Fasc. 40 Doc. 9 – by Elio V. Bartolozzi: “Rodolfo e Giovanni Zelasco”.  

Foto di Rodolfo Zelasco “Barba” da giovane studente.

Quest’articolo, che è il 23° Capitolo (pp. 365-380) del libro di Angelo Bendotti, presidente dell’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, dal titolo: “Banditen. Uomini e donne nella Resistenza bergamasca”, ed. Il Filo di Arianna, Bergamo 2015, viene qui integralmente proposto per gentile concessione dell’Autore, che sentitamente ringrazio.

Rodolfo Zelasco muore nelle prime ore del pomeriggio del 5 dicembre 1944, a Montedomenico, nell’entroterra del Tigullio, in un agguato teso alla sua squadra da un plotone di alpini della Monterosa mentre stava rientrando da una missione nel vicino comune di Casarza Ligure:

Quando gli alpini cominciarono a sparare […] il primo a cadere fu Zelasco, da tem­po diventato il partigiano “Barba”. Impossibilitato a muoversi, Barba aveva ordinato ai suoi compagni (rimasti tutti illesi) di mettersi in salvo. Poi, da ferito, aveva continuato a sparare sugli alpini riservando per sé l’ultima pallottola. Era un disertore e non aveva dubbi sul trattamento che avrebbe ricevuto se si fosse fatto catturare. Basta prendere atto del trattamento che gli riservarono da morto […] raggiunto il luogo dove si era infrattato a sparare gli ultimi colpi. Immediatamente gli avevano tolto l’arma e poi, prima di abbandonare il cadavere, avevano infierito su di lui col calcio del fucile. (Vedasi di Elio V. Bartolozzi, Memoria addomesticata. Note sulla morte di Rodolfo Zelasco, in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, n. 76, dicembre 2011, p. 81).

Sono passati 48 giorni dalla morte all’Ospedale di Bergamo di suo padre Giovanni, che il 30 settembre era precipitato con un camioncino ad Algua, con altri tre compagni: Norberto Duzioni, Mario Buttaro, Pasqualino Carrara. (N.evb.: vedasi cap. 13° del libro “Banditen…”). Sia Carrara che Buttaro hanno lasciato precise testimonianze sul tragico avvenimento; della testimonianza del primo abbiamo già detto, leg­giamo ora la dettagliata descrizione del secondo, rilasciata a circa un anno di distanza dall’avvenimento:

Partimmo esattamente alle ore 10,05 diretti a Zambia, Trattoria della Teresina, dove eravamo attesi alle ore 11. Superata la località Algua e più precisamente raggiunto il bacino superiore del laghetto di Algua, dove la strada ha una curva molto pericolosa, vidi Carrara alzare le braccia per un gesto di disperazione; contemporaneamente il moto-furgoncino usciva di strada, precipitando nel laghetto da un’altezza di circa 20 metri.
Nella caduta ho smarrito i sensi; credo per pochi secondi, perché, ripresa conoscenza e mentre ero ancora immerso nell’acqua, vidi il Carrara dibattersi, completamente sommerso sotto il motore e mi affrettai a soccorrerlo. Il Carrara, preso fiato, giovi! della sua forza superiore all’ordinario si trasse dalla pericolosa situazione, lacerandosi anche le carni e, ripresa la libertà dei movimenti sebbene ferito in più parti del corpo mi raggiunse dal lato posteriore del veicolo; il quale essendosi completamente ribaltato schiacciava Zelasco e Duzioni. Al primo momento li credetti morti ambedue e gridai al Carrara che frattanto si liberava, la terribile constatazione.
Il mio grido deve essere stato compreso anche da Zelasco, il quale rispose muovendo leggermente uno dei due piedi. A quel segnale reclutai [le forze] toccando le quattro estremità sporgenti di sotto l’autocarro ed incitando i due infelici a resistere ancora per la durata di qualche secondo per darci il tempo di soccorrerli. Infatti, aiutandomi Carrara, sollevai il piano del furgone, e subito mi precipitai sotto per reggerne il permettendo a Carrara di trascinare fuori prima Zelasco e poi Duzioni, che riversammo su di un piccolo rialzo verso l’interno del lago, non potendo pensare di trasportarli, con le nostre sole forze e nelle pietose condizioni in cui si trovavano, sulla strada soprastante.
Ambedue giacevano semi asfissiati per la prolungata immersione e per lo schiaccia­mento del torace. Duzioni aveva anche una gamba orribilmente squarciata, dalla quale perdeva abbondantissimo sangue.
Io risalii sulla strada per chiedere aiuti. In quel momento giunse un autocarro di­retto a Serina, sul quale viaggiavano il medico di Oltre il Colle ed un sacerdote (di cui ignoro il nome), che scesero a soccorrere i feriti, coadiuvati dai valligiani accorsi dalla vicina frazione di Rosolo.[ref]Mario Buttaro. Al Comando Distretto militare di Bergamo. Ufficio matricola ufficiali. Dichiarazione, Dalmine, 25 settembre 1945, Carte Angela Maria Zelasco, b. a, fasc. 1. Aisrec. Il sacerdote cui si riferisce Buttaro è don Luigi Dolci, assistente diocesano della Gioventù di azione cattolica; aveva sostituito don Seghezzi deportato in Germania, e si trovava in via Serina per la festività del Rosario, forse il primo a giungere sul luogo dell’incidente, e dopo aver prestato soccorso, convince Buttaro ad allontanarsi: “I due infortunati tremavano di freddo; le labbra di Duzioni erano contratte dallo spasmo. Entrambi, però, facevano cenno a me perché inducessi Buttaro ad allontanarsi mettendo in salvo un tascapane (che conteneva, evidentemente, documenti compromettenti)”. Cfr. G. Belotti, I cattolici di Bergamo, cit., vol. II, p. 658.[/ref]

Alla relazione di Buttaro è opportuno accostare quella del capitano co­mandante la Compagnia dei carabinieri di Bergamo, Nicola Misto,[ref]Questo solerte e capace funzionario aveva avuto un ruolo significativo anche rispetto alle indagini sull’uccisione di Natale Betelli – vedi cap.17 di Banditen. op.cit. – e in altri accertamenti del primo dopoguerra, ad nomen.[/ref]altret­tanto preciso nella descrizione dei particolari:

