Vedi anche: La Resistenza nel Tigullio e nelle sue Vallate – (Fasc. 40 – Doc. 7)

Fascicolo n. 30 – Doc. 11: By Elio V. Bartolozzi – Dal “Foglio matricolare e caratteristico di Coduri Giuseppe Fiorino, di Pietro e di Malatesta Assunta, nato a Monticelli d’Ongina (Piacenza) il 17 settembre 1914; inscritto di leva nel comune di Bagnone (Massa Carrara); residente, all’atto dell’arruolamento, nel comune di Bagnone (MS); distretto di Massa Carrara; classe 1914, apprendiamo che era alto m 1,64; che i suoi capelli erano castani, lisci, gli occhi grigi, ecc… Seguono altre tre pagine in cui vengono elencati in ordine di data: gli Arruolamenti, i Servizi, le Promozioni, ecc., dove si vede il militare Giuseppe Coduri che:

  • In data 14 gennaio 1935: Soldato di leva classe 1914 – Distretto di Massa Carrara: Lasciato in congedo illimitato.
  • In data 8 aprile 1935: Chiamato alle armi e giunto. Tale nel 2° Reggimento Alpino Cuneo
  • In data 9 febbraio 1936: Tale partito A.O. col Batt. quale complemento ed imbarcatosi a Napoli sul piroscafo Conte Rosso.
  • In data 16 febbraio 1936: Tale sbarcato a Massaua e trattenuto alle armi ai sensi del R.D. 19 sett. 1935, n° 1935.
  • In data 24 agosto 1936: Ricoverato per malattia all’Ospedale Campo 607 Dessiè (Etiopia). Dal quale viene dimesso il 14 settembre; e imbarcatosi, il 9 ottobre, a Massaua, sul piroscafo Sicilia, per sbarcare poi a Napoli il 18 ottobre, ed essere ricoverato all’ospedale di Caserta. Da dove viene dimesso il 23 ottobre e raggiungere il Deposito 2° Alpini Cuneo con 20 gg. di riposo.
  • In data 26 novembre 1936 viene ancora ricoverato all’Ospedale Militare di Savigliano; dal quale viene dimesso il 4 dicembre guarito e inviato al Corpo di appartenenza per essere congedato.
  • In data 5 dicembre 1936 viene inviato in congedo illimitato ai sensi della Circolare N° 633 G.U. 1936.
  • In data 6 dicembre 1936: Tale nel Distretto Militare di Massa Carrara.

Qui si conclude la fase riguardante il suo periodo di servizio militare ordinario trascorso nel Regio Esercito Italiano.

E proseguendo ad analizzare sempre la pagina 3 del Foglio M.C. di Coduri Giuseppe, di cui sotto si riporta fotocopia:
            a- in data 5 dicembre 1978, viene riportata, manoscritta, la seguente annotazione: “Ha fatto parte dal 15-4-1944 al 25-7-1944 della formazione Partigiana Brg. Longhi in Liguria. Caduto in combattimento in località Carro (La Spezia) il 25-7-1944”.
            b- Successivamente, a mezzo timbro, viene riportata una seconda annotazione: “Equiparato a tutti gli effetti (escluso il compimento degli obblighi di leva) per il servizio partigiano anzidetto, ai militari che hanno operato in unità regolare delle Forze Armate nella lotta di liberazione (R.D. 6 Settembre 1946 n. 93)”.

Passando ora ad analizzare la pagina 4, intitolata “Campagne, servizi di merito, ecc.” è riportato pure quanto segue:
            a- “Riconosciutagli la qualifica di “Partigiano Combattente” scheda N°… (V. sotto: Foglio notizie per le variazioni matricolari) della Comm.ne Regionale Riconoscimento qualifica Partigiani che hanno operato il Liguria.
            b- Ha partecipato dal 15-4-1944 al 25-7-1944 alle operazioni di guerra svoltasi in Liguria con la formazione Partigiana “Brig. Longhi”.
            c- DECEDUTO in combattimento in località “Carro” (La Spezia). Campagna di guerra anno 1944.

I documenti di cui sopra, però, da soli, non dicono tutto perché la vita di Giuseppe Coduri non è poi così lineare e semplice come potrebbe sembrare stando ai soli cinque documenti riportati sopra. Infatti, quando si presenta alla formazione partigiana comandata da Virgola per chiedere d’arruolarsi, non è solo ma è accompagnato da un terzetto di suoi commilitoni, pure loro con indosso la divisa germanica; particolare quest’ultimo che ha l’effetto di allarmare non poco la guardia al rifugio dei “ribelli”.

Ed è appunto con queste parole che Amato Berti descrive la loro comparsa in zona: [Vedi: A. Berti “Storia della divisione garibaldina Coduri”, pp. 105/6, Seriarte 1982, Genova] 

“… I collaboratori di valle e di città si prodigarono intanto per avvicinare e convincere i militari della R.S.I. a passare dalla parte dei partigiani con armi e bagagli. Uno di costoro un certo Fernando Paoli, originario di Viareggio e residente a Sestri Levante, di profes­sione sarto, riuscì a contattare alcuni militari italiani aggregati alla Kriegsmarine, che operava sulle bettoline in servizio nel porto di Sestri Levante. Tra questi militari vi era Giuseppe Coduri di anni trenta, nato in Italia e residente a Brignoles (Francia) il quale sarà il primo caduto della formazione e darà il nome alla formazione «Coduri». Questi, quando seppe che sui monti circostanti operavano dei partigiani, si consigliò immediatamente con tre commilitoni: «Nike» (Oricovaz Vittorio) di Trieste di anni 20, «Macario» (Maggiali Nino) di Carrara di anni 19 e «Mussolini» (Fruzza Giuseppe) di Viareggio di anni 18, invitandoli a disertare con armi e bagagli quella stessa notte”.

Infatti, il 22 Giugno 44′ mentre Eraldo Fico e Giovanni Agazzoni ri­mangono di guardia al casone di Sesco con alcuni altri partigiani, vengono avvisati da un ragazzo di Montedomenico che stavano arri­vando dei soldati tedeschi. I partigiani inviarono subito una pattuglia per controllare la situazione. I presunti tedeschi si erano rifugiati in un casone e mentre stavano cuocendo delle patate vennero colti di sorpresa dalla pattuglia partigiana che intimò loro il «mani in alto». I tedeschi vestiti dell’uniforme della Kriegsmarine, non erano altro che Coduri e i suoi tre commilitoni. Essi si arresero e dissero subito di essere italiani e di voler passare nelle file partigiane”.

