Vedi anche: Personaggi –  (Fascicolo n. 30 – Doc. 11)

Fasc. 40 – Doc. 7 By Elio V. Bartolozzi: La ‘Coduri’ e gli assenti arbitrari”, come venivano definiti dai loro gerarchi i militari  che abbandonavano le unità  armate della RSI per passare alla Resistenza.

Il Vessillo della divisione “Coduri

Durante l’ultima decade di luglio del 1944, la presenza militare nel T    igullio subirà un notevole cambiamento. Nella maggior parte delle postazioni dello schieramento antisbarco fino allora occupate dalla 42.a divisione tedesca Alpenjager, ora subentrerà la divisione alpina Monterosa della RSI, proveniente direttamente dalla Germania dove ha seguito, con istruttori tedeschi, mesi di addestramento militare e di antiguerriglia.

Il suo arrivo sarà osannato sia dalla “Fiamma Repubblicana” giornale delle B.N. stampato a Chiavari e diretto da Vito Spiotta [nato a Gioia Tauro nel 1904. Federale di Chiavari, fu uno dei più accaniti persecutori dei prigionieri politici e dei partigiani. Processato nell’agosto del 1945, fu condannato a morte e fucilato a Genova il 12 gennaio del 1946 assieme a Enrico Podestà e Giuseppe Righi, entrambi responsabili di numerose sevizie e condanne sommarie] sia da una serie di manifesti di benvenuto fatti affiggere in po’ dappertutto dalle locali autorità fasciste.

La Monterosa, su tradotte militari, il 20 luglio ’44 inizierà intanto a varcare il confine nazionale e a dirigersi verso la Liguria seguendo l’itinerario: Desenzano, Cremona, Novi Ligure, Genova. Ma fin dal principio sarà soggetta a una lunga serie di bombardamenti e mitragliamenti alleati, incitamenti alla diserzione da parte di soggetti interni ed esterni, continui attacchi di disturbo. A Desenzano, per esempio, dopo il passaggio della testa del convoglio, gli alleati bombarderanno un viadotto e il seguito della colonna dovrà faticosamente trasbordare subendo notevoli ritardi. Ma leggiamo quel che riporta un testimone diretto:

«… a Stradella altra sosta forzata, in attesa di passare il Po su un ponte di barche. […] Poi l’arrivo a Genova, e da Genova il trasferimento, a S. Margherita [Ligure].
Non so quanti chilometri ci siano da Genova a S.M.: so che in quei chilometri, sotto il peso dello zaino e del Mauser, la compagnia si è sfaldata miseramente. I mesi di fame si erano fatti sentire in maniera diversa su ciascuno, prima o poi uno di quei ciascuno crollava, e rimaneva per la strada mentre il resto della compagnia andava avanti, ma lasciando dietro una serie di sconfitti, uno ogni cento metri, cinquecento metri, un kilometro, a cui non restava altro, dopo un po’, di riprendere zaino e fucile e trascinarsi avanti. […]. Certo, tra noi c’erano altri fisici, contadini abituati a mettersi sulle spalle un sacco da un quintale, gente a cui la fatica non faceva paura; ma anche per loro è stata dura». [Franco Panizon, “La bella gioventù”, pp. 34/35, Ed. Mursia, Milano, 2010].

Altra testimonianza, giorno dopo giorno, del “cattivo viaggio” da Genova a Sestri Levante è annotata dal cplm Peloni Emilio [btg. Tirano] nel suo “Diario di guerra” pubblicato on line:

«23 domenica: Tortona, Alessandria, linea di Genova, Sampierdarena, Genova Porta Principe, Brignole. Alt 7.30 (scarico tradotta) …naia naia nera….zaino affardellatissimo in spalla alla volta di Quarto sotto il caldissimo sole si suda maledettamente. Ore 11 arrivo alla Villa Carrara, alt nel giardino, riposo. Tutta la santa domenica in attesa del rancio che arriva alle ore 19 (intanto libera uscita con la pancia vuota). Calato il sole. Ore 21 partenza con zaino in cammino per la riviera (40 minuti di cammino e 20 di riposo) stanchissimi, sudati, gli zaini pesano, le gambe vanno male. Dolcetti e Perini ogni tanto cascano a terra. Passati da Nervi.
24 lunedì : Ancora in marcia. 7.30 alt. ad un km dopo (Ruta) riposo. 13.30 rancio, 18 caricati gli zaini su autocarri di passaggio. Dopo riesco a salire su un autocarro militare che mi porta per Recco, Rapallo, fino a Chiavari. Trovati quelli che accompagnano gli zaini, scaricati. Passo la notte con loro. 23.50 allarme, in rifugio (bombardamento si sente vicino) colpi di fucile tutta la notte.
25 martedì: 0.30 cessato. Ore 4 arriva la compagnia, si prosegue oltre Lavagna. 6.30 alt a Cavi. Riposo in mezzo a campi minati. 14 rancio, 13 bagno in mare. (allarme) sempre sole, si pernotta.
26 mercoledì: 3 sveglia, 4 partenza con zaini, Sestri Levante, S.Bartolomeo. 6.30 alt, riposo in campi di ulivi. Allarme, 12 rancio a secco, 19 rancio caldo. 20.30 si prendono in consegna le postazioni dei mortai e i bunker al mare a Riva Trigoso.
27 giovedì: 7 sveglia, sistemazione in camera per il nostro alloggio nella villa del Sig. Storchi a Riva Trigoso. (allarme continuo ogni ora). 14.30 rancio a secco, ritiro munizioni e trasporto in postazione. 19 rancio caldo (pappina) sole.
28 venerdì: 7 sveglia, trasporto munizioni, allarmi, 12.30 rancio caldo. 18 monto di guardia alle postazioni con 5 uomini. 19.30 rancio caldo, si dorme nel bunker.
29 sabato: 0.10 allarme aereo, chiarori di bengala, colpi traccianti sparati contro gli aerei dagli equipaggi delle bettoline che passano sul mare. Le bombe cadono a vuoto in acqua, servizio continua. 13.30 rancio, 16.10 allarme. 2 caccia bombardieri in picchiata sul bivio di Parma e Spezia [Bivio Lapide in Loc. Lapide n.d.a.], colpita una casa e sotto rimangono i primi caduti del BTG Tirano (1 Serg. 15a comp. e 3 alpini 11a) ore 18 fine servizio, 19 rancio, 19.10 adunata comp. Il Capitano raccomanda il contegno e spiega la nostra situazione. Ordine del giorno: i primi caduti del Tirano. Il com. Btg. 22. Presi quattro ladri di pesche nel frutteto della villa Storchi. [http://www.italia-rsi.org: Peloni Erminio,  Diario online del cplm della Monterosa].

