Paolo Machiavelli (1926/2005) storico socialista genovese, ex presidente del consiglio regionale s’era diplomato al liceo D’ Oria (dove tra gli altri insegnava anche l’allora Don Giuseppe Siri). Laureatosi in giurisprudenza, era iscritto all’Albo degli Avvocati del Foro di Chiavari, ma prevalentemente aveva esercitato a Genova, presso lo studio di famiglia dove esercitava anche il fratello maggiore Giuseppe che il Card. Siri indica nelle sue Memorie sui fatti di Genova 1944/45 quale suo decisivo collaborante per aver fatto desistere un gruppo di partigiani che volevano ad ogni costo dar battaglia ai tedeschi di Meinhol in procinto di lasciare la città, mettendo a rischio il salvataggio di Genova e il suo porto che i tedeschi avevano minato e avrebbero sicuramente fatto saltare nel caso in cui avessero trovato opposizione nel lasciare indenni la città, come già in precedenza s’erano accordati.

Iscritto al Partito Socialista Italiano, in tempo di guerra partigiano nella formazione “Matteotti – Val Bisagno, Paolo Machiavelli era stato eletto la prima volta, nel 1959, nel Comune di Genova andando a ricoprire la carica di vicesindaco con delega al bilancio, dal 1961 al 1970, prima col sindaco Pertusio poi con Pedullà. Nel 1970 fu eletto in Regione ove venne nominato presidente del relativo Consiglio. Nel 1975 fu rieletto e mantenne la presidenza per circa un altro anno, fino all’ arresto, per sospetta concussione, per aver tentato di favorire l’iter di approvazione regionale di una lottizzazione a San Lorenzo al Mare (IM). Condannato a tre anni e sei mesi di reclusione, li aveva scontati quasi tutti nelle carceri di Chiavari. Dopo trascorse circa sei mesi di semilibertà continuando a collaborare con uno studio legale di Chiavari dove lo colse poi la morte nell’aprile 2005. 

Per quanto invece concerne il fratello Giuseppe (1922/1988) anche lui avvocato; ex deputato socialista, per tre volte sottosegretario durante gli anni Settanta e Capo partigiano durante la Resistenza nella brigata Giustizia e Libertà con il nome di battaglia di “Stella”. Finita la guerra era stato eletto da prima in Provincia poi deputato, dal 1963 al 1976. A Roma, per due volte aveva ricoperto la carica di sottosegretario alle Finanze e una volta quella di sottosegretario alla Marina Mercantile. Dal 1976 aveva abbandonato la vita politica e dimesso dal suo partito in seguito alla disavventura nella quale era rimasto coinvolto il fratello Paolo, nel mentre ricopriva la carica di presidente del Consiglio regionale ligure. Giuseppe (Pippo per gli amici) da tempo però soffriva di seri problemi cardiaci. Già colpito da due infarti avrebbe dovuto sottoporsi ad un intervento chirurgico per l’ applicazione di due by-pass. Ma il giorno 3 aprile 1988 la morte lo raggiunse.

oooooOooooo

Fasc. 20 – Doc. 02, Disse di chiamarsi Paolo Shareghin di Paolo Machiavelli (da IL LAVORO di sabato 1 marzo 1975, pag. 3). Scannerizzato da evb il 12.05.2021.

Per iniziativa dell’ANPI, del circolo Bisagno dell’associazione Italia-URSS, Genova darà vita domani a una grande manifestazione antifascista. L’interesse di ex partigiani, di antifascisti di ogni corrente, di giovani per la manifestazione, che avrà inizio alle ore 10 nel teatro Universale deriva anche dal nome degli oratori: l’on. Pertusio, il sen. Adamoli, il presidente della Amministrazione provinciale Magnani e l’ambasciatore dell’URSS in Italia N. Ryzhov – Verrà, tra l’altro, presentata l’antologia “I partigiani sovietici della VI zona ligure”, dalla quale riportiamo questo passo.

oooooOooooo

NOSTRA Signora del Porto è una frazione del Comune di Torriglia, in provincia di Genova, a quota mille. Raccolta in una sella, difesa naturalmente da due «mammello­ni» facilmente presidiabili, era stata scelta dalla formazione «Mat­teotti – Val Bisagno» come sede di un suo distaccamento, ai limiti della zona controllata dalle forze partigiane.