Oltre che a presentarsi vestito da tedesco, per prudenza e per non lasciare alcuna traccia dietro di sé, in quanto disertore da un corpo militarizzato germanico, sul suo capo veniva automaticamente a gravare ormai una condanna a morte; e non potendo per questo escludere che i tedeschi, per rappresaglia, potessero anche avvalersi direttamente sui suoi famigliari, qualora potessero venire in qualche maniera individuati, diede nome, e data e luogo di nascita contraffatti. Ed è per tenere fuori causa la famiglia che arrivando al Comando della Formazione partigiana, si fece registrare come Coduri Mario, classe 1922, nato a Massa: e tale, venne in seguito sempre chiamato e ricordato dai suoi compagni di reparto. E a fine guerra, nel comune di Carro, venne eretto in sua memoria anche un monumento riportando questi stessi dati, e pure sul suo loculo, presente nel Sacrario partigiano dentro il cimitero urbano di Sestri Levante. Ed anche in altri luoghi a lui dedicati.

[Nota di (evb): Del resto, non far registrare la propria identità all’atto di arruolarsi nei partigiani, non è assolutamente questo, quello di Coduri, il solo caso in cui dopo si è penato molto a rintracciarne la famiglia d’origine. Infatti sulla Rivista “Studi e ricerche di storia contemporanea”, anno 42°, fasc. 80, dicembre 2013, pp. 33/49, ISREC Bergamo, riportato anche ivi (V.: Fasc. n.40-Doc.1) dove uno dei dieci fucilati di Calvari, nel Bosco delle Paje, aveva dato il nome falso di Domenico Cardillo anziché quello vero di carabiniere Domenico Lacopo all’atto di passare dalla Benemerita alla lotta di Liberazione. E solo l’avrà potuto capire l’allora sindaco di S. Colombano Certenoli, Filippo Maria Zavatteri, quanta fatica gli sarà costata individuarne poi la famiglia e accompagnarne i Resti a Portigliola (RC)]. 

Ma a fine guerra, quando arrivò il momento di presentare domanda al Presidente del Consiglio dei Ministri per chiedere il riconoscimento del periodo trascorso in montagna e ricevere l’ ”Attestato di partigiano combattente”, lui, Caduto e conosciuto da tutti solo come Mario Coduri classe 1922 nato a Massa, e, di parenti o affini, non essendosene mai presentato nessuno a dichiararsi come tale, tutto rimase bloccato lì. Di fatto, non avendo egli mai confidato a nessuno il suo indirizzo esatto, neanche fu possibile rintracciarne, di famigliari, e quindi non fu neanche possibile comunicare il suo decesso a qualcuno di loro. Lì per lì si fecero delle parziali ricerche che però non furono portate avanti pensando che Coduri fosse un uomo che non aveva famiglia, che vivesse da solo e perciò non avesse lasciato parenti in vita, di nessun grado. 

Di colmare questa lacuna, se n’erano interessati già in molti. In primis, perché di dubbi sulla sua vera identità ce n’erano già prima, ma durante gli anni Settanta, per i quadri superstiti della divisione garibaldina, l’interesse e la fretta di trovare un valido riscontro divennero ancora più pressanti; e fu d’uopo incominciare a muoversi in quanto sollecitati da alcuni avvenimenti verificatesi in quel periodo.  

Infatti, nel 1971, in occasione del Decennale dell’inaugurazione del Circolo dei Lavoratori “Virgola” di S. Margherita di Fossa Lupara, al quale ero anch’io iscritto, venne data alle stampe la II edizione, rivista e ampliata, dell’opuscolo “VIRGOLA, l’operaio divenuto comandante partigiano e liberatore del Tigullio”, Ed. Università Popolare Sestri Levante, che pur rispettando rigorosamente tutti i valori più alti della Resistenza, diede piuttosto fastidio ai fedeli seguaci dell’ortodossia terzointernazionalista nostrani. Il medesimo anno iniziò anche la pubblicazione dell’opera in sei volumi di AA.VV. “Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza”, Ed. La Pietra, e pure in quest’occasione molti di loro, in Sestri, storsero un po’ le labbra sapendo che lo stesso Circolo ne aveva acquistato una copia. Poi nel 1974/75, su “Il Lavoro” uscì, intitolata “Actung Banditi!” e a puntate, una Breve storia della Resistenza nel Tigullio e nel suo entroterra che posava l’attenzione, soprattutto, sulle vicende storiche della Coduri, ed anche in questo caso molti mostrarono livore nei confronti dell’autore perché si sentivano punti nell’orgoglio per essere stati preceduti nella pubblicazione d’una storia, anche se molto succinta, di cui essi si ritenevano essere gli unici ad avere diritto di poterne scrivere o parlare. Ma, più o meno in contemporanea, uscì anche il libro di Carlo Cornia “Monterosa, Storia della Divisione Alpina della RSI” Ed. Lo Bianco, 1971, Udine, che addirittura mandò in bestia alcuni dei più illustri superstiti del comando della “Coduri”, più di altri inguaribili terzointernazionalisti, perché il Cornia tentava di sminuire grossolanamente l’importanza e il valore combattivo della stessa Divisione Coduri. In questo bailamme si sentì il bisogno di cercare seriamente di colmare una lacuna che si era protratta fin troppo a lungo per non sentirsene un po’ tutti responsabili.

Eravamo negli anni 1973/75 o giù di lì. La guerra era finita da più di trent’anni; e dalla morte di “Coduri” in combattimento a Carro, ne era trascorso ancora uno in più. Specialmente l’Amministrazione comunale di Sestri Levante era da varie parti soggetta a forti sollecitazioni. Anche al sottoscritto, dopo che m’ero curato della ristampa dell’opuscolo su Virgola e sul Lavoro di Genova una breve storia della divisione Coduri, ero spesso chiamato in causa. Di questo ne avevamo parlato anche nel partito socialista, a cui ero allora iscritto. Ma la cosa stentava a prendere consistenza. Furono fatte anche diverse riunioni di partiti, di associazioni varie e in varie città: a Sestri Levante, a Lavagna, a Chiavari, di genere combattentistiche, partigiane, civili, circoli, amministrazioni locali, enti, e noti personaggi antifascisti. Insomma, le premesse c’erano tutte e anche assai autorevoli. Infatti, molti di questi impulsi furono determinanti nella buona riuscita dell’impegno prefissato; e da qui il progetto iniziò a prendere una certa consistenza.