Comunque il suo arrivo nelle varie postazioni assegnate, alla fine si  realizzò. Il primo grosso reparto a giungere in Riviera e a completarsi (il 26/7/’44) fu il btg Tirano di stanza a Sestri Levante. Ma come furono accolti, dalla popolazione locale, gli alpini della Monterosa? Qualcuno, preferendoli ai tedeschi e alle B.N., con un certo ottimismo; altri con indifferenza; altri ancora, scorgendovi il rischio di un prolungamento della guerra, con disappunto. Anche qui meglio ascoltare qualche diretto interessato: significative le notizie/opinioni pubblicate al riguardo dai notiziari della G.N.R. che in data 19.8.1944 scrivono:

«Fonte confidenziale riferisce che il battaglione “Tirano” della Divisione Alpina “Monterosa”, rientrato in Patria dopo l’addestramento in Germania e dislocato nelle vicinanze di Sestri Levante è veramente pieno d’entusiasmo e  di volontà di combattere; i soldati in numerose occasioni si sono dimostrati nauseati per lo stato d’animo della popolazione e per il trattamento che ad essi riservano specialmente i contadini della zona, che a loro non danno nulla e talvolta sono costretti ad usare spesso la maniera forte per farsi rispettare. I nostri soldati sono considerati dai contadini come traditori, perché per loro la gente che serve la Patria si trova alla macchia.
È questa una mentalità particolarmente diffusa anche e soprattutto in quella zona dove si trovano molti ribelli, i quali hanno avvelenato con la propaganda e con le minacce le popolazioni che hanno la sventura di subirli. Ma a tutto ciò gli alpini non fanno gran caso perché dicono che gli italiani hanno bisogno di essere purgati e penseranno loro a farlo alla fine della guerra. Ciò che maggiormente urta la loro suscettibilità, è il fatto che da quando sono tornati in Patria il trattamento è notevolmente inferiore a quello che ricevevano in Germania. Vi sarebbero, stando alle dichiarazioni di numerosi soldati e sottufficiali, delle deficienze di pane, di alimentari in genere, di scarpe e vestiario, che, secondo loro, vanno a beneficio degli ufficiali, come una volta, invece di andare a beneficio degli alpini. Effettivamente vi deve essere qualche deficienza, perché chi frequenta la zona dice che i militari, da quando sono nella riviera al posto di combattimento, sono dimagriti e molti non hanno più l’entusiasmo di quando sono arrivati».

 [N.B.: I notiziari del Comando Generale della G.N.R. che risiedeva a Brescia, erano rapporti di polizia dattiloscritti che, redatti quotidianamente, venivano inviati in via riservata al Duce e a pochi altri gerarchi fascisti. Recuperati dalla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia nel luglio del 1965, si trovano ora pubblicati on line nel sito della Fondazione stessa, n.d.a.].

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Ma, secondo le sopraccitate fonti, cosa avranno avuto mai da rimpiangere, gli alpini della Monterosa, del loro periodo trascorso in Germania? Anche qui si preferisce lasciare la parola a tre testimonianze dirette:

1a)- «[…] I primi scolari furono naturalmente i primi arrivati a Münsingen, che iniziarono la loro fatica a metà novembre 1943. Tre mesi dopo erano in grado di fungere a loro volta da istruttori, accanto a quelli tedeschi, […]. Tre mesi che richiesero molta abnegazione anche a chi vi era andato di propria scelta e con animo fermo. Il clima, le privazioni, la durezza dell’addestramento, le traversie passate, la vergogna per quanto era avvenuto, lo scherno della popolazione (gli Italiani erano chiamati Scheisse) [“merda” in italiano – n.d.a.] furono una prova severissima […]. A Münsingen era un nucleo di istruttori tedeschi, ufficiali e sottufficiali. Lo comandava il gen. Egbert Picker […]. Il gen. Picker chiarì che l’addestramento non doveva significare umiliazione e sopraffazione (gli Italiani, oltre ad aver perduto la guerra, erano Zigeuner). [“zingari” in italiano, che nell’accezione nazi fascista di allora non era proprio un complimento! Roba da forno crematorio, insomma!, n.d.a.). Qualcuno che non volle intenderla fu allontanato. […] Un originale merita pure di essere ricordato: il tenente Sailer, istruttore del gruppo esplorante a Feldstetten. Già capitano in Russia, poi degradato per insubordinazione, poi ripromosso sergente, poi di nuovo ufficiale sul campo: una carriera assai agitata. Aveva scelto gli istruttori italiani con l’esame della spinta e dei bottoni. Cioè, chiamava il candidato nel suo ufficio, e quando era ben impalato sull’attenti lo sorprendeva con uno spintone. Chi cadeva tutto d’un pezzo era «gut», chi tentava di reggersi era «Scheisse». Indi passava alla prova dei bottoni, fregi, mostrine ecc.: se resistevano allo strappo il candidato era «gut»; se non resistevano, il candidato era «Scheisse » perché non sapeva nemmeno attaccarsi i bottoni». [Da: C. Cornia, “Monterosa … ecc.” pp. 26/27. Ed. Del Bianco, Udine, 1971].

2a)- «Mancanza orrenda, le latrine. A Gänsewag l’unica sorgeva nel bel mezzo del campo, dove sarebbe stata così bene la statua di qualche Feldmarschall, tanto scomoda e lorda che quasi tutti si servivano all’aperto durante l’addestramento. Anche questa attività aveva le sue prescrizioni: il prodotto doveva essere sotterrato a regola d’arte (ciascuno portava sempre seco la vanghetta) per evitare che il perpetuo avvoltolarsi in terra divenisse la pena assegnata da Dante agli adulatori […]». [C. Cornia, ivi, pag. 23].

3a)- «Il pensiero di tutti i giorni era il cibo. Ci si pensava di continuo, negli intervalli, nelle marce, nelle esercitazioni. Nelle marce raccoglievo ranuncoli e li mangiavo direttamente, raccoglievo lumache e poi a casa le cucinavo sulla stufetta. Vendevo sigarette (non fumavo) per razioni di pane (quel pane-segatura dei tedeschi; ci toccava un terzo di pagnotta al giorno). Ogni tanto ci davano una minestra di erbe, dolce, immangiabile malgrado la fame; mi fa ancora schifo il sapore, il ricordo del sapore. Il resto del cibo, poco, ma doveva essere normale. Delle caramelle, fatte a salvagente, piccole, marroni; correva la leggenda, ma forse non lo era, che ce le davano per evitarci, gentili, il desiderio amoroso, con qualche medicina che contenevano. Comunque le mangiavamo. Almeno, io le mangiavo.
Abbiamo fantasticato di scapparcene a piedi, verso sud, ma non sapevamo bene dove ci trovavamo. Una sera siamo andati in una trattoria lontana (cinque chilometri?) dove si mangiavano solo patate. Una festa […]».  [F. Panizon, op.cit., pag. 34/35].

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Quando poi, sul finire del mese di luglio, nel Levante Ligure, l’arrivo della Monterosa s’era quasi completato e un presidio s’era insediato a Velva Santuario, la “Banda Virgola” (con circa 50 uomini all’attivo) era già più d’un mese che vi si era a sua volta stabilita. Sulle prime, sia da parte degli alpini sia da parte dei partigiani, sembra non vi siano state grosse perplessità, perché, per alcuni giorni, i due schieramenti proseguirono le loro normali attività senza preoccuparsi troppo l’uno dell’altro.

Ma questa calma iniziale durerà poco, perché solo dopo pochi giorni avverrà tra loro il primo scontro armato. E tra gli alpini [tralasciando, per mancanza di dati più precisi, quelle tentate in Germania, assai poche, a quanto si può leggere, e finite tutte in malo modo e quelle avvenute durante il trasferimento in Italia], anche le prime, massicce diserzioni. Ed è nella Coduri, nella Cichero e nella Centocroci che i disertori della Monterosa troveranno il loro primo rifugio, in quanto formazioni più prossime ai loro stessi insediamementi.

Il primo scontro armato tra la Coduri e la Monterosa avverrà il 1° agosto 1944. Infatti quel giorno un gruppo di alpini della Monterosa, con alla testa certo ten. Colini, toscano, a Castello (SP) durante un controllo del territorio, sorprenderà il distaccamento di “Cè” (Talassano Cesare n. 1921) e riuscirà a catturare due partigiani: lo stesso comandante Cè e “Grigio” (Cesare Marsili n. 1885). Giunta la notizia al comando di Velva della Coduri, “Virgola” (Eraldo Fico n. 1915), dispone subito il contrattacco. Riuniti i suoi si dirige verso Carro, che dista circa 15 km da Velva. Arrivato qui e avuta conferma che gli alpini, sulla via del ritorno da Castello, si trovavano ancora lì a Carro a far razzia di bestiame, scende dal camion, suddivide i suoi uomini in gruppi di 10 e ordina l’accerchiamento del paese.

Al segnale convenuto, i partigiani balzano sugli alpini che, presi di sorpresa e sopraffatti, cercano scampo nei vicini boschi, lasciando però in mani partigiane 9 prigionieri, tra cui un paio feriti, molto materiale bellico e il bestiame poco prima razziato. Nonché i due partigiani: Grigio e Cè. Ma dal gruppo degli alpini in fuga nella boscaglia, partiva improvvisamente una raffica di mitraglia diretta verso un gruppetto di partigiani appostati dietro un basso muretto, e una pallottola colpiva “Scioa” (Giuseppe Coduri n. 1914) in piena fronte facendolo stramazzare al suolo, esamine.