La composizione «sociale» del distaccamento seguiva sostan­zialmente le indicazioni estrapo­late dar Battaglia sulla Resistenza in Piemonte: forte percentuale di operai, contadini, medio ceto (prevalentemente studenti), di­screta presenza di artigiani, modesta aliquota di media borghesia.

Il distaccamento, per la sua po­sizione strategica avanzata, ope­rava spesso ai margini di Genova.

In una di queste azioni, nella tarda primavera del 1944, una pat­tuglia rientrò con un disertore dell’esercito tedesco, che era fug­gito dal suo reparto in montagna alla ricerca di un contatto con i partigiani.

Questo disertore era un russo dell’Ucraina, alto, biondo, robu­sto, occhi chiari, viso roseo, di ti­pica estrazione contadina.

Disse di chiamarsi Paolo Shareghin.

Toccò a me affrontare il primo colloquio con lui. Riusciva a farsi capire malgrado il suo italiano stentato: si aiutava con lenti gesti delle mani e con una espressione del viso, semplice e ad un tempo intensa, che sapeva di covoni di grano, di fieno, di terra bagnata.

Era nato all’interno di Kiev, aveva famiglia: ma oltre a questi pochi dati — con tipica prudenza contadina— poco parlava di sé in modo diretto.

Lo avevano rastrellato ed obbli­gato a far parte delle truppe di oc­cupazione: aveva scelto la strada dei monti per sentirsi a casa sua.

In quello stesso periodo, nel di­staccamento operava un inglese a nome Mac: era un ufficiale para­cadutato, il cui compito consisteva nel tenere i contatti con l’organiz­zazione «Otto», la quale a sua volta operava i collegamenti con un sommergibile inglese di base a Gi­bilterra che, a periodi frequenti, si portava nel Tigullio per fare espa­triare — via mare — resistenti ed israeliti.

Uomo colto e difficile, trovò modo di esprimere il suo buon livello, a liberazione avvenuta, favorendo in modo concreto i rifornimenti alla città di Genova nei momenti esaltanti e difficili dei giorni successivi alla liberazione. Operava, da civile, nelle assicurazioni.

Infine, sempre in quel periodo, visse nel distaccamento un gio­vane americano, di origine italia­na, a nome Cosimo, estroverso, molto simpatico ed ottimamente equipaggiato, musicista raffinato. Da lui apprendemmo le ultime evo­luzioni del jazz, non soltanto a li­vello folkloristico, ma anche nella sua espressione più culturale ed impegnata. Ricordo l’interesse nostro nell’avvertire il passaggio — certamente collegato con il tipo di società americana — da uno struggente «blues» ad un ritmato «beb-hop», ed il ritorno già netta­mente precisato a motivi più in­tensi e tristi, tipica preparazione a jazz freddo. Professione: mecca­nico.

Ci legammo di amicizia e spesse volte ci muovemmo in pattuglie per servizi ed azioni relativi agi specifici compiti dell’americano e dell’inglese.

È strano come talune affinità d carattere possano, talvolta, espri­mere momenti di autentica frater­nità anche in presenza di difficoltà di linguaggio. È forse questione di pelle, od il bisogno di sentirsi inte­grati od arricchiti da personalità diverse, scremando le quali uno pensa di realizzare l’uomo com­piuto. O, forse, ancora, la consa­pevolezza che l’uomo vero, uni­versale, non può prescindere dall’apporto di società, razze esperienze le più diverse, che, in modo autonomo ma convergente, esaltano talune caratteristiche dell’uomo stesso. Di talché, si po­teva registrare un’utile sintesi di fantasia, di prudenza, di tenacia, di ironia.