L’Amministrazione di Sestri Levante, nella persona del Sindaco Giacomo Ghio, s’era intanto impegnata, in parte, a sostenere economicamente l’impresa e a mettere a disposizione i suoi uffici e un paio di dipendenti fidati, forniti di apposite deleghe e di ogni altra documentazione atta ad essere presentata ai vari enti e uffici cittadini ed extracittadini per avere accesso agli incartamenti che ad essi necessitasse visionare.

Ma la cosa più complessa rimaneva sempre e comunque la mancanza di notizie certe su “Coduri”. Le domande su questo punto erano tante e tutte oltremodo complesse. Per esempio: ma Coduri era il suo vero nome? Si sapeva solo che presentandosi in “Banda” aveva dichiarato di chiamarsi Coduri Mario, nato a Massa nel 1922. Ed anche la data della morte pareva incerta: malgrado la presenza di molti partigiani ai fatti di Carro, da molte parti si sostiene che fosse morto il 25 luglio 1944 (data, questa, indicata poi anche sul Certificato di Morte, riportato più sotto, in fotocopia) altre volte, che Coduri cadde invece il 1° agosto 1944. Di veramente tangibile di lui restava soltanto una foto di gruppo dove si vede Coduri in primo piano che portava a spalle, insieme ad altri partigiani, la statua della Vergine. Foto di cui ne verranno poi stampate alcune copie di varie grandezze, alcune anche inquadrando il solo Coduri, da poter mostrare agli eventuali intervistati, per effettuarne così un fattivo riconoscimento.

Poi, si sapeva ancora che era fuggito (mentre si trovava nel porto di Sestri Levante) dalla Kriegsmarine (marina da guerra germanica) nel giugno del 1944, assieme ad altri tre commilitoni, per unirsi ai partigiani di “Virgola” acquartierati nel casone di Sesco. Per poi spostarsi, dopo circa un mese a Velva da dove partirono per la battaglia di Carro del 1° agosto 1944, nella quale Coduri cadde nell’infuriare di un combattimento contro un contingente di alpini della Monterosa.

Per fortuna che si conoscevano le generalità dei tre commilitoni di Coduri, fuggiti insieme a lui, dal porto di Sestri Levante, per aggregarsi alla “Banda Virgola”, dei quali si riportano di seguito i loro nomi:
Oricovaz Vittorio “Nike” nato a Trieste l’11-4-1924, comandante di distaccamento della Brg. “Dell’Orco”. Diplomato, di lui si sapeva che era divenuto capo stazione a Verona.
Maggiali Nino “Maccario” nato a Carrara il 10-11-1925, part. della Brg. “Zelasco”, finita la guerra non si ebbero più notizie di lui.
Fruzza Giuseppe “Mussolini” nato a Viareggio il 17-10-1926, partigiano del Btg. Comando della “Coduri”. Molto probabilmente si arruolò volontario nella Repubblica di Salò per essere poi trasferito, come ausiliario, nella Kriegsmarine. Da dove scappò una prima volta, ma fu ripreso durante il rastrellamento del gennaio 1945 da truppe nazi-fasciste. Essendo disarmato venne condotto e rinchiuso nelle carceri di Chiavari, poi in quelle della Spezia; e poi reintegrato nella Marina da guerra tedesca. Da dove scappò la seconda volta, per rimanere nascosto in una famiglia di amici fino a fine guerra.

Le informazioni che li riguardano, compresi i loro indirizzi di allora, sono state estrapolate dalla dichiarazione resa dagli stessi all’apposita Commissione regionale per il riconoscimento della qualifica di partigiano combattente. Del resto, come si sa, sui monti non esistevano registri che raccogliessero le generalità dei partigiani, anzi ogni aspirante, appena entrato in formazione, doveva disfarsi dei documenti e di tutti gli altri oggetti personali che potessero comunque farlo individuare, nel caso in cui fosse caduto in mano nemica. Per evitare che i suoi congiunti o parenti potessero essere individuati, raggiunti e sottoposti a dure rappresaglie, torture, e minacce d’invio nei lager tedeschi, come sovente e fin troppe volte era accaduto. E non solo è presumibile ma è certo che Coduri, che gli pendeva sulla testa anche l’aggravante di essere evaso da un’unità da guerra tedesca, in zona di guerra, e armato di pistola, tutte mancanze queste ritenute gravissime dai tedeschi, tale da prevedere la fucilazione immediata, sul posto, se ripresi, aveva dato di sé tutte quelle false informazioni per coprire famiglia e parenti da eventuali malversazioni dei nazisti.

Dopo aver stampato alcuni ingrandimenti dell’unica foto dove appariva Coduri insieme a un altro folto gruppo di partigiani durante una processione religiosa, la ricerca per stabilire la vera identità di Coduri ebbe finalmente inizio. Due incaricati del Sindaco di Sestri Levante, muniti delle opportune deleghe, partì per Massa per effettuare un primo controllo al locale Distretto Militare. Dove, sfogliando i registri contenenti la lettera “C”, scoprirono che di Coduri ve n’erano, sì, tanti, ma nessuno che si chiamasse Mario, classe 1922. Allora, con lettera intestata del Comune di Sestri Levante, vennero contattati alcuni Dipartimenti francesi, diversi Consolati italiani di città del sud-est francese: Marsiglia, Alta Savoia, Lione. Anche in questo caso risposte tutte negative.

Quindi fu deciso di rintracciare, per intanto, i tre commilitoni che erano insieme a Scioa quando raggiunsero il casone di Sesco per aggregarsi ai partigiani. E per primo incominciarono con lo scrivere una lettera a “Nike”, presso la stazione ferroviaria di Verona e poi si recarono in Toscana, per sentire “Maccario” e “Mussolini”, ambedue toscani. Per “Nike”, in seguito  rispose la famiglia dicendo che il loro caro era purtroppo deceduto per malattia qualche anno prima. Dagli altri due, avendoli rintracciati, ebbero conferma che “Scioa” non faceva di nome Coduri Mario ma Coduri Giuseppe, perché così l’avevano sempre chiamato, ad alta voce, i tedeschi, nella Kriegsmarine, quando al mattino effettuavano l’appello. E aggiunsero anche che il loro compagno era una persona un po’ introversa, di poche parole, ma molto astuto e intelligente. Che di sé era restio a parlare; diceva solo che da bambino era emigrato in Francia, a Brignoles, vicino a Tolone; che aveva prestato servizio militare in Italia; di essere sposato; di avere in Francia un figlio piccolo di cui ne sentiva molto la mancanza; e che i suoi rapporti con la moglie Silvia erano piuttosto tesi.

