Dopo Genova, ritengo doveroso fare anche qualche cenno a ciò che avvenne nel Tigullio e nelle altre città della Riviera ligure di levante dove avevano principalmente operato le tre unità partigiane nominate nel titolo. Infatti anche in queste aree vi sono episodi che meritano senz’altro di essere enumerati; oltre dare uno sguardo, sia pur rapido, a quelle che sono state le linee e i percorsi salienti dei tre/quattro giorni che ruotano intorno alla liberazione dall’occupazione nazista in Liguria. E in questo limitandomi a riportare, al momento, solo della VI l’ultima puntata di una breve storia della Coduri apparsa in sei puntate sul giornale IL LAVORO di Genova nelle settimane precedenti la ricorrenza del Trentennale del 25 Aprile 1945:

Da IL LAVOROCronache del Levante, Pagina 4 di Venerdì 25 aprile 1975:

CONCLUDIAMO LA BREVE STORIA SULLA LOTTA DI LIBERAZIONE COMBATTUTA SUI MONTI E NELLE CITTÀ DEL LEVANTE

25 Aprile ’45: Il Tigullio liberato dai partigiani.

VI ed ultima puntata.

L’inizio della primavera se­gnerà una svolta decisiva nella storia della II guerra mondiale. Oramai il mostro Germania nazista è pressoché circondato e le sue «armate invincibili» sono co­strette a subire sconfitta dopo sconfitta, ritirata dopo ritira­ta.

Le notizie sulle vicende dei vari fronti arrivano in monta­gna, alle volte in ritardo alle volte in modo frammentario, ma sono tutte piuttosto con­fortanti e ciò contribuisce a diffondere una certa euforia tra i partigiani. Tra le altre cose ora gli Alleati non prati­cano più la politica della le­sina e gli aviolanci si susse­guono con una certa regolare frequenza ripagando così, an­che se forse un po’ tardiva­mente, i partigiani delle pri­vazioni sofferte in precedenza.

Alle formazioni arriva an­che sentore di certi contatti che avvengono a Roma tra gli esponenti dei partiti antifa­scisti per tracciare il profilo di base di quello che dovrà poi essere il governo dell’Italia li­bera.

Insomma, anche in monta­gna, dopo mesi di privazioni, si stava cominciando a respi­rare aria di vigilia.

Gli ordini del Comando di Zona erano comunque peren­tori: rendere in tutti i modi la vita difficile al nemico, ormai in ritirata su tutti i fronti, per impedirgli di distruggere le in­frastrutture e i centri produt­tivi della Liguria. Era ciò che la Coduri aveva sempre fatto, ma questa volta i pericoli erano evidentemente mag­giori e tali da spingere la Coduri ad attaccare in forze i ca­pisaldi nemici.

Quattro giorni prima della Liberazione nazionale infatti, la Zelasco, strappandola di mano al nemico, occuperà S. Vittoria di Libiola: è il primo atto di quel fremito insurre­zionale che porterà la libertà, quella libertà tante volte va­gheggiata nell’arco territo­riale del Tigullio.

Il 23 aprile la Dell’Orco oc­cuperà poi Castiglione Chiavarese, Casarza Ligure e nella notte Moneglia e Riva Trigoso. Sempre il 23 la Zelasco, dopo un’accanita lotta pro­trattasi per l’intera giornata, occuperà Lavagna e Sestri Levante; e la Longhi, attra­versando nottetempo l’Entella, si porterà a Ri Alto da do­ve, sgominando ogni resi­stenza nemica, scenderà a Chiavari occupandola per buona parte.

Il 24 gli Alleati giungeranno a Lavagna. Ma una batteria nemica posta al limitare occi­dentale dell’abitato di Chia­vari, per proteggere il grosso delle sue forze in precipitosa ritirata verso la pianura pada­na, continua a bombardare Lavagna e il ponte sull’Entella. Gli Alleati decidono di piazzare le loro artiglierie per sgominarla. Risaputa la cosa, Virgola si porta allora dal Comando alleato per chiedere 24 ore di tempo onde poter li­berare Chiavari dalle residue forze nemiche senza provoca­re, con un bombardamento, una inutile strage di civili e danneggiare, forse irrimedia­bilmente, la bella città rivie­rasca. Anche se un po’ a ma­lincuore, l’autorizzazione gli viene data.

Dopo una notte di combattimenti e di agguati, il mat­tino del 25 aprile anche Chia­vari è completamente in mano partigiana.

Lo stesso giorno la Coduri proseguirà la sua marcia vit­toriosa (sempre precedendo le forze alleate in avanzata) verso Zoagli, Rapallo, S. Mar­gherita Ligure e Portofino occu­pando una città dopo l’altra. In queste ultime fasi la Coduri sarà validamente affiancata da alcuni reparti della Brigata Berto e della Caio.

Le armate Alleate possono così convergere, senza colpo ferire, su Genova; anch’essa però già in mano partigiana dopo la resa del gen. Meinhold al Comando di Piazza dei Vo­lontari della Libertà.