Da accertamenti praticati e dalla testimonianza del sostituto procuratore del Regio Dott. Ponsero Alberto,[ref]Alberto Ponsero (Bussoleno 1913 – Bergamo 2002), magistrato di lungo corso, arrivò a Bergamo prima degli anni Quaranta, occupando la carica di sostituto procuratore, e di presidente della sezione penale. Concluse la sua carriera come primo presidente della Corre d’appello di Brescia. Di sentimenti democratici, collaborò alla Resistenza, nella banda Barba, formata prevalentemente da carabinieri, corpo nel quale, come ufficiale di complemento, fu tenente colonnello.[/ref] il quale era anche vice comandante di una formazione partigiana clandestina di carabinieri patrioti (Barba) in ordine all’infortunio di cui all’oggetto, è risultato:
In data 5 ottobre 1944, la Questura Repubblicana di Bergamo, facendo riferimento fonogramma del comando della g.n.r. di Zogno, riferiva alla Procura del Regno di Bergamo che il 30 settembre verso le ore 14 un motocarro guidato da certo Carrara Pasquale, nei pressi di Algua, frazione del Comune di Serina, usciva di strada e precipitava in un sottostante burrone. Nell’incidente trovava morte pressoché istantanea il “viaggiatore casuale” Duzioni Norberto mentre l’altro passeggero “casuale”, il prof. Giovanni Zelasco, diretto a Sedrina, strada facendo era stato su sua richiesta ospitato sull’automezzo, riportava lesioni giudicate guaribili in 10 giorni.
Successivamente l’Ospedale Maggiore di Bergamo comunicava, richiedendo il nul­la osta per il seppellimento, la morte del professor Zelasco avvenuta per sopravvenute complicazioni.
Tale procedimento veniva dal dott. Ponsero trasmesso agli archivi, non essendo emersa responsabilità di carattere penale a carico di terzi, in data 11/2/1945.
Gli organi di p.g. del tempo non seppero o, a scanso di responsabilità, non vollero indagare a fondo. In realtà, l’episodio doloroso avvenuto il 30 settembre in Algua di Serina, costituì uno degli avvenimenti di maggior rilievo nella storia della lotta partigiana nella bergamasca, per le conseguenze che ne derivarono.
Invero: come il dott. Ponsero ebbe a riferire ai competenti comandi partigiani, attesa la natura dei compiti, di carattere informativo, cui pure era tenuta la formazione dei carabinieri, sul motocarro guidato dal Carrara sia il Duzioni che il prof. Zelasco non si trovavano affatto quali viaggiatori occasionali o casuali, ma per una precisa e ben deter­minata ragione di servizio, in funzione della lotta partigiana. Il Carrara Pasquale detto Psqualino non era infatti che il normale corriere del Comando della montagna. E nel motocarro da lui guidato non si trovavano soltanto lo Zelasco ed il Duzioni detto “Cerri”, bensì il comandante in persona dei partigiani della montagna, col. Buttaro detto Bassi”. […] Mentre il povero Duzioni moriva quasi subito, dissanguato dalla vasta ferita ad un arto, il prof. Zelasco poteva ancora essere ricoverato vivo all’Ospedale, ma una polmonite ab ingestis intervenuta in seguito alla ingestione fin nei bronchi di materiale infetto, sedimenti di un corso d’acqua dove rimase, inerte, parecchi minuti immerso, lo trasse inesorabilmente a morte. […] È incontrovertibile pertanto che la morte del prof. Zelasco è dovuta direttamente ad incidente occorso in servizio e per causa di servizio, quale partigiano del Corpo volontari della libertà. [ref]Cfr. Legione territoriale dei carabinieri reali di Milano. Compagnia di Bergamo, Relazione all’Istitu­ite delle assicurazioni, f.to Nicola Misto, 5 luglio 1946, Carte A. M. Zelasco, b. a, fasc. 4, Aisrec.[/ref]

Giovanni Zelasco era nato a Voghera il 27 agosto 1893. Suo padre era conosciuto da tutti come “l’avvocato dei poveri”, e da lui ereditò quel coraggio civile che lo avrebbe distinto nel corso della sua vita. Entra ancora ancora adolescente nel movimento sindacalista rivoluzionario, legandosi di fraterna amicizia con Filippo Corridoni. All’inizio della Grande Guerra lascia il collegio Ghislieri di Pavia, dov’era studente universitario di lettere, per ac­correre volontario – come semplice soldato – al fronte. Ferito gravemente e decorato di medaglia al valor militare, dopo mesi di ospedale e di cure, rinunziava all’inabilità e tornava a combattere in prima linea. Si laureava ap­pena congedato, iniziando a peregrinare fra varie scuole, anche in Sardegna, fino a vincere la cattedra di lettere presso l’Istituto industriale di Bergamo.
Leggiamo in una nota anonima, che accompagna le tante richieste[ref]Nelle carte che la figlia Angela Maria ha versato all’Istituto sono raccolte le numerose petizioni e dichiarazioni perché l’Istituto tecnico industriale “P. Paleocapa” venisse intitolato a Giovanni Zelasco. La pratica venne inoltrata al ministero della Pubblica istruzione il 17 ottobre 1945. Fra i firmatari Roberto Petrolini, presidente del Cln, il prefetto Ezio Zambianchi, il sindaco di Bergamo Antonio Cavalli. La pratica non ebbe esito favorevole, ed ancora l’Iti oggi porta il nome di P. Paleocapa.[/ref]per­ché gli venisse intitolata la scuola in cui aveva insegnato, questo profilo che caratterizza la sua partecipazione alla Resistenza:

Nel periodo della resistenza, le sue doti di abnegazione, la sua calma imperturbabile, la sua mitezza equilibrata, la sua stessa passione per la montagna, rifulsero servendo ad una risolutezza che non conobbe mai debolezza. Aveva aderito al partito socialista.
Commissario di Zona e fiduciario del Comitato Regionale dei Volontari della Li­bertà, fu organizzatore sagace e infaticabile e si assunse sempre gli incarichi più rischiosi, con una temerarietà sempre fortunata.
Subito dopo il 9 settembre, egli portò in salvo centinaia di prigionieri e di persegui­tati politici, aiutato dal figlio Nani.
Fondatore delle formazioni Matteotti, egli dette se stesso a tutti i partigiani, della montagna e della città, senza distinzione di partito, e si prodigò perché non venisse incrinata la saldezza dell’unità e della concordia. Sotto il nome di “Gilardi”, fu tra gli uomini più preziosi del Comando di Milano, per i collegamenti e per l’organizzazio­ne della resistenza lombarda. Morì in seguito ad un incidente di macchina, avvenuto mentre ispezionava le formazioni della montagna. Il suo grande cuore cessò di battere il 18 ottobre 1944. Alla sua memoria è stata proposta la medaglia d’oro al valor militare. Lasciò la moglie e tre figli: dopo un mese e mezzo, il suo Nani, poco più che venten­ne, lo raggiungeva nel cielo dei martiri della nuova Italia, massacrato ferocemente dai fascisti dopo un’eroica resistenza in cui sacrificava se stesso per salvare i suoi compagni garibaldini.
Padre e figlio giacciono accanto uno all’altro: monito e fiamma per tutti i bergama­schi.[ref]Anonimo, Giovanni Zelasco, Carte A. M. Zelasco, b. a, fase. 1, Aisrec.[/ref]

Assai vibrata e commossa la lettera dell’ex comandante delle Brigate Matteotti della bergamasca, Alberto Paini, che non esita a scrivere:

È ormai notoria tutta la più solerte attività che lo Zelasco, anche contro la volontà di dirigenti socialisti bergamaschi, ha dato per il movimento militare clandestino. Per le Matteotti, vivo e morto, fu il fulgido esempio incitatore in ogni momento.[ref]La lettera di Paini reca il timbro Psiup. Cfr. Carte A. M. Zelasco, b. a, fase. 2, Aisrec.[/ref]

Alcuni membri della direzione del Partito d’azione esprimono la stima più profonda nei confronti del compagno di lotta:

Giovanni Zelasco fu tra i primi organizzatori di bande partigiane sorte sulle monta­gne della Provincia di Bergamo e in città stessa; cooperò poi all’opera di collegamento tra esse e il CLN centrale della Lombardia, nei quali ambienti era molto stimato e tenu­to in considerazione per la sua dirittura morale e sociale nonché per la sua infaticabile attività.
L’opera di propaganda svolta dal Prof. Giovanni Zelasco conosceva né limite né distinzione di Partito: era italiana. Egli era soprattutto grande amico delle classi più bisognose di aiuti materiali e sociali e dei giovani attirandole all’educazione di Popolo Libero con la diffusione della stampa, ma principalmente con l’esempio e la parola.
Alla data del 25 luglio 1943 fu tra i primi italiani a prendere in considerazione la situazione Nazionale per realizzare la tacita certezza di un’Italia libera, così come l’8 set­tembre scese subito sul campo della reazione contro il rinato governo dittatoriale.
Innumerevoli volte mise in pericolo la propria esistenza dedicandosi oltre misura alla salvezza di ex prigionieri alleati e russi che in numero considerevole accompagnò in Svizzera o indirizzò alle formazioni partigiane.
In occasione della sua vita pubblica e privata il Prof. Giovanni Zelasco non tralasciò mai di dimostrare con parole e con fatti i suoi sentimenti anti nazifascisti: ciò anche quando sembrava che il formalismo fascista avesse portato quel regime all’apogeo della potenza e della gloria.
Egli che sempre aveva lottato, ancora lottando cadde: è morto infatti mentre era in missione verso le formazioni partigiane.[ref]La lettera, indirizzata il 13 ottobre 1945 alla direzione dell’Istituto tecnico industriale di Bergamo, reca le seguenti firme: Mario Buttaro, Mario Invernicci, Bepi Verzeni, Piero Sottocornola, Pasqualino Carrara, Enea Ravasio del Pda di Bergamo, e Bepi Signorelli del Pda di Milano. Carte A. M. Zelasco, b. a. fasc. 1, Aisrec.
Enea Ravasio, già citato in questo libro, nasce a Bergamo il 22 agosto 1922. Perito chimico, è attivo dalla primavera 1944 nelle file gielliste, diventando il comandante della III° GL Pianura. Guida l’attacco alla polveriera di Gorle, compie vari sabotaggi. In carcere, a S. Agata e a S. Vittore, condannato a morte, poi alla deportazione, riesce ad evadere e a partecipare alle giornate insurrezionali.[/ref]

Un particolarissimo omaggio alla figura di Giovanni Zelasco è la pubbli­cazione, pochi giorni dopo la sua morte, di un opuscolo dal titolo Prof. Gio­vanni Zelasco, in cui in dodici pagine, Emma Coggiola ne traccia un affettuoso profilo, incurante dei rischi a cui poteva andare incontro ricordando in termini elogiativi un antifascista assai inviso ai repubblichini.[ref]Emma Coggiola (Bergamo, 1905-1994), docente di filosofia e pedagogia presso l’Istituto magistra­le “Paolina Secco Suardo”, ci ha lasciato – oltre al ritratto di Zelasco – uno dei pochi bei libri scritti dai protagonisti sulla Resistenza bergamasca. Alludo a Umili e frammentarie pagine della Resistenza bergamasca (Stamperia Conti, Bergamo 1952), che si apre con un caloroso “invito a tutti i volenterosi che conservano di quel triste, ma anche glorioso e incancellabile periodo della nostra storia, documenti e ricordi degni di essere conosciuti, a renderli noti al pubblico, affinché se ne serva come di un prezioso materiale, lo storico futuro della Resistenza, che potrà meditare su di essi con maggiore obiettività e serenità di giudizio di quella che sia concessa a noi, attualmente” (p. 6).[/ref]