Il 1° agosto 1944, la Banda Virgola, sosteneva così il suo primo conflitto a fuoco con la Monterosa; e, contemporaneamente, subiva anche la sua prima perdita sul campo. La notizia della morte di Coduri impressionò molto i suoi compagni che volendo perpetuarne la memoria, da quel momento in poi la “Banda Virgola” non si chiamerà più così, ma prenderà il nome del suo primo caduto e si chiamerà “Banda Garibaldi Coduri”.

L’indomani, 2/8/1944, dopo le esequie di Scioa nel Santuario di Velva, la Coduri, in seguito alle insistenze del commissario della Cichero “Marzo” (Canepa G.B. n. 1896), giunto appositamente il giorno stesso a Velva, accompagnato da una ventina di russi, freschi disertori dell’esercito germanico, e comandati da un certo “Stella”, dovette trasferirsi, per maggiore sicurezza, sulle pendici del Monte Penna, in Val d’Aveto. Durante il trasferimento, con l’assenso dello stesso Virgola, circa una ventina di uomini lasceranno la Coduri per aggregarsi alla “Centocroci” (brigata comandata da “Richetto” (Salvestri Federico n. 1916) e appartenente alla IV Zona spezzina) che operava nel quadrante Varese Ligure/Passo di Cento Croci/Val di Taro.

Intanto la Monterosa, nei quattro cinque giorni successivi alla battaglia di Carro, occupò e fortificò notevolmente le sue postazioni della Val Petronio, di Velva Santuario e della Val di Vara, spingendosi fino a S. Pietro Vara. E l’11 agosto, in un agguato teso da ignoti, trovano la morte altri tre alpini appartenenti al reparto che partecipò alla battaglia di Carro: i sergenti Percussi Sergio e Rossato, e l’alpino Colombo che stavano recandosi a casa in licenza. Nessuno seppe mai chi fosse il responsabile (o i responsabili). Voce di popolo, però, parlandone con me, ha fermamente sostenuto che c’entrassero faccende di donne: forse uno sgarbo o avances sgradite verso qualche ragazza del luogo.

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Annuncio del Gen. Carloni, comandante della Div. Monterosa della RSI, pubblicato sul giornale “Monterosa” (che veniva distribuito ad ogni alpino all’adunata rancio) per dar risalto all’avvenuta fucilazione di suoi alpini intercettati mentre stavano per unirsi ai partigiani di Virgola.

Il giorno 29/7/’44, in Riviera, la Monterosa dà intanto inizio alle sue innumerevoli fucilazioni. A Recco (GE), quel giorno, venne fucilato l’alp. del btg. Aosta, Spoggiari Franco, disertore. Di lui si sa poco, ma si può intuire che la sua diserzione fu un caso isolato, tentata durante il suo trasferimento in Riviera. E il giorno 4 agosto, a S. Margherita di Fossa Lupara (Sestri Lev.), lungo il rio La Valletta, in Loc. Villa Zarello, venne fucilato per diserzione, il cap.le Grasso Vittorio, bresciano, appartenente al btg Tirano. Dodici giorni dopo (il 16) a Castiglione Chiavarese sarà la volta dell’alp. Ritrovato Emilio, chiavarese, del btg Trasporti; e quindici giorni appresso (il 19), sulla stessa piazzola dov’era stato ucciso il cap.le Grasso, vengono fucilati, sempre per diserzione, altri 5 suoi commilitoni: Gualandi Rino, Mantovani Gino, Mercatelli Termine, Nardini Rolando e Travasoni Raul, tutti originari di Argenta (MN).

 

Su quest’ultima fucilazione si ha una breve  ma significativa testimonianza del cplm Peloni Erminio [ivi, op. cit.] che nel suo “Diario online”, in corrispondenza di tale data annota, senza parvente emozione: «8.30/10.30 foto, 12.30 rancio, lavori galleria, 16.30 adunata BTG a S. Vittoria per la fucilazione di 5 alpini del Morbegno, 19.30 esecuzione sentenza, 20 ritorno, rancio». [nda: notare che il Pelone afferma qui che i 5 condannati sarebbero appartenuti al btg Morbegno, mentre si sa con precisione che appartenevano invece al btg Tirano. Solo il plotone di esecuzione era invece composto da militari appartenenti al btg Morbegno].