Circa un mese dopo, al sindaco di Sestri Levante, giunse finalmente una telefonata direttamente dal suo omologo di La Spezia, Varese Antonio, che desiderava comunicargli che nella sua città risiedeva una certa Coduri Adele, la quale, rimasta vedova alcuni anni dopo la fine della guerra, s’era trasferita in Francia, dove già aveva emigrato negli anni ’20, ed esattamente in località Brignoles a nord di Tolone, dove già era presente un folto gruppo di italiani che lavoravano in una miniera di bauxite. Che la signora Adele aveva avuto due figli, una femmina sposata che viveva per conto proprio, e un maschio, invalido di guerra, sposato anche lui, che abitava alla Spezia e che lavorava in municipio come messo. Poi il Sindaco spezzino salutò e pose i due in comunicazione tra di loro. La prima domanda che il sindaco di Sestri Levante rivolse allora al suo nuovo interlocutore fu, se lui fosse per caso parente di quel Coduri che prestava servizio nella Kriegsmarine. Il messo gli rispose positivamente, che si trattava di suo zio Coduri Giuseppe, ma che da tempo più nessuno ne sapeva niente, perché non lo avevano più visto da quando, nel ’44, prestava servizio a La Spezia, nella marina tedesca. Disse che ricordava benissimo l’ultima volta che lo zio era stato a far visita a sua madre, che era triste e abbattuto e che probabilmente, durante quella medesima notte, lui e alcuni dei suoi commilitoni, sarebbero stati trasferiti in una località, a loro, ancora sconosciuta. Nota: probabilmente trasferiti a Sestri Levante dove poi rimasero fino alla fuga nei partigiani di “Virgola”.  Insomma, il nipote e la sorella non sapevano però nulla della morte di Giuseppe Scioa avvenuta a Carro (SP) il 1° agosto 1944!

Un altro incontro col nipote avvenne la settimana successiva, a La Spezia. Durante tale conversazione furono acquisite altre notizie fondamentali, che messe tutte insieme: con le precedenti fornite dal nipote stesso, e poi con le successive apprese direttamente dalle due sorelle (perché Giuseppe, oltre ad Adele rimasta vedova, tornata a Brignoles a guerra finita e qui risposatasi con un corso) ne aveva un’altra di sorelle, Virginia (anche lei sposata con un corso e abitante a Brignoles). Dove gli incaricati di Sestri si recarono in seguito, per incontrarsi con le due sorelle, il figlio di “Scioa”, Jean Pierre (anche lui sposato, con tre bambini, che faceva il camionista) e la moglie, Silvia Antonioli (anche lei già risposata con signore di nome Paolo). Ed anche a far conoscenza con molti altri italiani ch’erano emigrati là e lavoravano quasi tutti nella stessa miniera di Bauxite. A tutti venne anche mostrata l’unica foto di Scioa in processione, e molti furono quelli che lo riconobbero, ma nessuno sapeva ch’era morto, partigiano, in combattimento a Carro.

Poi presero anche accordi per rincontrarsi e ufficializzare, davanti alle autorità competenti francesi, assistiti da legale, il riconoscimento e l’avvenuto decesso di Giuseppe Coduri. Procedura necessaria da effettuarsi prima a Sestri Levante e poi in Francia, dove i rappresentanti del Comune di Sestri Levante, esperite tutte le pratiche necessarie prima in Italia, avrebbero fatto ritorno per chiudere definitivamente la pratica del riconoscimento di Coduri anche laggiù, in Francia.
Dopo qualche settimana dal rientro dalla Francia della delegazione sestrese, tutti i massimi vertici delle tre Brigate della “Coduri”: cioè la Dell’Orco”, la “Longhi” e la “Zelasco”, e dato pure che il riconoscimento legale di Coduri Giuseppe era ormai cosa fatta, il Sindaco di Sestri Levante espresse la necessità di non poter più partecipare a coprire eventuali altre spese con la cassa del comune.

E così venne fatto, (V. i documenti seguenti in ordine di data) – Da tenere presente però che vi possono essere alcuni dati discordanti tra quelli riportati sui documenti ufficiali e quelli forniti dai parenti, dai commilitoni o dai semplici cittadini o conoscenti, cosa che dipende esclusivamente dalle fonti da dove quei dati provengono. Molti arrivano di solito dalla stessa memoria delle singole persone, e basta un niente, trascorsi decine d’anni essere perfetti nel ricordare è, a volte, assai difficile.