Ci eravamo abituati a pensare al prof. Zelasco come ad una creatura privilegiata cui nulla potesse accadere senza il controllo della sua vigile intelligenza e della forza del suo carattere. L’idea del caso disgraziato e dell’incidente imprevisto che potesse anche solo intaccare o deviare dal suo cammino una attività così nobile e preziosa non entrava affatto nel concetto che noi, ascoltando soltanto la voce del nostro affetto e della nostra ammirazione, ci eravamo fatti di Lui e del suo posto nella vita. Perfino la morte, secon­do noi, doveva arrestarsi rispettosa davanti a questa natura eccezionale, come qualche cosa di estraneo ad essa, che non poteva commisurarsi logicamente e necessariamente al suo ritmo interiore.
Perciò questa fine così tragica e immatura che lo ha sottratto così presto e per sempre al nostro sguardo, all’amicizia, ci lascia ancora smarriti e pensosi.[ref]E.Coggiola, Prof. Giovanni Zelasco, s.l., s.d. [ma Bergamo, 1945], p. 5.[/ref]

La ricchezza d’animo di Zelasco è sottolineata anche in una lettera che Piero Sottocornola, rappresentante del Pda nel Cln bergamasco, invia al provveditore agli Studi:

Una delle figure più alte ed eroiche della Resistenza bergamasca. [,..] Iniziatore delle prime organizzazioni clandestine, fu instancabile poi nel raccogliere intorno a sé i mi­gliori uomini e nel suscitare in essi fede, coraggio ed abnegazione. Si assunse le imprese più rischiose, incurante delle fatiche e dei pericoli.[ref]Al Provveditore agli Studi Dichiarazione del Cln Bergamo, 30 giugno 1945, Carte A. M. Zelasco,b. a, fase. 3, Aisrec.[/ref]

Sottocornola ricorda anche il figlio Rodolfo, suo prezioso aiuto nella fase iniziale della lotta:

Suo figlio Rodolfo, nato a Bergamo il 2 novembre 1924, studente universitario, fu di valido aiuto al padre nel portare in salvo prigionieri e nel recare aiuto ai partigiani.
Diventato caposquadra della Divisione Garibaldina “Coduri”, operante in Liguria, si comportò così eroicamente che, dopo la sua morte in combattimento, venne dato il suo nome ad una delle tre brigate della Divisione.
La salma è stata trasportata il 26 giugno a Bergamo dai compagni d’arme e dal suo comandante “Virgola”, che lo ebbe particolarmente caro.[ref]Ivi. Virgola è Eraldo Fico.[/ref]
R
odolfo, leggiamo in una nota inviata al Comitato di liberazione nazio­nale per la Liguria, “di leva della classe 1924 fin verso la metà di settembre poté restare a casa indisturbato, avendo ottenuto regolarmente una proroga per la sessione autunnale di esami (maturità classica), attivissimo già in que­sto periodo nella propaganda e nella lotta antifascista”.[ref]In risposta alla vostra del21 febbraio [1946], Nota del Cln, Carte A. M. Zelasco, b. a, fase. 2, Aisrec.[/ref]

Rodolfo era un ragazzo timido, taciturno, svogliato, sovente distratto. “È sempre col pensiero altrove”, dicevano di lui i professori[…]. Quel ragazzo strano, isolato, assente, ha interessi ben precisi: è antifascista.[ref]Circolo ‘A. Labriola” (a cura di), I ragazzi nella resistenza al fascismo, I quaderni del Labriola n. 3, Milano 1964, pp. 69-70.[/ref]

“È attivissimo già in questo periodo – continua la nota – nella propa­ganda e nella lotta antifascista. Finiti gli esami si allontanò da casa e, prima attraverso le montagne bergamasche, poi attraverso quelle della Valtellina, solo e col padre […] si prodigò a portare in salvo prigionieri alleati e perse­guitati politici, aiutato dalla profonda conoscenza della montagna”.[ref]In risposta alla vostra del 21 febbraio, cit. – In un ricordo del 18 marzo 1946 di Dino Salvetti, amico di Rodolfo, emerge il forte rapporto che questi aveva con la montagna, “da tutti conosciuto ed amato per la sua generosità ed ardimento e dove perfezionò la sua tecnica su roccia e su ghiaccio; si distinse compiendo note ascensioni: in Grigna, al monte Rosa, al Cervino e sul Bianco”. Cfr. www.netpoetry.it/ZelascoCivati.html[/ref]
È profondo il travaglio che “Nani”, questo il termine affettuoso con cui era chiamato da parenti e amici, vive dopo la chiamata alle armi. Teme che il padre, se dovesse decidere di non presentarsi, possa essere arrestato, lascian­do senza alcun aiuto la madre e i due giovani fratelli. Decide di arruolarsi e il 28 febbraio si presenta in caserma. Il giorno 4 di marzo, con altri com­pagni, è inviato in Germania per l’addestramento: non ebbe nemmeno la possibilità di informare i familiari, che vennero per puro caso a conoscere il suo destino. Torna in Italia con la Divisione Monterosa, battaglione Tirano, destinato in Liguria, senza rivedere i parenti più stretti. Prende, appena pos­sibile, contatto con i partigiani. Del resto, come racconta il figlio di un suo commilitone:

Nell’imminenza del viaggio di ritorno dalla Foresta Nera, era proprio Zelasco che cercava di convincere più alpini possibile di tentare la fuga in massa, una volta giunti  nelle vicinanze di Verona. Aveva coinvolto così tanti commilitoni, che i tedeschi, a guar­dia del convoglio ferroviario su cui viaggiavano i soldati italiani, avevano raddoppiato la guardia e avevano più che triplicato le razioni di vino e di cordiale da distribuire agli alpini.[ref]Testimonianza di Enzo Galizzi, figlio di Luciano Galizzi, partigiano “Argo” della Coduri, legatis­simo a Rodolfo, suo coscritto e commilitone, poi insieme nella Resistenza ligure, e infine, compagno di quello stesso gruppo di patrioti che il volontario sacrificio di Zelasco riuscì a salvare da una morte sicura. Cfr. link nella nota precedente.[/ref]