Fu un bel periodo, per lo meno sotto l’aspetto ideale e sotto il pro­filo umano: e personalmente credo di dovere a tale esperienza molta della mia formazione suc­cessiva, nel senso della compren­sione e del rispetto delle altrui po­sizioni mentali e più ancora ri­spetto alla capacità che altri pos­sono avere — come e più di noi — di offrire qualcosa di sé stessi ad una terra non loro.

Il punto sta nel come uno sa en­trare nel vivo del problema, nella partecipazione attiva e totale a quel problema, pur con i limiti del carattere proprio, del tempera­mento, della formazione. E questo legame fece a noi comprendere quanto assurda, e nello stesso tempo giusta, fosse quella lotta che diventava una guerra di reli­gione contro una guerra che vo­leva avere presupposti di religio­ne; ci fece comprendere come, al limite, l’impatto, talvolta mortale, con il nemico, senza esclusione di colpi, rischiasse di uccidere un uomo che poteva essere disponi­bile a pensarla come noi.

Non so, purtroppo, cosa sia suc­cesso dell’americano e dell’ingle­se: il ritmo della vita è tale che i piccoli problemi ci impediscono ricerche di contatti e di momenti che potrebbero renderci più com­piuti.

So, purtroppo, che cosa suc­cesse al russo.

Nella prima estate del 1944 i te­deschi ed i fascisti operarono un grosso rastrellamento in forze. In allora, si era sparsa la voce che si sarebbe potuto verificare uno sbarco lungo la costa ligure, al fine di poter aggirare, da parte degli alleati, la linea gotica che resiste­va. Non v’è dubbio che una forte ed organizzata presenza partigiana sull’Appennino ligure, avrebbe po­tuto costituire il rischio per i fascisti ed i tedeschi di dover combattere contemporaneamente su due fronti. Da qui, la necessità di an­nientare le forze della Resistenza.

Fu il momento più drammatico della lotta partigiana in Liguria.

Anche se l’offensiva costò molte perdite alle formazioni dei patrioti e molti paesi furono distrutti dalla furia dei nazisti, essa dimostrò la vitalità e la capacità di guerriglia della Resistenza, che in pochis­simo tempo riacquisì le medesime posizioni ed una rinnovata capa­cità di lotta.

Il primo urto avvenne proprio alle pendici del Monte Prela e delle Collette, sopra Torriglia, coinvol­gendo in via diretta ed immediata il distaccamento «Matteotti». Com­pito del distaccamento era quello di contenere il più possibile l’avanzata del nemico per dar modo al grosso delle formazioni partigiane di attestarsi su linee più arretrate e meno estese.

Si doveva resistere qualche giorno.

La lotta era impari, sia come numero che come armamento: ma l’obiettivo nostro fu raggiunto.

Già il primo giorno, nella strenua difesa del «mammellone» che porge verso Torriglia, durante un furioso attacco dei tedeschi, Paolo Shareghin venne gravemente fe­rito ad una spalla ed alle gambe. La generosità del suo temperamento lo aveva portato ad esporsi al fuoco avversario per dirigere me­glio una mitragliatrice. Venne por­tato nel paesino e curato alla me­glio, con mezzi di fortuna. Si riuscì a cavargli due pallottole, ma altre si erano conficcate in modo irri­mediabile entro la sua carne.

Il combattimento durò oltre due giorni, ed il russo non poteva es­sere trasportato per via del molto sangue che aveva perduto e del pericolo che un minimo scossone potesse riaprire in modo irrepara­bile l’emorragia.

Gli avevamo messo accanto una donna che potesse alleviargli il do­lere fisico, ma più ancora per con­sentirgli di avere una presenza femminile che gli potesse ricor­dare la mamma, la sorella, la sua donna.

Noi potevamo vederlo per brevi momenti, dato l’impegno della battaglia. In quelle occasioni era sereno, consapevole, forte. Sape­vamo del grave stato in cui si tro­vava e la nostra ricerca per solle­varlo sul piano morale e della spe­ranza moriva in noi stessi vedendo quello sguardo pieno di dolcezza e ad un tempo di tristezza: la tri­stezza di chi sa che non potrà più stringere un pugno della sua terra.