A questo punto l’unica cosa rimasta ancora da stabilire sarebbe quella di come Coduri sia potuto finire nella Kriegsmarine tedesca. Una certa tradizione, e alcuni congiunti, lo vorrebbero richiamato sotto le armi e l’8 settembre ’43, trovandosi in forza a un reparto Alpino di stanza a Bolzano, abbandona l’Esercito, e, tra mille peripezie, fugge verso La Spezia, trovando sicura ospitabilità presso la sorella Adele. Fatto di per sé improbabile per due semplici ragioni: a) Il richiamo sotto le armi delle classi 1914/’17/’18 è stato bandito solo nell’aprile/maggio 1944, e qui, invece, siamo alla prima quindicina di settembre ’43, quindi al di fuori della zona temporale a rischio chiamata. b) Se Coduri fosse stato richiamato e poi avesse disertato, ce ne sarebbe ovvia menzione nel suo Foglio Matricolare, dove invece non compare nulla.
Ma allora Scioa da cosa stava fuggendo quando arrivò a rifugiarsi a La Spezia dalla sorella Adele? S’era allontanato dalla famiglia, residente a Brignoles, in Francia, perché non andava d’accordo con la moglie Silvia? Sappiamo che la famiglia dei suoceri risiedeva a Massa: allora, all’atto del suo congedo militare (nel 1936) Coduri s’era fermato per un certo tempo a Bagnone, dove ancora aveva la residenza, e dopo qualche anno s’era sposato e s’era trasferito per la seconda volta (la prima volta, ancora dodicenne, nel 1922) a Brignoles, con la moglie, per lavoro? Domande come queste, non essendo in possesso di documentazione certa e di probanti testimonianze, sarebbero tante, ma quelle a cui non siamo in grado di dare una risposta netta, sono purtroppo tantissime. Perciò ci limiteremo, anche perché non amiamo tirare a indovinare, a prenderne in considerazione solo due collegate alla dicotomia fascismo-antifascismo: 1) Aver aderito spontaneamente alla R.S.I. e poi essere passato alla Kriegsmarine? Oppure essere accidentalmente finito in un rastrellamento effettuato dai tedeschi ed essere stato poi costretto a scegliere tra le solite tre possibilità offerte: essere spedito in un campo di lavoro germanico, per morirci di stenti; arruolarsi nel nuovo esercito della R.S.I. per finire chissà dove; o entrare direttamente nella Kriegsmarine? Ma sapendo ormai come s’è conclusa la vicenda, quest’ultima ci parrebbe essere la scelta più ovvia effettuata allora da Giuseppe Coduri: intanto per essere a lui più favorevole, date le sue precarie condizioni di arrestato: rimanere a far servizio sulla bettoline, a La Spezia; poi, per altro breve periodo, a Massa; e alla fine, a Sestri Levante, dove, appena gli si è presentata l’occasione, ha disertato, rischiando non poco, dalla Kriegsmarine per salire ai monti e arruolarsi nei partigiani di quella formazione che successivamente prenderà il suo nome, la Divisione “Coduri”, che molto, poi, s’è distinta e battuta nella lotta per la Libertà. 

oooooOooooo

Di seguito riporto una chiosa tuttora inedita di Amato Berti, che descrive il triste epilogo del raduno partigiano successivo all’identificazione di Giuseppe Coduri, avuto luogo a Sestri Levante dal 5 al 12 giugno 1977, in parte per festeggiare l’avvenimento dell’identificazione di “Scioa” e in parte per sollecitare la tanto sospirata stesura di una Storia della “Coduri”, che ancora aspettava d’essere scritta.  

Di Amato Berti (inedito): “… Ritornati a casa, Nadotti ed io (N. (evb) che molto s’erano dati da fare per raccogliere le più importanti notizie su Coduri) riprendemmo sereni il nostro lavoro; avvisammo l’ANPI ed il comune di Sestri Levante dell’esito finale delle nostre ricerche.
Il comando della “Coduri”, coadiuvato delle sezioni ANPI del Tigullio e da quella provinciale, decise di organizzare un incontro di tutti i partigiani della Brigata sparsi per l’Italia e anche all’estero. Si fecero accordi con gli albergatori e i gestori di ristoranti per mantenere i prezzi un po’ più bassi, in modo che fossero accessibili anche ai meno abbienti. Furono inviate lettere di invito a tutti i partigiani ed ai parenti dei caduti della “Coduri”. Furono invitati anche i partigiani di altre formazioni operanti nella provincia di La Spezia e di Massa Carrara; come oratori furono invitati l’allora presidente della camera Sandro Pertini (eletto l’anno successivo, 1978, presidente della Repubblica) e Alessandro Natta, deputato del P.C.I e, dopo la morte di Enrico Berlinguer, segretario dello stesso partito. Ambedue liguri, il primo di Stella, in provincia di Savona, il secondo di Imperia.
Si invitarono anche i parenti di Coduri. Il sindaco Ghio e tutta l’amministrazione comunale si prodigarono non poco sia durante le ricerche, sia per il raduno dei partigiani: fecero di tutto affinché la festa andasse a buon fine.

Il corteo fu veramente maestoso, una folla plaudente e numerosa esultava al passaggio dei partigiani. In testa al corteo erano la moglie di “Virgola”, la signora Rosa, moglie di “Bocci” e tante altre donne. Al centro camminava Sandro Pertini, seguivano il vicecomandante della “Coduri” Italo Fico “Naccari”, il commissario politico Bruno Monti e il capo di Stato Maggiore Giovanni Sanguineti “Bocci”; seguivano i partigiani della Brigata “Longhi” col loro comandante Paolo Castagnino “Saetta”; i partigiani della Brigata “Zelasco” col loro comandante Aldo Vallerio “Riccio” e quelli della brigata “Dall’Orco” col loro comandante Dino Massucco “Tigre”. Infine, i partigiani di altre province, i loro comandanti, le autorità locali e una folla veramente grandiosa di persone di Sestri Levante e dei comuni vicini; sui lati la folla festante. Certamente i partigiani che stavano sfilando avranno pensato ai loro compagni che non c’erano più, caduti in combattimento o uccisi dai plotoni di esecuzione, ovvero morti di stenti nei lager nazisti per riscattare l’onore dell’Italia, la democrazia, la libertà. Il corteo si sciolse dopo i discorsi di Pertini e di Natta. Ognuno si avviò verso gli alberghi, i ristoranti o le proprie abitazioni, contenti per la riuscita della festa e orgogliosi dell’appartenenza alla “Coduri”.
La signora Silvia Coduri, il suo secondo marito Paolo e il loro figlio vennero a pranzo da me; il figlio di Giuseppe, Jeanpierre, andò da “Patata”. Dopo pranzo ci telefonò Robello Mario dai bagni Aurelia, a Cavi di Lavagna, chiedendoci di passare tutti da lui perché aveva piacere di salutare i Coduri prima della loro partenza.