“Appena gli fu possibile passò in montagna con i suoi uomini, come ci è stato riferito dai compagni. In seguito non abbiamo saputo più niente. Soltanto alla fine di maggio, da compagni della bergamasca abbiamo cono­sciuto la sua morte eroica”.[ref]” In risposta alla vostra del 21 febbraio, cit.[/ref]
Era diventato “un partigiano barbuto, la pipetta in bocca, taciturno e riservato come sempre. È capitato in montagna dopo aver ostinatamente cercato i contatti col movi­mento partigiano. C’è riuscito, ma prima di andare definitivamente lassù, Rodolfo é riuscito ad inviare in montagna, giorno dopo giorno, quasi tutti i soldati del suo plotone con armi e bagagli”.[ref]I ragazzi nella resistenza, cit., p. 72[/ref]

“Il suo comportamento meravigliosamente calmo nelle azioni più teme­rarie, la sua abnegazione pronta ad ogni sacrificio per la causa e per i compa­gni, la sua parola pacata e pur vibrante di passione purissima, sono ricordate con fierezza e con amore da tutti i garibaldini della Divisione Coduri”.[ref]Elio V. Bartolozzi, Rodolfo Zelasco “barba”, nel sito precedentemente citato. Riferimenti precisi a Barba e alle sue capacità di combattente in Paolo Castagnino “Saetta”, // cammino della libertà, De Ferrari editore, Genova 1995, pp. 134-136. Nasce un canto in memoria, che ha nel ritornello, più volte ripetuto, queste parole: “Zelasco Zelasco / Cosa importa se si muore / Col tuo nome sempre in cuore / La vittoria sorgerà”.[/ref]
Muore per salvare i suoi compagni, come detto all’inizio di questo scrit­to:

Ferito alle gambe, ordinò loro di ritirarsi senza perdere tempo nel vano tentativo di portarlo in salvo e, dopo averli incamminati sulla via della salvezza, continuò a sparare fino all’ultimo respiro.[ref]E. V. Bartolozzi, Rodolfo Zelasco, cit. “Lo troveranno più tardi, abbracciato all’arma, crivellato di pallottole e di pugnalate”. Cfr. / ragazzi nella resistenza, cit., p. 73.[/ref]

Le esequie funebri di Rodolfo sono tenute a Bergamo, il 26 giugno 1945. Tre giorni prima, su “L’Eco di Bergamo”, Ernesto Cadetti aveva scritto un commosso ricordo del giovane:

Risorge luminoso nella memoria di chi lo ha conosciuto ed amato, nobile e grande fanciullo dagli occhi azzurri e dalla bionda barba, su cui pendeva eternamente la pipa. Ci teneva ad apparire un uomo, lui che lo era veramente. Con la sua voce profonda e pa­cata è salito in alto, tra il coro dei martiri, degli adolescenti assetati di abnegazione e de­gli uomini maturi che non impararono a piegare il capo, ed incita gli italiani a rendersi degni della libertà per cui egli e suo padre sono caduti. La voce dei morti è infinitamente più potente di quella dei vivi.[ref]E. Carletti, Rodolfo Zelasco, “L’Eco di Bergamo”, 23 giugno 1945. Ernesto Carletti, professore di matematica presso l’Istituto tecnico industriale di Bergamo, era figura assai nota negli ambienti dell’antifascismo bergamasco. Militante del Partito d’azione, tenne una fitta rete di contatti personali con esponenti della cultura antifascista, da Ernesto Rossi a Lucio Lombardo Radice. Fu provveditore agli Studi di Bergamo su incarico del Cln scuola, per essere rimosso dall’incarico dall’intervento dell’amministrazione militare alleata.[/ref]

La salma è accompagnata dal suo comandante “Virgola” che vuole con­durre per un tratto, assieme ai suoi compagni della Coduri, la bara sulle spalle. Agostino Gemelli, rettore dell’Università cattolica di Milano, gli con­ferisce a titolo di onore la laurea in economia e commercio, facoltà a cui Rodolfo si era iscritto dopo il diploma liceale.[ref]Laurea honoris causa allo studente Rodolfo Zelasco, Milano, 8 dicembre 1946, Carte A. Bendotti, feld. 7, b. a, fase. 1, Aisrec.[/ref]

A circa due mesi dai fatti, i compagni di lotta intitolavano al partigiano “Barba” una delle tre brigate, appunto la “Zelasco”, facente parte della divisione garibaldina partigia­na “Coduri”.
A Sestri Levante, il 15 febbraio 1948, alla presenza delle autorità cittadine, dell’Anpi e di molti dei suoi compagni partigiani, veniva posta sulla facciata della chiesetta parroc­chiale di Montedomenico una lapide in sua memoria: “2-11-192415-12-1944: Zelasco Rodolfo / Partigiano Barba / Cadeva eroicamente nella lotta nazifascista / Per la liberazione della patria / I villici di questa zona spettatori / Di tanto martirio vollero eternarne / Il ricor­do qui nel tempio di Dio”.[ref]”Il giornale di Bergamo”, 19 febbraio 1948: “La cerimonia ebbe termine col canto degli inni par- tigiani di cui il ritornello del più commosso, quello della brigata Zelasco, chiama a gran voce il nome di lui come esempio, come testimone, come incitatore”.[/ref]