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Ma di quest’ultimo fatto, anch’io serbo tuttora viva memoria: 1°) – perché quel giorno vi fu un grosso via vai di truppe alpine in zona, tra Via per S. Vittoria, Loc. Ramaia e Villa Zarello, dove tra l’altro vennero aumentati anche i militari di servizio al posto di blocco alpini-tedeschi quivi operante, che fermava e impediva a tutti, ma specialmente a noi ragazzi, di dirigerci verso Villa Zarello, luogo dell’eccidio. E alla mia squadra (tutti ragazzi tra i 6 e i 12 anni) la maggior parte dei quali abitanti in via Fabbrica e Valle, quindi sulla sponda opposta del torrente Gromolo rispetto alla Loc. Ramaia, e perciò obbligati a utilizzare la passerella pedonale che in quel punto unisce ancora oggi le due sponde del torrente, impedirono persino d’imboccarla, la passerella, e ci cacciarono bruscamente indietro. 2°)- perché le fucilazioni avvennero poco distanti da casa mia, in località Villa Zarello dove, assieme ai miei fratelli e a mia madre (mio padre era già morto) andavamo spesso a cercare legna da ardere. Intanto su quella piazzola (che praticamente era nel centro di un accampamento di tende del btg Tirano) esiste tuttora un piccolo monumento (eretto dal Comune di Sestri Levante unitamente a Bernardello Sebastiano qualche anno dopo la fine della guerra) dedicato a quei giovani soldati. Tralasciando poi la tragica impressione che fecero, non solo su di me ma su tutta quanta la popolazione di Sestri, tutto quel susseguirsi di uccisioni di cui non si riusciva a capire bene le ragioni, né la crudeltà, né lo “sprezzo” con cui furono trattati i loro resti, il fatto che ho più chiaro in mente è quello che i pali dov’erano stati legati i condannati sono stati lasciati a lungo sul posto (penso quale ammonimento per ricordare agli altri militare la fine riservata ai disertori) tutti scheggiati e insanguinati. Tra l’altro ce n’era uno totalmente divelto perché, si diceva, che il militare che vi era stato legato, urlando, si divincolasse con tutte le sue forze, e anche se colpito a morte, avesse nell’impeto sradicato ogni cosa. Un altro particolare molto agghiacciante era che alle spalle della piazzola dov’erano stati allineati e legati i militari, scorre La Valletta, e subito dopo la collina retrostante s’inerpica ripida verso l’alto, dove, per effetto delle pallottole che avevano attraversato o lambito i corpi dei condannati ed erano terminate lì, erano sparsi ovunque frammenti umani frammisti a indumenti insanguinati. Altri di quei resti erano appiccicati sui cespugli lungo i cigli erbosi della Valletta, dove spesso noi andavano a dissetarci bevendone l’acqua corrente. Quando, guardando, vidi questo spettacolo mi salì il vomito. E da allora non sono mai più riuscito ad avvicinarmi per bere a quella roggia. E ancora oggi, ogni volta che ho modo di passare da quelle parti, chino il capo e mi faccio un segno di croce.

Mia madre, allora, capendo forse che io e mio fratello più grande di me di due anni, ci eravamo spaventati nel vedere tutto quelle cose orribili, dopo averci raccomandato di non avvicinarci mai a quei militari, per nessun motivo, né di accettare niente che ci venisse offerto da loro, da buona toscana qual era, concluse: «… perché sono gentaccia  che da quando sono arrivati non hanno fatto altro che ammazzarsi tra loro».

Un altro particolare che mi fece un’enorme impressione, ma che fece impressione anche a tutti gli abitanti del luogo, e che, particolarmente ostili e duri verso gli autori di tanta crudeltà, ne discussero a lungo, fu che alla fine i cinque corpi furono caricati su un paio di carrette militari e trasportati presso il cimitero parrocchiale di S. Margherita di F.L. (a circa 500 m di distanza) dove furono abbandonati dai loro commilitoni; e solo dopo raccolti da mani pietose e  cristianamente sistemati.

Comunque noi ragazzi, allora, piuttosto frastornati e avendo un po’ intuito quello ch’era accaduto quel giorno, avevamo posto gli alpini, quelli là, nei cattivi e nelle persone da cui, per non avere brutte sorprese e guai, era meglio starcene lontani. 

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BERNARDELLO SEBASTIANO (4/6/1892–17/8/1980). Dopo il 1971, vicini di casa e ambedue soci del Circolo Ricr. Cult. Virgola di S. Margherita di F.L., parlando a lungo di quegli avvenimenti con Bernardello Sebastiano (“Bastian” e a volte anche “Trio”) membro attivo sul territorio quale sappista e informatore privilegiato dei partigiani, ho avuto l’opportunità di approfondire molto quest’argomento e di venire a conoscenza di molti particolari che via via mi permetterò di utilizzare. In particolare Bastian, comunista della prima ora – nel 1922 era già rappresentante del PCI in seno al Comitato d’Azione di Sestri Levante, e uno dei corrieri della stampa clandestina tra Genova e la Riviera – mi diceva che la direttiva di avvicinare il maggior numero di alpini per convincerli a disertare, fu raccomandata loro, in primis, dal partito e poi dai comandi di Zona e dal CLN, già da prima che la Monterosa arrivasse qui da noi, a Sestri.

E a loro, sappisti, era demandato anche il compito, prima di avvisare i Comandanti dei distaccamenti che v’erano degli alpini da accompagnare in montagna, di eseguire un’accurata indagine per capire se i richiedenti erano sinceri (perché le spie erano molte, sia tra i militari medesimi sia fuori della loro cerchia).

Poi si dovevano accertare quant’erano di numero; avvisarli di portare con sé, quante più armi possibili, munizioni, vestiario, e soprattutto scarpe in quanto i partigiani ne avevano particolare bisogno. Poi dovevano chiedere se intendevano restare a combattere con la Resistenza oppure raggiungere le loro case. In quest’ultimo caso, però, avrebbero dovuto lasciare tutte le armi e le munizioni in loro possesso ai partigiani, e possibilmente anche i capi di vestiario e le scarpe a loro non strettamente necessarie. In cambio avrebbero avuto un lasciapassare utile per spostarsi attraverso le limitrofe zone partigiane.    