Con il vanto di essere stata una delle prime bande a costi­tuirsi nel Levante ligure, col pregio di aver lottato sempre con lealtà e onore e senza mai perdere di vista i contenuti ideologici unitari della lotta all’infausto reazionarismo nazifascista, il 25 aprile 1945 la Coduri consegnava il Tigullio liberato e in festa in mano alla sua popolazione laboriosa onde potesse svolgervi le sue normali attività per un nuovo e più vasto sviluppo democra­tico; al quale e per il quale non solo i partigiani combattenti hanno lottato e vinto ma gli antifascisti tutti, a comin­ciare dai perseguitati politici, dai deportati nei famigerati campi di concentramento na­zisti, per giungere giù fino al popolo tutto che in modo a volte drammatico ha sofferto e offerto le sue vitali energie per una vera riscossa demo­cratica; dalla quale aspetta tuttora, purtroppo, alcune di quelle realizzazioni che allora sembravano così naturali e facilmente conseguibili.

A chiusura di queste brevi note, per evidenti motivi in­sufficienti a illustrare in modo esauriente le vicende di una divisione partigiana ricca di episodi d’importanza note­vole qual è quella della Codu­ri, e scusandoci per le even­tuali omissioni, per altro ine­vitabili in questo tipo di trat­tazioni, crediamo doveroso ri­cordare qui succintamente il contributo di gloria e di san­gue dato dalla Divisione Ga­ribaldi «Coduri» nella lotta di Liberazione: partigiani com­battenti 1458 (877 ca. quelli poi effettivamente riconosciuti dall’apposita Commissione Regionale Qualifiche); caduti 65; feriti 126; deceduti per malattia 16: mutilati 23; decorati 32.

Elio V. Bartolozzi

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Di seguito desidero riportare un interessante capitolo, liberamente tratto da un libro di Bruno Pellizzetti intitolato “Dalla montagna vedevamo il mare”, nel quale l’autore, quando gli Americani che stavano inseguendo le truppe germaniche in precipitosa ritirata giunsero a Chiavari, venne ingaggiato dall’esercito statunitense per far da guida ad un reparto di fanteria USA che doveva avanzare su Genova transitando lungo il litorale, ma che a Chiavari riceveva l’ordine dai suoi superiori di percorrere invece la strada interna della Fontanabuona, via Bargagli e strade interne, fino ad intercettare e tagliare la via di fuga alle truppe germaniche in ritirata provenienti da est, da Sestri Levante e località dello spezzino, percorrendo la via Aurelia, per deviare poi a Recco e prendere la rotabile verso la pianura padana e guadagnare così il confine; per poi (almeno nelle intenzioni) proseguire verso la Germania e rientrare in patria. Mentre gli americani, e quindi il partigiano “Scoglio” che fungeva da loro guida, dovevano raggiungere Genova scendendo verso il litorale nei pressi di Ge-Nervi e ricollegarsi al grosso delle truppe americane e alle forze partigiane che le precedevano, provenienti dal levante ligure, via via liberato dagli stessi partigiani. Ed è lo stesso “Scoglio” che ce lo racconta:

Liberamente tratto da:
Bruno Pellizzetti “Scoglio”: “Dalla montagna vedevamo il mare” – EDITRICE NUOVI AUTORI, 1995, Capitolo X, – pp. 161/184

GLI AMERICANI – 25 Aprile 1945

La fine della guerra si approssimava, i tedeschi si sta­vano preparando a lasciare la Liguria, a superare gli Ap­pennini e a disperdersi nella Val Padana, cercando di rag­giungere velocemente il confine svizzero. Gli alpini non aderivano all’idea, molti si arrendevano non appena pren­devano contatto con noi. In un solo colpo, in quei giorni, se ne erano arresi una settantina. I fascisti si rendevano conto che la situazione si complicava molto più per loro che per gli alpini e i tedeschi. Preparavano anche loro la fuga. Alcuni vestirono la divisa tedesca e si mescolarono alle truppe in ritirata.

Da Sestri Levante, dov’era minore la resistenza, il fronte della battaglia s’era spostato verso Chiavari. I te­deschi avevano evacuato Velva ma i partigiani delle for­mazioni della zona non si sganciavano dal nemico per cui tutto il fronte partigiano s’era ulteriormente approssimato alla costa.

Mentre Riccio (Aldo Vallerio, com. Brg. Zelasco) dopo aver liberato Riva Trigoso e Sestri Levante si unì a noi che stavamo avanzando verso la zona di Cavi e di Lavagna. Virgola aveva capito che il suo comando doveva avvicinarsi a Lavagna per prepararsi ad attaccare Chiavari, dove s’erano concentrate le forze nemiche. Procedendo verso ovest attaccammo un piccolo castello dov’erano alloggiati una quindicina di alpini che si arresero appena li bersagliammo con due soli colpi di bazooka.

Poi, con un centinaio di uomini e gli alpini fatti prigionieri, decidemmo di salire la collina verso Santa Giulia, per scendere poi a Cogorno, sulla strada che porta a Lava­gna. Con noi c’era pure Tigre con un gruppo di partigiani venuti da Casarza a darci una mano. Tigre era il comandante della terza Brigata, la Dall’Orco, che nor­malmente operava sopra Riva Trigoso.

Una nostra pattuglia era intanto scesa verso Cogorno e ora tornava a informarci che da Lavagna erano partiti verso Santa Giu­lia delle autoblinde guidate da alpini. Era la risposta al nostro precedente at­tacco al castello.