Lo stesso giorno, nel luogo dove “Barba” era spirato, era stata posta una croce di legno. Deterioratasi col passare degli anni, alcuni abitanti di Libiola e di Montedomenico, di loro iniziativa, l’hanno poi sostituita con una pic­cola stele di marmo bianco con scolpito sopra il nome e le date di nascita e di morte. Sei anni dopo, il 2 giugno 1954, di nuovo a Montedomenico, alla presenza del sindaco, dell’Anpi e di molti suoi compagni della “Coduri”, a “Barba” Zelasco, “caduto per la libertà”, era intitolato il locale edificio della scuola elementare.[ref]E. V. Bartolozzi, Memoria addomesticata, cit., p. 82. Si veda anche lo scritto di Aldo Vallerio “Riccio”, ex comandante della Zelasco, Si inaugura oggi a Montedomenico la scuola intitolata al partigiano Zelasco, “l’Unità”, ediz. genovese, 2 giugno 1954.[/ref]Due altri, importanti riconoscimenti, onoreranno la memoria di Rodol­fo Zelasco: il certificato di patriota, firmato da H. R. Alexander,[ref]Certificato di patriota, n. 174706, f.to H. R. Alexander, s.d.: “Nel nome dei Governi e dei Popoli delle Nazioni Unite, ringraziamo Zelasco Rodolfo di aver combattuto il nemico sui campi di battaglia, militando nei ranghi dei Patrioti tra quegli uomini che hanno portato le armi per il trionfo della Libertà. […] Col loro coraggio e la loro dedizione i Patrioti italiani hanno contribuito validamente alla liberazione dell’Italia e alla grande causa di tutti gli uomini liberi”. Carte A. Bendotti, fald. 7, b. a, fasc. 1, Aisrec.[/ref] e la con­cessione della medaglia d’argento alla memoria al valor militare, conferitagli dalla presidenza del Consiglio dei ministri:

Giovane studente si arruolava nelle file partigiane fornendo, in numerosi combat­timenti, una prova di decisione e di eccezionale valore. Capo squadra, affrontato im­provvisamente da preponderanti forze nemiche, con pronta decisione imponeva ai suoi uomini di ritirarsi e permetteva loro di farlo rimanendo sul posto e comprendo col fuo­co della sua arma e col sacrificio della sua vita, il loro ripiegamento. Nobile esempio di virtù militare di alto senso del dovere.[ref]Presidenza del Consiglio dei ministri, Medaglia d’argento a Rodolfo Zelasco, Roma, 5 agosto 1950, ivi.[/ref]

Un singolare articolo esce in occasione dell’apertura dell’anno scolastico 1950, Zeduri e Zelasco hanno riaperto i libri, che nell’accumunare i due gio­vani caduti della Resistenza pare indicare punti di riferimento per tutta la società. Cosi li ricorda Bortolo Sozzi, loro professore al liceo classico “Paolo Sarpi”:

La tempra ricevuta dalla Scuola la mostreranno a tempo debito. Mario e Nani ave­vano un’anima pulita; appartenevano a quella schiera, in verità abbastanza folta, di quei seri e puri esemplari della nostra gioventù studiosa che, lasciata per tempo la spensiera­tezza e la fantasticaggine, e rinunciata ai vecchi di spirito la volgarità, sanno prendere sul serio le cose serie, caratteri attenti e positivi, che non fanno tuttavia coincidere la realistica solidità con la rinuncia a ogni ideale.[ref]”L’Eco di Bergamo”, 22 ottobre 1950. L’articolo è firmato con lo pseudonimo “Un ribelle”. Sulla fine di Mario Zeduri “Tormenta”, si veda il capitolo 26.[/ref]

La   memoria addomesticata. Note sulla morte di Rodolfo Zelasco
Abbiamo descritto, nella pagina precedente, come muore il partigiano Barba, Rodolfo Zelasco, Nani per gli amici.[ref]Questa ricostruzione è debitrice a due testi di Elio V. Bartolozzi, apparsi su “Studi e ricerche di storia contemporanea”. Il primo, da cui ho tratto anche il titolo di questa nota, è già stato più volte citato; il secondo, Il mio 68° 25 aprile. Ancora su Rodolfo Zelasco, è apparso sul n. 80, dicembre 2013, pp. 33-49.[/ref] Non si arrende, spara contro i nemici tutte le munizioni che ha disposizione, mentre i suoi compagni si salvano per la protezione che egli offre loro. L’ultima pallottola la tiene per sé, per non cadere in mano ai rastrellatoti, per non subire vessazioni e tortu­re. Il suo corpo viene recuperato da alcuni contadini del luogo, che lo conse­gnano ai compagni di distaccamento, che lo seppelliscono a Comuneglia, al centro della zona partigiana.

Anche fra gli alpini del battaglione Morbegno, che avevano circondato gli uomini della Coduri, vi è un morto, il caporale mitragliere Giampiero Civati, originario di Erba, in provincia di Como, colpito al cuore da una pallottola.[ref]Giampiero Civati era nato F8 febbraio 1923. All’8 settembre, come molti altri, aveva abbando- nato la divisa ed era rientrato a casa. Risponde poi ai bandi della Rsi, e a Mùnsingen (Germania) segue i corsi di addestramento. Alla fine del luglio 1944 è di stanza in Liguria: al suo battaglione era affidata principalmente l’azione antiribellistica nell’area fra Sestri Levante e Levanto, compresi alcuni comuni dell’entroterra.[/ref] Su Civati cala il silenzio fino al 1971, quando esce il libro di Carlo Cornia, Monterosa, pubblicato “a cura dei reduci della Monterosa a ricordo ed onore dei camerati caduti”.[ref]Così è ricostruita la morte di Civati:[/ref]

La notte del 5 dicembre presso la miniera di Libiola, sulla strada dal Bracco a Levanto, una pattuglia dell’8.a si scontrò con una di partigiani. Cadde il caporale Giampietro Civati. Gli trovarono in tasca un foglio che aveva scritto poche ore prima: «Testamento militare 5-12-44: Pochissime parole mi spiego le mie idee e il mio sentimento: sono figlio d’Italia di anni 21, non sono di Graziani e neanche Badogliano; ma sono italiano, e segguo la via che salverà l’onore d’Italia». Poco oltre, a pag. 235, Cornia pubblica l’im­magine di una grande targa marmorea, suddivisa in quattro quadri, su cui sono scolpiti tutti i nomi (compreso quello del cpl G. Civati) dei Caduti della RSI noti fino allora, murata dai reduci della Monterosa, nell’oratorio della Chiesa di S. Rocco di Palleroso in Carfagnana: “A ricordo dei compagni d’arme caduti sul fronte della Garfagnana sulle Alpi occidentali e ovunque la patria li volle. I reduci della Divisione alpina Monterosa restaurarono questo oratorio esaltando il sacrificio italiano di ogni guerra”.[ref]E. V. Bartolozzi, Memoria addomesticata, cit., p. 83.[/ref]