Comunque, per tornare a casa, lungo il tragitto non sarebbe stata loro più garantita nessuna protezione armata. Alla fine, se tutto questo era accettato, si fissava l’appuntamento in un certo luogo e a una data ora, si concordavano gli ultimi dettagli circa gli accompagnatori, di cui loro potevano materialmente vederne solo uno o due, ma che a breve distanza (cosa non sempre vera) erano presenti diversi elementi armati che li seguivano e che sarebbero immediatamente intervenuti qualora ci fosse stato qualche movimento strano, o qualche tentativo di rivolta o d’insubordinazione verso le loro scorte-guida.

Come reclutatore e organizzatore della prima fase, Bastian era molto efficace, anche perché agevolato dal fatto che la sua casa era praticamente circondata da uno degli accampamenti più numerosi del Btg Tirano (o del Morbegno quando, verso metà settembre ’44, il Tirano venne trasferito in Piemonte). Inoltre era operaio delle OLE – Officine Liguri Elettromeccaniche produttrici di componenti elettrici per la telefonia militare e affini – dove svolgeva il suo lavoro di fabbro quasi sempre di notte perché la direzione dello stabilimento, ad un certo punto aveva deciso, per non subire le continue interruzioni di lavoro a causa dei frequenti allarmi (suono di sirene soprattutto) che annunciavano probabili bombardamenti alleati e il conseguente allontanamento degli operai dalla produzione, di farli lavorare soltanto di notte.    

Cosicché a Bastian, oltre che permettergli, sia a lui sia agli altri elementi impegnati nella cospirazione, di svolgere nottetempo delle riunioni di gruppo (a cui non era raro, nel periodo antecedente il partigianato attivo,  che partecipasse anche lo stesso Virgola e suo fratello “Naccari” (Italo Fico n. 1918 che abitavano poco distanti) e di giorno di fare comodamente il contadino. E questo gli dava l’opportunità di disporre di molti prodotti della terra, in quei tempi di fame, tipo uova fresche, frutta di ogni tipo e buon vino che lui offriva volentieri. Nel Tirano erano presenti soprattutto Bergamaschi, Bresciani, Comaschi, ecc. che non disdegnavano affatto di sorbirsi un bell’uovo fresco e berci sopra un bicchierotto di vino buono. E da cosa nasceva cosa. E lui era diventato, per quei giovani, un punto di riferimento importante: per avere informazioni, per chiedere piccoli favori, per conversare o assaporare un po’ di atmosfera quasi famigliare. Dopo ciò, era evidente che scivolare nel discorso di lasciare tutto e andare nei partigiani era cosa semplicissima, per Bastian. Poi dava fiducia e sicurezza perché aveva delle stalle, dei capanni agricoli (e davanti a casa un canneto fitto di più di mille metri quadri dove solo lui riusciva tranquillamente a districarsi) che confinavano con i boschi, dov’era possibile trovare alla svelta un nascondiglio. E poi aveva anche un piccolo uliveto situato in mezzo al bosco, poco oltre il punto dove sorge il monumento dei fucilati, e quindi alle spalle dell’accampamento del Tirano, dove anche qui aveva un capanno dentro cui occultava di tutto, e dove molti famigliari di partigiani a volte s’incontravano con i loro cari o si lasciavano messaggi. Insomma, Bastian aveva tutto per poter svolgere questo compito (e molti altri) in modo egregio. E lo fece. Il suo compito (unitamente ad altre persone) era quello di trovare alpini pronti a salire in montagna, occultarli nella prima fase, avvisare i distaccamenti (Virgola, Riccio, Gronda, Leone, ecc.) e consegnarli, abbastanza informati su tutto, alle squadre che l’avrebbero poi condotti in formazione.

Ma oltre che con Bastian, di queste cose ne parlai anche con Gronda, che spesso mi mostrava quello che stava raccogliendo per la “Storia della Coduri”. E poi ne parlai anche con “Leo” (Tassano Giovanni n. 1921) partigiano di Tassani che conosceva a mena dito ogni anfratto della zona, compresi i vari tronconi della miniera di Libiola dove, nel primo avvicinamento alle formazioni partigiane, spesso venivano occultati i disertori della Monterosa. Sovente mi ripeteva che nessuno poteva immaginare quanta gente avessero salvato, allora, le miniere di Libiola e i loro minatori, perché gli alpini, i tedeschi, ed anche le B.N. ne avevano timore, e non si azzardavano mai ad entrarvi senza che una guida pratica l’accompagnassero, per timore di possibili agguati. Ma c’è anche da aggiungere che ogni frazione di Sestri Lev. e Casarza Lig., tipo Verici, Loto, S. Bernardo, Cardini, Libiola, Montedomenico, S. Vittoria, ecc. aveva il suo nucleo di informatori e di collaboratori dei partigiani, tra loro collegati: che a fine guerra sono rimasti nell’ombra, un po’ perché l’hanno voluto loro e un po’ perché politicamente la Resistenza celebrativa ha dato sempre più rilevanza all’attività armata che non a questo tipo di collaborazioni.

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Alcune testimonianze di protagonisti diretti :

Per uscire un po’ dal generico, dalla scansione di alcune testimonianze lasciateci dai vari protagonisti, si potranno capire meglio le difficoltà e i pericoli a cui si esponevano tutti coloro che collaboravano alla realizzazione di queste diserzioni.

