proprio in quell’anno. Nel plico sono contenuti solo 11 documenti tutti scritti in italiano e rilasciati da persone italiane ch’erano state aiutate dalla famiglia Trabucchi. Invece la parte di documenti in lingua inglese inerenti specialmente le pratiche dei militari alleati occultati sono invece contenuti in due distinti archivi: uno a New York e un altro a Londra.

(evb 2016)