Tigre con alcuni dei suoi si pre­parò a scendere per controllare la situazione ma ebbe poca fortuna. Sta­va maneggiando una bomba a mano che scoppiò e lo ferì gravemente. La sua faccia sanguinava, tutta bruciacchiata. Un occhio era malamente ferito. I suoi uomini lo carica­rono su una barella e lo portarono via.

Noi restammo a Santa Giulia. Virgola (Eraldo Fico, com. Div. Coduri) era, come del resto tutti noi, sconvolto, preoccupato per l’inci­dente. Al Comando della Dall’Orco, Tigre venne sostituito da Gronda, il suo vice.

Non potei vedere Saetta durante quelle operazioni perché s’era fermato, con la sua Brigata Longhi, in Val Graveglia, in allerta per scendere a Chiavari in caso di bisogno.

All’alba del 24 aprile scesi a Lavagna, mi seguivano una quindicina di partigiani della brigata Zelasco, quella di Riccio.

Non ci fu nessuna resistenza per cui giunsi alla piazza della stazione. Non c’era posto di blocco ma un grande fosso, scavato per impedire l’avanzare dei carri ar­mati alleati. Perciò proseguimmo fino alla piazza del municipio per una strada interna.

Col mio Marleen avanzavo guardandomi intorno con circospezione, convinto che il pe­ricolo potesse venire da eventuali cecchini ben rintanati. Il pericolo non erano né i tedeschi né gli alpini ma i fascisti completamente abbandonati a loro stessi, e quindi col dente avvelenato. Arrivai così in piazza del municipio e presi il viale che porta all’Entella. Non c’era anima viva. Con la mia gente andai fino al ponte che attraversa il fiume: di nemici, nemmeno l’ombra. Dall’altra parte del ponte, verso Chiavari, neppure là c’era gente. Solo silenzio.

Tornai indietro verso Lavagna e dalla piazza vidi che arrivava una jeep americana con quattro soldati a bordo. Mi rivolse la parola un capitano di fanteria che mi chiese dov’erano i tedeschi. Quando gli spiegai come stavano le cose mi con­fessò che era stupito di aver fatto centinaia di chilometri, dalla Toscana, senza incontrare nessun nemico.

Non aveva neppure la carta militare del posto e io gli prestai la mia. Gli consigliai che scendesse dalla jeep e venisse con me fino al fiume Entella da dove avrebbe po­tuto valutare meglio la situazione. Con la radio trasmit­tente informò il suo comando e poco dopo arrivarono al­tre due jeep. In una di esse veniva il comandante della compagnia. Camminando, senza che nessuno ci sparasse, entrammo nell’ultima casa a sinistra sull’Entella e il co­mandante americano si collocò davanti a un’ampia finestra totalmente spalancata e con i cannocchiali ispezionava la riva opposta. Non si udivano spari, sembrava di vivere una domenica d’estate. Altri ufficiali americani erano intan­to arrivati alla casa.

Laggiù, lontano, nell’ampia strada che da Chiavari conduce al ponte sull’Entella, apparvero tre persone che impugnavano una bandiera bianca. Uno era in divisa da ufficiale, poi vidi che era della Croce Rossa.

Gli altri due erano preti. Quando arrivarono dalla nostra parte del ponte uscii allo scoperto e mi avvicinai a loro.

«Veniamo a chiedervi che sospendiate le azioni di guer­ra per 48 ore» disse l’ufficiale che continuò: «I tedeschi sono disposti a lasciare la città e si ritireranno. Se non gli date il tempo di farlo ci sarà un duro combattimento, con morti a Chiavari e a Lavagna e le città saranno distrutte.»

Capivo bene quanto fosse difficile la missione che il comando tedesco aveva affidato a quei tre uomini di pace. Consultai il comandante americano che fu d’accordo con me che non conveniva concedere nessuna tregua. Si erano asserra­gliati tra quelle montagne e non potevamo lasciarli scap­pare verso Milano. Tornai e rivolgendomi ai tre: «Ci dispiace ma i tedeschi sono in una trappola e non possiamo dar loro il tempo di arrivare alla Valle Padana.»

I tre, poco convinti, mi voltarono le spalle e ripassa­rono il ponte in senso inverso. Li osservai camminare lentamente in fondo alla lunga strada.

Fu allora che il ponte esplose con un boato. Fu il se­gnale per i tedeschi, che cominciarono a sparare contro di noi. Erano appostati in trincee nel campo sportivo di Chiavari, sull’altra sponda dell’Entella. Spalla, un parti­giano di tredici anni, un bambino, cadde colpito da una pallottola. Entrai nella casa.

Una batteria tedesca, da una montagna alle spalle di Chiavari, cominciò a sparare. Il destino volle che una bom­ba scoppiasse proprio sotto la nostra finestra. Io ero se­duto, impotente, in un angolo della stanza e vidi il co­mandante americano portarsi una mano al collo e cadere. Aveva una grossa ferita e non potevamo fermargli l’emor­ragia. Un suo compagno introdusse tutto il pugno nel suo collo ma il ferito morì. Nessuno degli altri ufficiali prese il comando delle operazioni. La casa cadeva a pezzi sotto le cannonate che ora ci centravano in continuazione. Era me­glio che ci ritirassimo nella seconda casa.