Si noti che quasi tutte le memorie sono state raccolte con l’intento finale d’inserirle in una grande “Storia della Coduri”. Idea lanciata il 2 giugno 1959 dallo stesso “Virgola”, durante un’apposita riunione degli ex codurini, dove fu istituito: “Il Comitato di Coordinamento per la ‘Storia della Coduri”. Ma il 22 dicembre di quello stesso anno “Virgola”, vittima di un grave incidente stradale, muore, cosicché anche i lavori del “Comitato” subiranno un prolungato ristagno. Riprenderanno vigore solo in seguito, durante un altro “Raduno Partigiani Divisione Coduri” tenutosi a Sestri Levante nel periodo 5 – 12 giugno 1977, cioè 18 anni dopo, dove verrà costituito, con sede presso l’Anpi di Sestri Lev., un nuovo: “Comitato operativo per la “Storia della Coduri”, vista «…l’esigenza di un ripensamento [si era in piena stagione stragista e la Resistenza doveva dare un segno forte di come si schierava] sulla lotta di liberazione e sui contenuti della Resistenza», avente le seguenti finalità: “… Premesso che compito della Segreteria [del Comitato] è anche quello di provvedere alla raccolta di una adeguata quanto indispensabile documentazione, si ritiene che queste note possano stimolare e provocare chi ha la possibilità di fornire ulteriori notizie e precisazioni sugli argomenti trattati e su altri che, pur altrettanto importanti, sono stati omessi per brevità ma che saranno comunque opportunamente affrontati quando il Comitato operativo avrà designato l’estensore…”». E poi c’era da dare ancora una risposta a C. Cornia, il quale, nella sua “Storia della Monterosa”, cercava di sminuire in tutti i modi l’operato dei partigiani, specialmente della “Coduri” pur non nominandola mai, circa l’efficacia dei loro attacchi alla Monterosa e gli scarsi risultati ottenuti nella loro opera di convincimento nei confronti del fenomeno delle diserzioni nelle file della Monterosa.

Successivamente quasi tutto il materiale, raccolto da questo Comitato e depositato presso l’archivio della Divisione Coduri, con sede presso gli uffici di Silvio Fico in Via della Pergola (Sestri Lev.), verrà utilizzato da Amato Berti per redigere la sua tesi di laurea “La formazione di una divisione partigiana nel levante ligure” discussa presso l’Università di Genova (Facoltà di Lettere A.a. 1980/81, Rel.re Prof. Manlio Calegari), che in seguito, assieme ad altro materiale raccolto e in collaborazione con Marziano Tasso, verrà inserito nella loro “Storia della divisione Garibaldina Coduri” edito dalla Seriarte s.d.f. di Genova e finito di stampare il 25 Aprile 1982.

Il materiale che di seguito si propone è quello originale depositato presso l’Archivio suddetto, ma che è anche reperibile, per intero o parzialmente, presso gli archivi di vari altri Enti e Associazioni Partigiane di Genova e del Tigullio.

Analizzando i vari episodi raccontati saltano subito all’occhio alcune specificità comuni:

a – La prima mossa è quasi sempre fatta dai disertori stessi ed è quella di cercare nei dintorni una persona abbastanza sicura che li possa mettere in contatto diretto con i partigiani. E il canale femminile appare di gran lunga quello preferito.

b – Durante il primo abboccamento: trovare un accordo con i partigiani sulle modalità del passaggio alla Resistenza e delle precauzioni adottate perché ciò avvenga nella massima sicurezza.

c – Una volta nei partigiani, quali sarebbero state le possibili opzioni circa le loro future destinazioni o scelte personali.

    Inoltre, da questi racconti (che sono la totalità di quelli reperibili presso l’Archivio della Coduri) emerge chiaramente qual era il soggetto che rischiava di più in questo genere di operazioni. In primis, senz’altro il militare che se veniva intercettato e catturato durante l’operazione, oppure anche dopo, veniva probabilmente fucilato. In secondo luogo, i partigiani che li accompagnavano, se colti durante la fase operativa. Il terzo, gli informatori di valle o di città, oppure gli appartenenti alle SAP, qualora fossero stati individuati. Quarto, dal o dai soggetti “borghesi” che avevano aiutato o convinto il militare ad allontanarsi. E il quinto, la popolazione in genere, perché dopo una diserzione di uno o più soggetti avveniva quasi sempre effettuato un rastrellamento, con arresti vari e imprigionamenti, e, qualche volta, anche invii coatti in Germania. Eppure erano tantissime le persone “comuni” che collaboravano lo stesso con i partigiani. Ciò potrebbe anche spiegarsi parzialmente col fatto che nella Coduri militavano quasi tutti giovani nativi nel comprensorio del Tigullio. Comunque, questo è e rimane uno dei fatti più significativi e interessanti collegato al movimento resistenziale, perché dimostra chiaramente che la gente sapeva, anche se a volte quasi inconsciamente, con chi schierarsi. Ed è questa, insieme alle offerte d’aiuto e assistenza ai partigiani e alla loro tempestiva accoglienza negli organici dei governi locali nelle zone liberate (le cosiddette Repubbliche Partigiane) una gran prova di democrazia che era andata via via maturando tra la gente comune che in gran parte, e istintivamente, aveva sempre mostrato di solidarizzare con i partigiani. 