Ci offrì un gelato e da bere; verso le 15,00 i Coduri partirono per Brignoles, mentre Jeanpierre approfittò della settimana di ferie per andare a far visita ad alcuni parenti della mamma a Massa, per poi partire in treno per Civitavecchia, ove risiedeva una sorella della madre. L’allegria per la riuscita della festa purtroppo durò poco: verso le 17,00 venne a casa mia Nadotti il quale, trafelato, mi disse: “I Coduri hanno avuto un incidente stradale nei pressi di Imperia, Paolo è molto grave, Silvia ha riportato solo escoriazioni e ferite lievi alla gamba destra, il loro figlio per fortuna è rimasto illeso. Hanno portato Paolo a Genova, all’ospedale San Martino in camera di rianimazione. La signora Coduri ed il figlio sono all’ospedale di Imperia. Mi ha telefonato Raimondo informandomi anche che Jeanpierre dovrebbe partire da Massa col treno delle 18,30 per Civitavecchia e mi ha chiesto di fermarlo e farlo tornare indietro prima che salga sul treno.” Partimmo subito in auto, avevamo poco più di un’ora di tempo per raggiungere Massa. Andando ad una velocità sostenuta, arrivammo ben presto al casello e in poco tempo in stazione. Per non perdere tempo qui, ci dividemmo per cercare Jeanpierre. Fortunatamente stavano annunciando il ritardo proprio del direttissimo da Torino per Massa, il suo treno. Nadotti lo scorse per primo e, raggiuntolo, lo informammo dell’accaduto. Il ragazzo si mise a piangere, cercammo di consolarlo e lo facemmo salire in auto; partimmo per Genova, questa volta ad una velocità più normale. Arrivammo al pronto soccorso di San Martino verso le 20,30 e chiedemmo ad una infermiera di farci vedere Paolo. Questa gentilmente ci accompagnò nel reparto di terapia intensiva, chiarendoci però che lo avremmo potuto vedere soltanto attraverso un vetro perché non si poteva entrare; poi ce lo indicò. Paolo aveva la testa tutta fasciata, giaceva supino ed immobile, era intubato e con diverse flebo. A vederlo così immobile sembrava che dormisse un sonno profondo, chiedemmo all’infermiera come erano le sue condizioni, lei scosse la testa e ci spiegò che Paolo aveva fratture multiple alla testa ed al braccio, al momento era in coma profondo con possibili lesioni interne: sarebbero state decisive le prossime quarantotto ore. Ripartimmo da Genova verso le 21,30 alla volta di Imperia, dove raggiungemmo Raimondo in ospedale. Silvia Coduri aveva una gamba fasciata e zoppicava, aveva alcune ferite ad un braccio e abrasioni sul viso, era comunque stata dichiarata guaribile in dieci giorni; suo figlio aveva soltanto delle lievi escoriazioni sul viso. Jeanpierre, dopo aver informato sua madre e ed il fratellastro delle gravi condizioni di Paolo, tornò con lo zio Raimondo a Brignoles. “Patata” ed io ritornammo a Sestri Levante. Prima di partire rassicurammo la signora Coduri che la avremmo tenuta informata delle condizioni del marito, così ogni due giorni andavamo al San Martino per vedere come stava Paolo, lasciammo anche un nostro recapito telefonico ai dottori per essere avvisati in caso fossero cambiate le sue condizioni. Purtroppo non ci furono miglioramenti nel suo stato di salute e la mattina del 26 giugno 1977 Paolo morì. Avvisammo subito i parenti e dicemmo loro che lo avremmo accompagnato noi, a nostre spese, a Brignoles. Tramite il dott. Mario Chella, allora assessore all’edilizia nel Comune di Sestri Levante, ci si accordò col Comune di Genova per le spese funerarie e di trasporto della salma, che furono sostenute da quest’ultimo. Nadotti con sua moglie ed io con la mia, ci recammo alle camere mortuarie dell’ospedale, dove ci attendeva il carro funebre col feretro ed i documenti di trasporto; partimmo per la Francia. La nostra Volkswagen precedeva l’auto dove c’era Paolo per l’ultimo viaggio a casa. Quando ci fermammo al confine, mi colse la tristezza e mi chiesi se era valsa la pena esperire così tante informazioni per stabilire l’identità di Coduri. Dopo tanta gioia per il riconoscimento del nostro eroe, un’altra tragedia colpiva la famiglia Coduri e noi stavamo portando a casa un altro morto: sembrava che una sorte cinica si fosse accanita contro questa famiglia.

Nadotti scese con i documenti ed entrò nell’ufficio della dogana francese; discusse a lungo con i doganieri e poi uscì accompagnato da loro che vennero a controllare il feretro. Nadotti diede loro una discreta somma di denaro. Io gli chiesi come mai e lui mi rispose che il passaggio con una salma costava settemila lire. Continuammo il nostro mesto viaggio fino a Brignoles. Qui, sulla piazza, ci venne incontro, zoppicando e piangendo, Silvia. Vennero anche Raimondo, il figlio di Paolo e Jeanpierre: entrambi in lacrime. Poi Silvia ci presentò un altro giovane, robusto, alto e biondo e ci disse che anche lui era suo figlio e anche lui portava il cognome Coduri. Era la prima volta che lo incontravamo perché nei nostri precedenti incontri non c’era mai stato e Silvia non lo aveva mai nominato. La cosa ci interessava relativamente, in quanto era un argomento privato, tuttavia restammo un poco allibiti e delusi dalla signora Coduri…

Si celebrò la messa e accompagnammo la salma al cimitero. Durante la funzione religiosa, Nadotti ed io restammo fuori e parlammo con un signore che conosceva bene Paolo. Io gli chiesi come mai il figlio biondo portasse il cognome Coduri e non quello di Paolo. Vidi un sorriso aleggiare sul suo volto e poi rispose: “Tenne il cognome Coduri perché, per la legge francese, Giuseppe Coduri era ancora in vita quando nacque il bambino. Paolo lavorava in miniera e guadagnava ben poco, nonostante ciò allevò tre figli, con notevoli sacrifici e potè sposarsi solo dopo 25 anni dalla fine della guerra, nel 1970; suo figlio in quell’anno aveva ben 18 anni!”. Dopo la cerimonia andammo a casa di Silvia, la quale aveva fatto preparare un pranzo dalla sorella più giovane. Era tutto gustoso ed abbondante, ma l’atmosfera che regnava in quella casa era lugubre e triste. Dopo pranzo ci congedammo e ripartimmo per l’Italia”.  (A.B.)