Si avvicinò a me un ufficiale di artiglieria e mi chiese che lo accompagnassi al piano superiore per individuare le batterie nemiche. Le bombe già cadevano sulla seconda casa. Il pavimento della stanza del piano superiore si era staccato dal muro maestro ed era inclinato, ma era ancora ag­ganciato all’altro muro che sosteneva le scale. Ci acco­stammo strisciando sul pavimento. Poi lui si tolse di tasca un aggeg­gio munito di specchio che serviva a misurare l’angolo di tiro in direzione alle batterie nemiche, delle quali, quando sparavano, potevamo vedere le vampate dei loro cannoni. Anche questa casa cadeva però a pezzi per cui scendemmo in cantina dove c’erano le radiotrasmittenti, ma neppure lì eravamo al sicuro. Da una piccola finestrella a livello del marciapiede esterno, entrò una scheggia che tagliò la lamiera della radio. Pas­sammo alla terza casa.

Vidi accanto a me un partigiano. Lo guardai meglio e non potei credere ai miei occhi. Era il tedesco che un paio di mesi prima avevamo catturato a Sorlana, quando lo avevamo mandato come esca e che avevamo legato come un salame e nascosto in un pozzo secco dove era rimasto tre giorni. Non avevo saputo più nulla di lui ed ora era rimasto l’ultimo dei miei uomini. Gli dissi di andare a Cogorno a chiedere a Virgola che mi mandasse rinforzi. Non lo vidi più, neppure seppi se l’ordine fu eseguito.

Gli americani non rispondevano più al fuoco e ci ri­tirammo a Lavagna. Mi dissero che presto sarebbe arri­vato il nuovo comandante e, nel frattempo, l’artiglieria pesante.

Un capitano mi invitò ad andare con lui. Mi portò sul lato destro del viale che va all’Entella ad una palazzina bianca di tre piani che aveva le finestre rotonde come una nave. Ricordo bene le finestre perché gli americani, al secondo piano, avevano collocato al centro della stan­za un voluminoso cannocchiale su un treppiede e mi ci piazzarono.

«Guarda le montagne» mi disse il capitano. «E quan­do il centro della griglia è sull’obiettivo indicamelo.»

Guardai ed era vero, la lente aveva una griglia al lato delle linee c’erano numeri piccolini. Puntai sulla mon­tagna alla destra della città e cercai la batteria, che quella mattina ci aveva sparato. Vedevo gli alberi come se fossero stati a venti metri. Finalmente scoprii i cannoni, fermai il cannocchiale e mi alzai. Il capitano guardò, prese nota, e con la radio trasmittente dette gli ordini.

Io mi ero seduto nuovamente sullo sgabello e guardavo con il cannocchiale. Dodici cannoni, appostati sull’Aurelia di fronte al cotonificio, spararono sei volte ed io ve­devo gli alberi staccarsi da terra e volare con le radici nude. Blocchi di terra si staccavano dalla montagna. La scena era dantesca. La batteria cominciò a sparare ai no­stri cannoni ma in breve fu distrutta. Eliminammo altre due postazioni facili da individuare perché si erano messe a sparare.

Dalla finestra vedevo che erano arrivati una decina di camion con soldati americani, circa duecento. Li vidi pren­dere il viale, con l’ufficiale in testa. Formavano una fila indiana, ognuno con il petto appoggiato alle spalle di quel­lo che lo precedeva. Avanzavano lungo il viale alberato. Ad ogni passo facevano una sosta ed avanzavano così len­tamente con i corpi eretti formando un lungo serpente mimetizzato che da lontano non si poteva distinguere. Co­minciava a fare scuro quando le batterie tedesche smisero di sparare. La fanteria americana era sulla sponda dell’Entella e sull’altra riva i tedeschi che erano nel campo sportivo si erano ritirati.

Mi chiamarono al comando americano. Era arrivato un nuovo comandante e lo trovai in una delle case vicine alla piazza del municipio. Mi comunicò che sarei dovuto an­dare quella notte a Chiavari e portare informazioni sul ne­mico. Gli chiesi se mi poteva dare un’ora di tempo e non fece difficoltà.

Stavo per gettarmi in una azione rischiosa, e volevo far­mi forza. Andai in piazza della stazione, sapevo che Milly, la mia morosa e sua madre si erano rifugiate nella prima casa a destra. Volevo vederla, anche solo per un momento.

Trascorsa l’ora, tornai al comando americano e trovai gli ufficiali che studiavano carte topografiche ed il pompie­re che mi avrebbe fatto da guida. Salutammo tutti e ci in­camminammo verso l’Entella. Raggiungemmo il ponte fer­roviario. Non mi aspettavo che fosse in quello stato. L’in­telaiatura metallica che lo sosteneva era contorta e così le rotaie, staccate dalle traverse. Scendemmo sulla riva opposta per una stradicciola. Sul suolo c’erano tedeschi morti. Da lì ci avevano sparato quella mattina. Evidentemente i tedeschi si erano ritirati precipitosamente e ave­vano abbandonato i loro morti. Camminammo per le stra­de di Chiavari senza incontrare anima viva ed arrivammo a Piazza della Carrozze. Dal bar Defilla trapelava una luce.