Due giorni dopo si decise lo sganciamento del nostro distac­camento e fu giocoforza spostare Paolo per non lasciarlo vivo nelle mani del nemico. Oltretutto, es­sendo lui disertore dell’esercito tedesco, la sua posizione era an­che più grave della nostra.

Richiesi l’incarico di seguirlo. Il tragitto, purtroppo, fu breve. La barella improvvisata gli consentì di fare un tratto di non più di 200 me­tri.

Il ragazzo, esangue, sfinito dal dolore e dall’astenia, ebbe la forza di stringermi la mano, di sollevare la testa in un ultimo sforzo di vo­lontà e di partecipazione. Lo sor­ressi perché potesse vedere un’ul­tima volta il verde della campagna e, forse, il cielo della sua terra. Disse un «sì» che per me significò adesione totale al suo gesto,

a quanto era accaduto, alla vita che aveva dato per un’idea.

Ho ancora stampato nelle mani l’umidore dei suoi occhi e la sec­chezza delle sue labbra.

Nostra Signora del Porto ha un cimitero molto piccolo, vicino al paese, in una posizione forse la più bella della vallata: all’intorno al­beri alti, ippocastani, faggi, e poi fasce degradanti disegnate con fa­tica dal sudore dell’uomo: un cimi­tero che un uomo vero vorrebbe per sé.

Lì lo seppellimmo, con una croce nuda e rozza, in mezzo ad altri contadini, ad altri uomini della terra — così come lui era — sem­plici, essenziali, forti.

E lì, insieme all’inglese ed a Co­simo e a qualcun altro, depo­nemmo qualche fiore di campo.

È questo il fatto che volevo rac­contare: un fatto che, avendo io conosciuto Paolo Shareghin, penso dovrebbe restare così com’è, senza particolari agiogra­fie, per mantenerlo pulito nella sua semplicità e nella sua poesia.

Certo, chi lo possa, si porti ogni anno in quel cimitero e porga qualche fiore raccolto in quei monti a testimonianza di un ri­cordo che non può morire.

Ma qualcosa di più universale io ho tratto da questa esperienza in cui sono state coinvolte princi­palmente quattro persone: un rus­so, un inglese, un americano ed un italiano: la certezza che l’uomo, di qualsiasi provenienza, di qualsiasi razza, di qualsiasi formazione, ha un legame che lo rinserra e che fa apparire talvolta assurde le orga­nizzazioni statuali o le divisioni manichee. Può essere ciò consi­derato una forma di ecumenismo utopistico ed illusorio? Può darsi: la logica del particolare nella vita quotidiana dell’uomo ed in quella delle organizzazioni statuali può anche farci agire ogni giorno di­versamente: ma è già ricco chi al­meno abbia attinto a questa con­sapevolezza, tanto più se offerta da un altro uomo.

Mi sia consentito un ultimo rife­rimento.

Nostra Signora de Porto è un nome che a tutti ricorda episodi della guerra di Spagna. Un pae­sino forse della Catalogna, delle Asturie, dei Pirenei. Nostra Si­gnora del Porto; Nostra Signora del Pilar: come non ricordare le pagine che Hemingway ha scritto con struggente aggressività? E come non essere convinti dell’adagio che introduce e dà il titolo a quel libro: Per chi suona la campana? Non ti chiedere o vian­dante, quando senti i rintocchi di una campana a morto, per chi essa suona: essa suona anche per te. E così, chiunque muoia o sia morto nel Cile come in Vietnam, in Africa, come in Irlanda, in oriente come in occidente, al servizio di quegli ideali che furono ragione della no­stra stessa esistenza, ebbene, è come se con lui fosse morta una parte di noi ed è come se, nel con­tempo, una parte di noi stessi si fosse arricchita di quel contributo.

Paolo Machiavelli