 

LA MORTE DI CODURI GIUSEPPE (Mario?) “SCIOA” ricostruita attraverso le testimonianze di alcuni abitanti di Carro presenti al fatto.
(Apparso negli anni Ottanta del secolo scorso a corredo dell’articolo di Fig.15 riproposto poi (anni Novanta) sul sito Netpoetry.it) 

 

Premessa: Agli inizi del mese di luglio del 1944, la “Banda Virgola”, ormai forte di circa 200 uomini, lascerà Comuneglia – dove s’era trasferita da circa un mese – e forma due distaccamenti, di cui uno si porta a Iscioli e l’altro a Velva: col compito rispettivo di tenere sotto controllo, ad ovest, la Val Graveglia e i macchinari dei Cantieri di Riva Trigoso colà occultati per evitarne il sequestro e il successivo trasferimento in Germania da parte dei nazisti; e ad est la Val Petronio, il Bracco occidentale e la bassa Val di Vara.
A Velva s’erano intanto eletti i nuovi quadri dirigenti: comandante “Virgola” (Eraldo Fico); commissario “Leone” Bruno Monti; vicecommissario “Italo” (Armando Arpe); capo di stato maggiore “Bocci” (Giovanni Sanguineti).
Al fine di migliorare ulteriormente la distribuzione strategica delle sue forze, il gruppo di Velva si suddivise a sua volta in tre nuovi distaccamenti di circa 35/40 uomini ciascuno, che verranno così dislocati: uno, al comando di “Naccari” (Italo Fico) alle Fascette di Missano; l’altro, al comando di “Ce” (Cesare Talassano) a Castello; e il terzo rimarrà a Velva, sede anche del Comando.

Completata la formazione dei quadri e disposto un più razionale assetto territoriale dei reparti, la “Banda Virgola” potrà tornare così a dedicarsi interamente alle sue azioni di sabotaggio lungo la SS. Aurelia-Passo del Bracco e su quelle di collegamento interregionale della Val di Vara e della Val Graveglia, indispensabili ai tedeschi per i collegamenti con le truppe della sua riserva di stanza in Pianura Padana.

1° Agosto 1944: morte di CODURI Giuseppe (Scioa)

Antefatti: A Castello, frazione del comune di Carro, dove si trovava il distaccamento di “Ce”, come di consuetudine (e contravvenendo in quell’occasione ad una precisa ordinanza prefettizia che vietava tutte le feste, comprese quelle religiose) domenica 30.07.1944 si festeggiava S. Anna (che quell’anno cadeva di mercoledì, ma i festeggiamenti venivano e vengono tuttora spostati alla domenica successiva).
Forse per proprio sospetto o forse dietro qualche spiata, il Comando degli alpini doveva essere stato in qualche modo informato del gruppo di partigiani presente a Castello, e aveva, perciò, approfittato della confusione derivante dalla festa patronale di S. Anna per inviare colà suoi osservatori in abiti borghesi.
Probabilmente le informazioni ricevute e i dati raccolti in quell’occasione, furono ritenuti attendibili, o per lo meno sufficienti per indurre il Comando della Monterosa ad effettuare una rapida incursione verso questo gruppo di partigiani.
All’alba del 1° agosto, infatti, un nutrito contingente di alpini sorprende i partigiani di Castello ancora nel sonno e ne fa prigionieri due, Marsili Cesare “Grigio” (n. 1885) e il comandante, Talassano Cesare “Ce” (n. 1921). Gli altri, nel susseguente parapiglia, riescono a sottrarsi alla cattura rifugiandosi nella vicina boscaglia.
Fino a quel momento, da entrambe le parti non viene fatto assolutamente uso delle armi. Evidentemente da parte dei partigiani non vi fu il tempo materiale per organizzare una qualunque forma di risposta (la sentinella sembra si fosse incautamente appisolata); da parte degli alpini vi fu invece uno scopo ben più preciso e mirato: evitare di spargere sangue civile per non attirare su di sé l’odio e la riprovazione dell’intera popolazione (infatti Castello dista assai poco da Carro e da Velva) perché ogni eccesso sarebbe stato certamente considerato un atto estremamente ostile nei confronti dei cittadini delle borgate circonvicine.
Oltre ai due partigiani succitati, gli alpini prelevarono, dal rifugio dei ribelli, tutto il materiale presente all’interno del casone che li ospitava: due sacchi di farina di grano (circa un quintale) mezza bestia macellata (una mezza mucca o vitello) si diceva, e alcune armi e attrezzature varie.
Tornando al proprio accampamento col bottino, nel pomeriggio gli alpini costringono l’intera popolazione di Carro a radunarsi nella piazzetta del paese (lo slargo che si apre quasi di fronte alla chiesa lato ovest) per ricordar loro i doveri a cui tutti i buoni cittadini debbono scrupolosamente attenersi, sempre secondo i loro dogmi: non prestare mai nessun tipo di assistenza ai partigiani, additati spesso come “i veri traditori della patria”; non familiarizzare mai e non collaborare in nessuna maniera con loro, con sprezzo definiti “indegni cittadini”, assolutamente da non imitare e da non seguire. Mai! anzi, denunciarne immediatamente l’eventuale presenza al comandante del presidio alpino, ecc. ecc., pena la fucilazione e altre severissime restrizioni delle libertà personali da considerare assolutamente estese indistintamente a tutti gli abitanti del paese. E i due prigionieri con i polsi legati, tenuti ostentatamente sempre di fianco all’oratore (Colini, un tenente, ma di cui nessuno di quelli che stavano conversando con me ne ricordava più il nome: comunque, sottolinearono con forza alcuni, un uomo molto borioso, piuttosto alto di statura e corpulento, che molti dei presenti ritenevano essere d’origine toscana).
Nel frattempo, però, la notizia della cattura dei due partigiani era giunta, per bocca diretta di alcuni fuggitivi, al Comando di Velva. “Virgola” non ci pensa sopra due volte e organizza un immediato contrattacco. Fa salire una quarantina dei suoi uomini su un camion, sequestrato nei giorni precedenti, e si dirige su Carro; dov’arriva mentre la requisitoria del tenente degli alpini è in pieno svolgimento e dispone subito l’accerchiamento del paese. Dato che molta della popolazione civile e i due prigionieri erano frammisti agli alpini, sul momento, da parte dei partigiani, si ritenne opportuno non intervenire ancora con le armi. Si procedette invece, nel più assoluto silenzio, a stringere un cerchio intorno all’adunata. Dato che quasi più nessuno degli abitanti di Carro si trovava in casa, in seguito all’ordine degli alpini di scendere tutti in piazza per ascoltare la filippica del tenente, i partigiani ebbero modo di disporsi in posizione più che favorevole, compreso l’interno di molte case di civile abitazione rimaste, per l’appunto, vuote.
Pare sia stato un civile a dare l’allarme. Fatto sta che alle grida di molti: “I partigiani, i partigiani!”, avvenne una confusione indescrivibile. I partigiani ne approfittarono per scagliarsi in massa sul gruppo degli alpini; i quali, per altro, colti di sorpresa, si diedero a precipitosa fuga disinteressandosi completamente dei loro due prigionieri che poterono così unirsi ai loro compagni. Vi furono alcuni corpo a corpo, poi gli alpini fuggirono in massa verso il lato est del paese andandosi a nascondere nella boscaglia sottostante. (Nella direzione dove attualmente c’è il palazzo del Comune). Parte dei partigiani li inseguirono; parte, quelli appostati nelle case (di cui alcuni anche sul campanile della Chiesa) aprirono il fuoco sui fuggiaschi. Un altro gruppo di partigiani, tra i quali “Virgola”, s’introdusse nei magazzini della sussistenza della Monterosa (che erano disposti lungo il lato sinistro dell’attuale osteria, dove ora ci troviamo noi per raccogliere queste testimonianze) e prelevò quanto più gli fu possibile di armi, munizioni, vettovaglie, vestiario e attrezzatura varia.
Nel frattempo, nascosti nella boscaglia, alcuni alpini montarono una mitragliera e risposero al fuoco partigiano. Fu appunto un colpo di questa mitragliera a colpire Coduri alla fronte: s’era sporto per un attimo dal muricciolo che protegge la strada dove ora sorge il monumento in suo onore, quando il proiettile lo colpì mortalmente in fronte.
Vedendo il loro compagno stramazzare al suolo con la fronte trapassata (la pallottola gli entrò nella fronte, poco sopra l’occhio sinistro, e gli uscì dalla nuca provocandogli un orrendo squarcio posteriore) i partigiani furono colti da improvviso sgomento. Poi reagirono istintivamente con rabbiose raffiche di sten dirette contro il nascondiglio degli alpini. E sotto l’imperversare del fuoco nemico – che nel frattempo s’era in parte anche riorganizzato – alcuni partigiani cercarono di soccorrere Coduri, che fu trasportato, ormai privo di vita, verso l’interno del paese.
I partigiani alla fine si sganciarono e si unirono al gruppo dei loro compagni, intenti a recuperare il materiale da portar via. Lo scoramento era però sceso dentro i loro cuori. Per non rallentare ulteriormente lo sganciamento, la salma di Coduri fu nascosta in un fienile, dove nottetempo verrà recuperata e trasportata, con un carro agricolo, a Velva. La morte di Coduri Giuseppe avvenne quindi, secondo la testimonianza di questo gruppo di persone, verso le ore quattro del pomeriggio del 1° agosto 1944.
Tornata la calma, gli alpini tornarono in paese e organizzarono una sommaria inquisizione contro molti dei cittadini di Carro (tra cui don Rolandelli, il parroco in quanto alcuni colpi di fucile partirono dal campanile) che vennero incolpati dal comando alpino di essere dei collaboratori dei partigiani. Seguirono interminabili interrogatori, intimidazioni e minacce. Alcuni subirono anche lo stato detentivo per diversi giorni. Poi intervennero i due Comandi, Virgola per i partigiani e il col. Chierici per gli alpini, che si accodarono per il rilascio dei nove alpini in mano ai partigiani e quello di tutti i civili in mano agli alpini: e una calma relativa scese nel paese di Carro.
Giudicandolo troppo esposto a eventuali attacchi partigiani, il presidio della Fraz. di Baracca-Passo del Bracco nel comune di Deiva Marina (SP) venne, circa un mese dopo, abbandonato dalla Monterosa, e i suoi effettivi andarono a infoltire il già numeroso presidio di stanza a Velva.                                             