Entrammo. Era pieno di gente e tutti si raggrupparono attorno a me sorpresi dalla presenza di un partigiano. Do­po pochi minuti arrivarono tre americani e, caso curioso, uno di loro parlava perfettamente il dialetto genovese.

In quel momento le campane cominciarono a suonare a stormo. Era la Liberazione!

Saranno state le quattro del mattino quando ritornai al comando americano. Raccontai quello che avevo visto a Chiavari e si mostrarono sorpresi quando videro gli elmet­ti dei tedeschi morti. Il comandante sorridendo compiaciu­to mi disse:

«Le consiglio di riposarsi un poco, perché all’alba lei dovrà andare con la Compagnia G del 473 di fanteria a tagliare la ritirata dei tedeschi verso il Passo della Scoffera.»

Chiamò uno degli ufficiali e me lo presentò:

«Mike» disse, «è il suo comandante.»

Io mi presentai con il mio nome di battaglia e il grado. Mike era piccolino con un paio di baffi molto buffi che terminavano affilati e sporgenti qualche centimetro dalla faccia.

Certo il comandante credeva che fossi un gran cono­scitore di quelle montagne. Io non volevo perdermi l’azio­ne e considerai opportuno non chiarire l’equivoco. Dietro Chiavari conoscevo un poco la Val Graveglia e la zona di Sopra la Croce, dove ero stato durante il grande rastrel­lamento di gennaio verso Zoagli. Della Scoffera cono­scevo poco o niente. Quella era la zona di Bisagno. Sapevo comunque che potevo essere d’aiuto per avere informa­zioni dai contadini, era facile riconoscere il mio grado par­tigiano poiché sul petto del giubbotto portavo un trian­golo di velluto rosso bordato da un cordone d’oro con al centro, disposte a triangolo, tre stelline dorate che indi­cavano che ero comandante di Brigata.

I ponti sull’Entella vicino a Chiavari erano stati di­strutti, perciò all’alba del 25 aprile prendemmo la di­rezione delle montagne, per cercare più in alto di attraver­sare l’Entella. Andavamo a piedi, Mike davanti e io con lui. Trovammo un ponticello e passammo sull’altra spon­da. Camminammo sulle colline fino a prendere la strada che da Chiavari va a Carasco. Il genio militare era già al lavoro e stava costruendo ponti provvisori.

Che strana gente gli americani! Diversi dai tedeschi e dagli inglesi, che normalmente avanzavano nei combatti­menti senza dare eccessivo valore alla vita umana. Gli americani agivano con molta serenità e non rischiavano la vita di un solo loro uomo. Se un ponte era distrutto non avanzavano nell’acqua né si facevano premura. Lo rico­struivano e, se il nemico sparava, sparavano con tutti i mezzi a loro disposizione e lo facevano fino a che l’altro non cessava il fuoco. Solamente allora avanzavano i sol­dati. Risparmiavano i loro uomini, gli americani.

Arrivammo sulla strada che prosegue verso Nord. La gente festeggiava il nostro passaggio. Un signore dal­l’aria straniera si avvicinò a Mike e gli si rivolse in per­fetto inglese. Intuii che era il Dott. Baldini ma non mi feci riconoscere. Ci fermammo. Alcuni camion e blindati avevano attraversato l’Entella e presto sarebbero arrivati da noi. Sulla prima jeep che apparse salì Mike e mi fece sedere al suo fianco. Con l’autista eravamo in tre sul se­dile anteriore e dietro c’erano due soldati con una grossa radio trasmittente.

Attraversavamo paesi dove la gente ci gettava fiori dai bordi della strada, tanti da riempire la jeep. Nel pomerig­gio arrivammo al ponte delle Ferriere, costruito su piloni di legno, ora distrutto. I tedeschi lo avevano incendiato e sulle sponde scoscese si vedevano le traverse di legno ancora fumanti. La nostra colonna si fermò. Piovigginava. Mike tolse da una borsa una coperta bianca e me la diede:

«Copriti con questa e resta qui.»

Tutti erano scesi dai camion e dalle jeep ed erano sul bordo del ponte. Mike dirigeva le operazioni. Alcuni sol­dati scesero in acqua a misurarne la profondità, altri rac­colsero grosse travi non del tutto bruciate e le portarono vicino alla sponda. A un ordine di Mike, tutta la colonna cominciò ad accodarsi.

Passarono per primi i tre Sherman, quindi le jeep, poi i camion ed in ultimo altri tre Sherman. Tutti i veicoli ave­vano la possibilità di unirsi l’uno all’altro per mezzo di perni che fissavano tra anelli d’acciaio collocati davanti e dietro ogni veicolo, era come unire i vagoni di un treno. Quella catena di macchine si avvicinò alla sponda del fiu­me. Mike aveva dato ordine di far franare la scarpata con l’esplosivo. Gli Sherman scesero lentamente, rima­nendo appesi alla catena poiché le altre macchine, con i motori accesi, li trattenevano. Arrivati all’acqua, dei sol­dati mettevano sotto i loro cingoli le travi che recupera­vano dal ponte bruciato. I tre Sherman giunti al letto del fiume, cominciarono l’ascesa dell’altra sponda. Tutte le macchine della catena spinsero con i motori accesi fino a farli arrivare sulla strada. Quando passai nella jeep, i soldati con l’acqua alla cintura la fiancheggiarono e la so­stennero affinché non si inclinasse.