La pubblicazione di Cornia mette in movimento gli stati maggiori della memoria. Da una parte i partiti di sinistra e l’Anpi (almeno la sezione sestrese) contestano l’interpretazione “spudorata” che Cornia dava del “Testamen­to”. Per Cornia, Civati incarnava il soldato ideale, pronto a onorare la patria fino in fondo, diversamente da quanti allora la disonoravano disertando o addirittura combattendola. Per la sinistra e l’Anpi, al contrario, il “Testa­mento” era la prova dell’intenzione dell’alpino di abbandonare la Monterosa per unirsi alla Resistenza armata. Desiderio reso impossibile dalla morte in­flitta allo stesso Civati non dal fuoco partigiano ma dalla mano “amica” di un suo superiore.[ref]ivi[/ref]

Successive pubblicazioni, come quella di A. Berti e M. Tasso, Storia della Divisione Garibaldi “Coduri”, e ancor più quella di Aldo Vallerio “Riccio” “Ne è valsa la pena”,[ref]A. Berti – M. Tasso, Storia della Divisione Garibaldina Coduri, Seriarte, Genova 1982; A. Vallerio, “Ne è valsa la pena?”, Anpi, Sestri Levante 1983.[/ref]rivendicano l’appartenenza dell’alpino Civati all’area resistenziale, intrecciano la sua morte con quella di Zelasco, che si sarebbe sparato, ma ancora in vita, anche se ferito mortalmente, all’arrivo dei fasci­sti:

L’ufficiale che comanda il reparto nemico, giunto sul posto, ordina all’alpino Giam­piero Civati di Como di dare il colpo di grazia all’eroe partigiano che giace a terra mo­ribondo in un lago di sangue. L’alpino guarda quel corpo inerte, ed improvvisamente si sente scosso da un conato istintivo di ribellione. Volta le spalle all’ufficiale e si rifiuta di sparare. L’ufficiale fascista non ha la benché minima esitazione. Estrae la pistola dal fodero e mira freddamente al capo l’alpino, che in quel preciso momento ha deciso pure lui di morire da partigiano. Al fianco di Zelasco ora c’è un altro corpo inerte. Quello di Giampiero Civati. Pietà l’è morta![ref]Ivi[/ref]

Ormai Civati è inserito nella “schiera degli eroi, e il Comune e l’Anpi gli dedicano nell’aprile 1983 un monumento a Montedomenico: un pesante masso semigrezzo, con una targa di marmo bianco, su cui è incisa la dedica: “Rifiutando d’infierire / su Zelasco / l’alpino / Civati Giampiero / immolò qui la sua vita / testimonianza sublime / che la lotta partigiana / non fu / guerra fratricida”. Il tentativo di riabilitare Civati equiparandone la fine a quella di Rodolfo Zelasco incontra una naturale reazione nei familiari, i quali non possono accettare le ricostruzioni fantasiose come quella di “Ric­cio”: “le due morti avvenute in luoghi diversi, a duecento metri circa l’una dall’altra e, nella circostanza, i due non ebbero sicuramente modo di incrociare i loro sguardi, quando i suoi commilitoni raggiunsero il corpo ormai esanime di Zelasco, era anch’egli già sicuramente morto”.[ref]E. V. Bartolozzi, Memoria addomesticata, cit., p. 84.[/ref]
I familiari di Nani vengono a sapere solo tre anni dopo che è stato realiz­zato un nuovo monumento, si sentono profondamente offesi e scrivono due lettere alla segreteria dell’Anpi di Sestri Levante: da Sestri gli rispondono dicendo che forse hanno sbagliato a non interpellare anche loro, in quanto suoi familiari più stretti, prima di dare il via libera al monumento. Poi tergi­versano, si arrampicano sugli specchi, si appellano ai troppi anni passati per poter essere più precisi, ma non demordono: il monumento, dopo trent’anni e più, è tuttora lì, tale e quale.[ref] Le due lettere hanno come intermediario Amato Berti, autore del libro sulla Coduri, e certo Pistacchio, membro della segreteria dell’Anpi. Cfr. E. V. Bartolozzi, Il mio 68° 25 aprile, cit., p. 39. Mentre era in corso la stampa di Banditen, Angela Zelasco, ha consegnato all’Isrec un corposo rac­coglitore di documenti sul fratello Nani. Nel ringraziarla, l’Isrec vuole assumere l’impegno di insistere per ristabilire la verità sull’eroica morte di Rodolfo Zelasco, a partire proprio dalle lettere che lei e il fratello Paolo hanno scritto alle associazioni partigiane, di Bergamo e di Sestri Levante.[/ref]
L’Anpi di Bergamo, pure sollecitata dai familiari, è ancora più sbrigativa: non dà alcuna risposta. Il lavoro di Bartolozzi ha permesso di conoscere la minuta della lettera della sorella di Barba, Angela Maria, indirizzata a Salvo Parigi, presidente dell’Anpi bergamasca:

Al Presidente dell’ANPI di Bergamo Ing. Salvo Parigi.
Rispondo alla lettera relativa all’invito di partecipazione all’annuale cerimonia di Cornalba e dico che non ci verrò neanche quest’anno. Il motivo di questa mia assenza è legato al fatto che non è stata data una risposta né a me né a mio fratello circa le modalità dello svolgi­mento della cerimonia che l’anno scorso (se non erro) avvenne a Sestri L. la domenica prima di Pasqua, nonostante le lettere che vi avevamo inviato a cui non avete risposto.
A proposito di ciò voglio ribadire quanto già detto e cioè:
1. Voi sapete benissimo che l’ANPI di Sestri Levante ha voluto di proposito creare un eroe e fare un falso storico servendosi di un autentico caduto come nostro fratello. Caduto, lo sottolineo, da partigiano e non indossando la divisa fascista, come Civati.
2. Malgrado le denunce fattevi da me e da mio fratello nulla avete fatto per rimediare a questa vergognosa falsificazione.
3. Per questo motivo ci sentiamo liberi di rivolgerci, sia pure a malincuore, a persone di orientamento politico diverso.
4. A questo punto prendo le distanze dall’ANPI e dalle sue manifestazioni. Purtroppo il vostro comportamento non mi ha lasciato scelta.
Per maggior chiarezza vorrei ribadire:
1. che né mio fratello né io nutriamo — e lo diremo fino alla nausea – nessuna avversione verso l’alpino Civati anche solo perché per noi è un illustre sconosciuto cui nessuno di noi due — sottolineo — vuol toglier nulla dei suoi eventuali meriti sul piano umano e civile.
2. che l’unica cosa che accomuna Nani e Civati è che sono morti nello stesso giorno. Tenete presente che Nani e Civati non erano vicino come mi fu detto da te, Salvo, quando ti ricorderai il 25/4 di due anni fa dav. (davanti) alla c. (casa) di S.B. ma erano a 200/250 metri di distanza.
3. che mio fratello Popi nel 1988 una settimana dopo che era stato a Sestri L. scrisse all’ANPI di Sestri offrendosi di pagare la sostituzione della lapide con un’altra dove non fi­gurasse il nome di Civati, il cui nome figura sul monumento dei caduti della RSI di Roma, senza che mio fratello ottenesse mai alcuna risposta.
4. anche la fotocopia che ti avevo accluso alla lettera dell’anno scorso tratta da un libro che io casualmente comperai su una bancarella di Chiavari nel 1993 comprova che Civati non ha nulla a che fare con Nani. Per questo mi par giusto non avvallare la vostra solidarietà con l’ANPI di Sestri.
Distinti saluti.[ref]La minuta è vergata su cinque facciate di un’agenda del 1996. Non si è riusciti a stabilire se la lettera sia stata spedita l’anno corrispondente a quello dell’agenda. Vale, in ogni caso, tenere presente che la commemorazione dell’eccidio di Cornalba ha sempre luogo l’ultima domenica di novembre.[/ref]

Associare la morte di un partigiano ucciso in un agguato fascista ad un alpino della Monterosa che faceva parte dello stesso plotone che tese l’ag­guato e l’uccise è la dimostrazione palese di come si possa arrivare alla falsi­ficazione della verità storica. Nel “giardino della memoria” dedicato dal Co­mune di Cernobbio a Giorgio Perlasca, a fianco delle targhe che ricordano i caduti partigiani del comasco, si trova anche quella che ricorda Civati:

Arruolato nel 1943 negli Alpini della Repubblica di Salò nel battaglione “Morbegno” di stanza a La Spezia. Il “Morbegno” fu peraltro impiegato anche in scontri contro i partigiani. In un’azione sul monte Domenico Basso, il 5 dicembre 1944 venne a con­tatto, insieme ai suoi commilitoni, con una formazione partigiana che fu sopraffatta e passata per le armi. Il caporale Giampiero Civati, con altri compagni, fu chiamato a far parte dell’improvvisato plotone di esecuzione. I suoi ideali erano manifesti: voleva solo il bene dell’Italia, il Sangue dei fratelli non l’avrebbe mai sparso. Questo moto di genero­sità fu da lui pagato a caro prezzo: Giampiero si rifiutò di sparare sui Partigiani e il capo plotone lo colpì a morte con un colpo di fucile.[ref] II giardino venne inaugurato il 4 novembre 2001.[/ref]

Perché arrivare a simili deformazioni? Perché parlare di una formazione partigiana che viene “passata per le armi” quando è certo che la squadra partigiana riuscì a mettersi in salvo, e che solo “Barba” morì per proteggere la fuga dei suoi compagni? Il plotone di esecuzione serve solo per poter far risaltare il rifiuto di Civati a parteciparvi e cosi spiegare la sua morte. A nulla servono gli sforzi e le proteste della famiglia Zelasco: ancora nel 2003, il Co­mune e l’Anpi di Sestri Levante pongono una nuova lapide all’inizio della vallata del Gromolo, per mantenere “nel cuore e nella mente delle future generazioni la memoria dei partigiani caduti in questa vallata e nelle vicine frazioni per la libertà della patria”. Nei nomi elencati sulla lapide quelli di Zelasco e di Civati compaiono, ormai, definitivamente affiancati. Paolo, il fratello minore di Rodolfo, scrive nel luglio 2010 queste amare conclusioni:

“Mentre la fine eroica di mio fratello e le divergenze sulle sue modalità sono irrile­vanti e comprensibili, non lo è quella dell’alpino Civati. A distanza di anni si stila un improbabile atto notorio, si sbandiera un enigmatico “testamento militare” e, mentre autori fascisti si appropriano della sua figura basandosi su realtà oggettive (la sua appar­tenenza alla Monterosa, la partecipazione ad azioni di rastrellamento ecc.), inspiegabil­mente sezioni di partito, amministrazioni comunali di sinistra e la stessa ANPI di Sestri si attivano per trasformarne la figura in senso democratico. Ho il sospetto che tutto sia partito dai suoi familiari i quali, essendo comunisti, mal tolleravano l’idea che il loro congiunto fosse caduto combattendo contro i partigiani e indossando la divisa fascista. Ciò premesso tengo ad affermare di non aver nulla contro di loro e contro i loro puerili tentativi di trasformare un caduto in un eroe. Vorrei solo che venisse almeno rispettata la verità storica e che, soprattutto, non ci si servisse di un eroe autentico (che non scriveva testamenti militari ma aveva fatto una scelta chiara in favore della democrazia), per farne una fasulla. Nulla unisce i due caduti. Uno combatteva per la libertà, l’altro, forse senza neppure rendersene conto, per una sanguinosa dittatura.E. V. Bartolozzi, Memoria addomesticata, cit., pp. 86-87″. 

 

N.B.: Le immagini presentate qui e in altri articoli ivi citati, mi sono state inviate dalla sorella di “Nani”, prof.ssa Angela Maria, che ringrazio. Per altre vedere gli articoli riguardanti il partigiano “Barba” presenti ivi  nelle categorie “Personaggi” e “La Resistenza nel Tigullio e nelle sue Vallate”.       

(evb)