P.S.: Ma il partigiano CODURI, di nome, si chiamava Mario oppure Giuseppe? Secondo la Commissione dei riconoscimenti istituita a guerra finita per inventariare le identità dei combattenti partigiani, il suo nome di battesimo risulterebbe essere Giuseppe, nato a Monticelli d’Ongina (Pc) il 17.09.1914, e non Mario, come appare invece sul cippo in sua memoria innalzato a Carro, per esempio, e in altre situazioni in cui si è voluto commemorarlo (tipo sedi di partito, ecc.) intitolandole a suo nome. Altra cosa abbastanza controversa sembra essere stata per un certo tempo la sua nazionalità: francese o italiana? Gli abitanti di Carro che hanno partecipato alla ricostruzione dei fatti connessi alla sua morte descritti sopra, per esempio, lo definiscono quasi certamente di nazionalità francese, oppure polacca. E certamente Mario di nome. Pure molti dei suoi amici partigiani lo indicano ancora come Mario di nazionalità francese, ma nato da genitori italiani.
A questo punto bisogna ricorrere alla sunnominata Commissione regionale Ligure per il riconoscimento della qualifica di partigiano – unico Ente ufficiale che possa dare una risposta definitiva al riguardo – e dire con essa che: “Scioa” si chiamava certamente Giuseppe Coduri ed era nato a Ponticelli d’Ongina (Pc) il 17.09.1914. E quindi era di sangue italianissimo. In Francia sembra vi sia effettivamente stato, ma per motivi di lavoro, e vi abbia soggiornato per appena un paio d’anni.
Non è da escludersi, però, che a confondere le acque abbia molto consapevolmente contribuito egli stesso. Intanto, bisogna ricordare ch’egli si presentò in “banda” (per altro insieme ad un gruppetto di altri tre suoi compagni) durante il mese di giugno 1944: quando la Resistenza non era ancora così consolidata come lo diverrà successivamente, fuggendo da un’unità della marina tedesca alla fonda nelle acque di Sestri Levante.
E quello di confondere quanto più possibile la propria identità era un espediente assai praticato in quei tempi, per non lasciare tracce visibili dietro di sé e depistare in tal modo i nazisti che avevano sempre l’abitudine d’intraprendere una caccia spietata per riacciuffare ogni fuggitivo. Non si dimentichi che un’eventuale cattura dei “disertori” ne comportava quasi automaticamente la fucilazione o l’immediato invio nei campi di concentramento nazisti sparsi in mezz’Europa. In casi del genere, un po’ di disinformazione sul proprio conto è quasi auspicale, per non dire estremamente utile.  (e.v.b.)