Dopo tre o quattro ore di lavoro, la colonna si ricom­pose e fummo di nuovo pronti a proseguire il viaggio. Fa­ceva scuro quando Mike dette l’ordine di fermarci vicino ad un gruppo di case. I soldati aprirono un coperchio nella parte posteriore dello Sherman e presero delle casse che contenevano razioni. Mangiammo e ci accomodammo per dormire.

La mattina del 26 aprile la colonna si mise in marcia. Mike comunicava con il suo comando di Chiavari. Rice­veva notizie sulla marcia dei tedeschi in ritirata. Non si fece molta strada quando Mike diede l’ordine alla colon­na di fermarsi. Chiamò un tenente, William Passman di Filadelfia, e gli ordinò di formare un plotone che avrebbe risalito la collina al nostro fianco sinistro e si sarebbe poi diretto al paese di Sant’Alberto per prendere contatto con la colonna tedesca che stava ritirandosi per la strada da Recco verso Uscio. Io li avrei accompagnati. Scesi dalla jeep e mi misi in fila dietro William che già aveva scelto i soldati per la missione. Gli altri ci salutarono e ci iner­picammo sulla montagna.

Arrivati in cima, vedevamo sotto di noi, verso il mare che rimaneva coperto dal profilo di una montagna, un’am­pia valle, alla quale si giungeva per una strada che sem­brava terminasse lì. Camminammo sulla cresta fino ad ar­rivare ad un piccolo paesetto. Erano poche case in fila. Mentre avanzavamo avvertii che una pattuglia tedesca camminava sulla cima della montagna, lontana verso il ma­re. Avanzavano guardinghi a distanza di sei metri uno dal­l’altro. Vedevamo la sagoma scura degli uomini proiettata su uno sfondo di cielo grigio. Mostrai a William la pat­tuglia ed anche noi cominciammo a distanziarci.

Dal paesetto venne avanti il parroco e quando vide che vestivo una divisa partigiana si rivolse a me:

«Questa notte hanno ucciso tre partigiani, sono nel­l’ultima casa.»

Gli americani, una quindicina, mi seguirono ed io entrai nel casolare dove sul pavimento di terra giacevano i corpi di tre uomini con le mani legate, in un lago di sangue raggrumato. I tedeschi? No, li avevano fucilati i fascisti. Gli americani mi stavano attorno. Capivano la guerra ma non comprendevano quanto grande fosse l’odio contenuto in una guerra civile.

Fummo presto distratti: una colonna di camion arrivava nel fondo valle. Scendemmo una cinquantina di metri per scavare una trincea usando le piccole pale snodate che gli americani portavano appese allo zaino. Lavoravamo duro mentre controllavamo i movimenti dei tedeschi.

Questi lasciarono i camion per radunarsi su un prato. Qualcuno disse che era Pian dei Preti. Da un camion erano stati scaricati dei cavalli e alcuni ufficiali li stavano montando. Si comportavano con tranquillità non sapendo che li spiavamo da duecento metri, nascosti in un fosso, con una sola mitragliatrice Browning. Avevamo solamente armi portatili, mitragliele e qualche fucile. Nell’aria si udiva solo il lontano rumore dei motori dei veicoli blindati americani. Suggerii a William che usassimo il parroco come messaggero, i tedeschi erano abituati a quelle mediazioni che noi utilizzavamo spesso.

Chiamammo il prete e gli dissi di andare a dire ai tedeschi che erano bloccati, che le montagne erano state occupate dalle forze americane, che era meglio che si arrendessero, perché la guerra era finita. Il prete andò e i tedeschi ascoltarono il suo messaggio. Alzarono gli occhi verso di noi e noi ci lasciammo vedere. Non so se il prete abbia detto quanti eravamo, credo che non lo abbia fatto. I tedeschi dovevano essere più di tremila e sarebbe stato un gioco per loro passarci sopra, ma dove sarebbero arrivati? Tutto crollava attorno loro.

Tornò il prete con la risposta. Erano disposti a lasciare le armi se li lasciavamo andare verso la Valle Padana. Ci mandavano a dire che una colonna di truppe tedesche aveva avuto il permesso dal Comitato di Liberazione di attraversare la città di Genova senza portare armi e continuare verso nord.

Quel 26 di aprile del ’45, inviammo il parroco a dire che non eravamo disposti a lasciarli passare, che erano circondati e non avevano altro scampo che arrendersi. Il prete nuovamente andò e tornò. Si sarebbero arresi, ma volevano che permettessimo agli ufficiali di conservare la propria pistola scarica. La notizia per noi fu stupenda. Non potevamo pretendere altro. Accettammo. Nella foga della missione ci dimenticammo della storia delle rivoltelle. Era la superbia di quell’aristocrazia dell’esercito germanico! Per il bene di tutti era meglio terminare la guerra! Ci aprimmo a ventaglio ed in quattordici scendemmo, mentre uno rimaneva con la mitragliatrice pesante e la radio trasmittente. I tedeschi si erano raggruppati in uno spiazzo del bosco. Più in alto di loro, sulla falda della collina, a non meno di venti metri, spianammo le armi.

William ordinò che buttassero le armi a terra e che gli ufficiali si radunassero da un lato del prato. Così fecero. Ubbidivano. I loro volti esprimevano disperazione. Vidi ufficiali piangere. Un ufficiale tedesco piangere? Poche persone lo potranno credere! Dai camion raccogliemmo rotoli di filo spinato. Facevamo camminare i soldati in fila indiana per un sentiero che entrava nel bosco. Prima di entrare presentavano i loro documenti personali a William. A gruppi di cento vennero concentrati nel bosco. Rimanevano gli ufficiali, saranno stati duecento. Li circondammo e spianammo le armi. William arrogantemente ordinava che buttassero a terra le armi. Discutevano. C’erano sei generali tra loro ed uno era a cavallo e non voleva scendere. Invece di rispondere voltava il cavallo e, indifferente, guardava verso il cielo. Gli presi un piede e lo lanciai in aria. Cadde sull’erba. Non credeva ad una simile umiliazione. Per castigarlo maggiormente mi feci consegnare il cannocchiale che portava al collo. Mi guardava con odio. Ma la ragionevolezza ebbe il sopravvento e forse pensò che era meglio smetterla ed accettare la situazione. Anche gli ufficiali vennero raggruppati nel bosco, circondati da varie linee di filo spinato. Non c’era né entrata né uscita. L’importante era che tutti fossero disarmati.

Noi quindici della pattuglia ci abbracciavamo, non si stava nei panni, l’operazione era riuscita. William comunicava le novità a Mike e presto sarebbero venuti a prendere in consegna il nutrito gruppo di prigionieri.

Mentre controllavamo il passaggio dei tedeschi per metterli nel bosco, facevamo lasciare loro le armi e anche dei rotoli simili a carta igienica che avevano con sé. In realtà erano veri biglietti da mille lire, stampati dai tedeschi stessi nella nostra zecca, che per comodità portavano così. Li tagliavano solamente al momento di pagare. C’erano milioni di lire in rotoli su quei prati e presto il paesaggio si animò. Donne sorsero dal nulla ed accorsero con ceste per raccogliere i rotoli come fossero funghi. Mi raccontarono in seguito che quei piccoli paesi sulle montagne dai difficili raccolti ebbero un grande progresso, dovuto a quei milioni caduti dal cielo. Anche noi avevamo raccolto qualche rotolo ed io avevo la camicia gonfia di quei biglietti.

Mi venne il sospetto che tra quei prigionieri ci fossero fascisti ed alpini della Monterosa travestiti da tedeschi e mi parve persino di riconoscere il famoso tenente Graziani. Ma non volli indagare. Con me si era comportato correttamente, anche se in un primo tempo mi aveva fatto condannare a morte.

Mezz’ora dopo arrivò Mike accompagnato da un gruppo di soldati. Fu una sorpresa per me vedere che lo accompagnavano Bisagno (Aldo Gastaldi) e Stella (Giuseppe Machiavelli). Con quest’ultimo ero stato compagno di vacanze a Torriglia quando avevo dodici anni ed ora me lo ritrovavo anche lui comandante partigiano. Bisagno mi abbracciò e gli raccontai come i tedeschi si erano arresi.

Dal Comando centrale americano arrivò per radio l’ordine che la nostra pattuglia continuasse il cammino, scendesse verso Traso sotto Bargagli e continuasse verso Genova. Sulla strada ci avrebbero raccolto con delle jeep.

Lasciammo i boschi affollati di prigionieri e di soldati americani che li vigilavano e ne controllavano i documenti. Nuovamente salimmo verso la cima e ci dirigemmo verso ponente. Camminammo un’ora fino ad arrivare alla strada. Ci mettemmo in fila indiana con William in testa, io dietro a lui e poi gli altri, formando una colonna allegra, che scendeva a passo di ginnastica.

Era più di un’ora che si camminava senza incontrare nessuno quando William si fermò facendomi segno di continuare. Lo vedevo con la coda dell’occhio, ora camminava vicino al soldato che mi seguiva e da una scatoletta gli faceva prendere qualcosa che questo portava alla bocca. Fece lo stesso con gli altri e tornò al primo posto in fila. Ci pensò un po’ poi si volse e mi porse la scatoletta. Sicuramente aveva pensato che me la sarei presa a male perché non me l’aveva offerta. Dentro c’era un miscuglio di radici scure, a prima vista sembrava tabacco, ma al tatto sentii che era duro come legno. Presi un po’ di quella roba e la misi in bocca.

Dopo un centinaio di metri sentii una fitta allo stomaco. Poi non potei più camminare e mi sedetti per terra. Gli altri mi erano tutti attorno ma invece di aiutarmi ridevano a crepapelle. William si tolse l’elmetto ne tolse la parte di plastica ed usò la parte d’acciaio come una pentola. Estrasse dallo zaino una scatola che conteneva pietre bianche come la canfora, mise un fiammifero acceso dentro e dalla scatola uscì una fiammella sulla quale poggiò l’elmetto con dentro un po’ d’acqua versata dalla borraccia.

Aggiunse la polvere di un sacchetto, e quando l’intingolo si scaldò, me lo fece bere! Poco dopo mi ripresi. Chiesi a William cosa diavolo fossero quelle radici.

«Betel» mi disse. «Si mastica, ma non si deve ingoiare la saliva, se no fa male.»

Ci avvicinavamo a Genova, le case si facevano più con­tinue, c’era gente che ci guardava passare ma evidentemen­te non capiva chi fossimo. Poco dopo arrivò un camion ed un soldato americano sporgendosi dal finestrino ci gri­dava:

« George! George! »

George eravamo noi, la compagnia G del 473 di fan­teria del V Corpo d’Armata che, scesa a Recco, era avanzata lungo la costa. Salimmo sul camion che entrò in città a velocità pazzesca e ci portò a Quarto, a Villa Carrara.

Altri americani ci stavano aspettando e ci ricevettero con allegria, una vera festa. Nella sala principale della vil­la avevano montato una lunga tavola e molte seggiole. In un angolo, su dei fornelli a benzina, c’era un grosso bi­done nel quale bolliva il caffè. Fu un pranzo all’america­na, avevano aperto barattoli di ogni tipo. Da molto tempo non mangiavo a quella maniera. Poi andammo a dormire. Si comportavano con me con molto riguardo, tra loro si spiegavano come io fossi dei loro.

Il giorno dopo mi resero gli onori militari. Sulla stra­da che costeggia il mare, misero due bandierine a distanza di una decina di metri una dall’altra, un colonnello m’invi­tò ad accompagnarlo e ci mettemmo in mezzo ad esse. Tre formazioni sfilarono davanti a noi e quelli che portavano le bandiere le abbassavano passandoci davanti. Ero emo­zionato.

Nella villa mi diedero una divisa americana e un Tompson 44. Mi avevano incorporato alla Compagnia G del 473 Reggimento di fanteria del IV Corpo dell’Esercito Americano.

Ero felice dell’onore che mi facevano i miei compagni americani ma non potevo dimenticare che ero un coman­dante partigiano e da giorni non sapevo nulla della mia divisione.

Seppi poi che il comando della VI Zona si era stabilito al­l’Hotel Bristol in via XX Settembre. Ci andai ed ebbi la fortuna di trovare Leone (Bruno Monti commiss. della Coduri) che, sistemato in quell’hotel, era il Direttore dell’Ufficio Stralcio. Ci abbracciammo e gli raccontai come avessi proseguito da Lavagna con gli ame­ricani e come avessimo catturato sopra Uscio alcune mi­gliaia di tedeschi che si ritiravano verso la Scoffera. Lui già ne era a conoscenza perché Bisagno (Aldo Gastaldi, com. Div. Cichero, VI Zona Liguria) e Marzo (G.B. Canepa, comm. Div. Cichero) glielo avevano raccontato; aggiunse che i tedeschi erano stati ri­portati a Chiavari ed ora erano nel campo sportivo sulle sponde dell’Entella. Da lì erano partiti e lì erano tornati. Appresi allora che era stato firmato a Genova l’atto di resa delle truppe tedesche del generale Meinhold.

Nel pomeriggio andai a casa dei miei zii, fratelli e so­relle di mia nonna materna, i Pitto, che vivevano, tutti celibi e vecchiotti, in una palazzina a Sturla, di fianco al cinematografo, a pochi metri dalla strada principale, di fronte alla spiaggia. Gli zii erano felici di vedermi ed ebbi anche la sorpresa di sapere che mio fratello maggiore, An­tonio, passava spesso a trovarli. Per lo meno avevo la cer­tezza che era vivo. Tutta la nostra famiglia, dispersa e per­seguitata, era in salvo.

Quella sera William mi disse che Mike era partito in mattinata per il Giappone. Là avrebbe continuato la guer­ra. Presto tutto il reggimento sarebbe partito e mi chiese cosa pensavo di fare. Era nato in me un vero affetto per quei giovani che mi avevano accolto con tanta simpatia.

Nota: Il racconto di Scoglio non termina qui ma prosegue per altre novanta pagine circa. Chi era Scoglio?

Bruno Pellizzetti “Scoglio” era nato a Genova nel 1923, da una famiglia di antica tradizione di naviganti. Diplomatosi Capitano di Lungo Corso nel 1941, aveva partecipato alla lotta partigiana rag­giungendo il grado di Capo di Stato Maggiore della divisione garibaldina “Coduri”. Dopo una parentesi parigina al fianco dei rivoluzionari antifranchisti spagnoli, si era trasferito in Argentina nel 1948: dove ha cominciato a navigare sul Paranà, imparando la difficile arte della navigazione flu­viale. Armatore, impresario, studioso della Conca del Rio della Piata, ha pubblicato nume­rosi lavori tecnici sulla navigazione dei fiumi e il suo nome e curriculum figurano nel Who’s Who in the “World dell’ ‘83.1, fiumi che sono anche i protagonisti dei suoi racconti. Risiede in Argentina ma, attento alla situazione ideologica e politica italiana, comprende che il nostro Paese ha bisogno di ricordare il passato per non incorrere nei vecchi errori. Perciò, senza drammatizzare, cerca di trasmettere le sue esperienze ai giovani, cui il libro è dedicato.