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1)- La prima memoria proposta, in ordine cronologico, è raccontata da Minetti Ildo “Aquila” che scrive: “Eravamo a metà Sett. 1944 quando una sera, con molta circospezione, venni avvicinato dalle sorelle Azaro [Luigia (Luisitta) – 14/11/1920 – 15/11/1986 – poi moglie di Sebastiano Pino 25/3/1920 – 24/1/2012, messinese, ex saldato del disciolto R.E., ospitato dalla famiglia Azaro subito dopo l’8 sett. ’43 perché rimasto bloccato al nord senza alcun rifugio (e militante in seguito nella Coduri come partigiano “Rizieri”), e Ida (8/10/1923 – 24/6/1983) n.d.a.] che mi mettevano al corrente del lavoro di convincimento fatto con un gruppo di alpini di stanza alle “Case Nuove di Casarza Ligure” che erano riuscite a convincere ad abbandonare la Monterosa e a trasferirsi in montagna.

Mi recai a parlamentare con gli alpini (5 in tutto) e presi accordi. La sera, accompagnati da un loro commilitone da tempo con noi in collaborazione, ci incontrammo in Località Castello e di lì, attraverso le montagne, li accompagnammo a Colle di Maissana dove si trovavano i partigiani al comando di Gronda.

Questa diserzione, allarmò non poco il comando alpini che fece una approfondita inchiesta e si suppone (non abbiamo prove) che un altro alpino, a conoscenza del fatto, abbia fatto i nomi delle sorelle Azaro e dell’alpino che con noi collaborava; vennero arrestati assieme al fratello gemello di Ida Azaro, Bernardo (8/10/1923 – 27/1/1956) e tradotti alle carceri di Chiavari [trasferite poi in quelle di Milano n.d.a.] dalle brigate nere di Chiavari . L’alpino n/s collaboratore fu detto che lo avrebbero mandato in Germania (non se ne seppe più nulla). Il Bernardo [per alleggerire la sua posizione e quella di Luigia e Ida, n.d.a.] chiese ed ottenne di entrare nelle brigate nere, e le sorelle dopo 3 mesi di carcere furono liberate. Appena liberate, il Bernardo si diede alla fuga e raggiunse i partigiani.

L’alpino che denunciò l’accaduto, fuggì anche lui ai monti, venne arrestato dai partigiani, ma mentre si cercavano le prove del suo misfatto, la formazione Coduri venne attaccata da preponderanti forze nemiche (rastrellamento invernale) ci fu uno sbandamento e l’alpino riuscì a sfuggire alla giusta pena e di lui non si seppe mai più nulla”.  

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2)- La seconda testimonianza racconta una diserzione di 4 alpini della Monterosa; ed è scritta  e firmata da  “Violetta” (Irene Giusso n. 1918) sempre per la “storia della Coduri”: «Eravamo a settembre 1944  (circa la metà del mese) e mi trovavo in Torza, ove abitavo con la mia famiglia (dopo che la mia casa di Velva era stata incendiata e distrutta dagli alpini della M. Rosa), già da tempo a contatto con la “Coduri” e cioè da quando la Banda “Virgola” s’era stabilita a Velva.

Venni incaricata di recarmi al Bracco per portare notizie alla famiglia del partigiano “Marte” (Braconi Arnaldo n. 1922) e, trovandomi a transitare dal colle di Velva, oltre il Santuario, ove era di stanza un presidio della Monte Rosa, trovai una decina di militari che si recavano per servizio al Bracco.

Poiché facevamo la stessa strada, mi accompagnai ad essi e, chiacchierando riuscii a sapere che stavano cercando di disertare, ma non sapevano ove dirigersi. Con molta cautela, temendo potesse trattarsi di un tranello, feci intendere che avrei potuto condurli in zona Partigiana. Convinta dai loro accenni, che erano sinceramente intenzionati di fuggire la Monte Rosa, mi offrii di condurli in zona; essi – dissi loro – avrebbero poi potuto scegliere se restare a combattere con noi o avviarsi verso casa.

Venne quindi stabilito un appuntamento per il giorno successivo. Essi si sarebbero trovati fuori della zona minata, in località “Barbea” [località poco discosta da Velva Santuario, n.d.a.], per lasciare la Monte Rosa. Un gruppo di 4 militari si presentava infatti all’appuntamento stabilito, affermando che gli altri sarebbero seguiti a breve tempo, (a loro dire per non destare sospetto allontanandosi tutti insieme nella stessa direzione). Malauguratamente, ad uno dei quattro alpini, sfuggiva di mano l’arma che portava con sé, dalla quale partiva un colpo.

Il primo pensiero che mi venne alla mente fu quello di essere caduta in un agguato, e quel colpo apparentemente incauto non fosse altro che un avviso ad altri militari, appostati nelle vicinanze. Fortunatamente non fu così perché, anche i 4 fuggitivi si mostrarono allarmati e preoccupati del seguito, per la piega che poteva prendere la faccenda.

Nulla avvenne al momento. Tale fatto però sviava i nostri piani perché, il colpo metteva in allarme il presidio del Santuario; pattuglie venivano sguinzagliate lungo la strada e dovetti quindi desistere dall’attendere gli altri fuggitivi che evidentemente, erano rimasti bloccati. Accompagnai quindi i 4 alpini a Disconesi dove si trovava una formazione della “Coduri” comandata da Saetta. Non potei più continuare però i contatti perché, scoperta, dovetti lasciare la famiglia.

Seppi poi che l’indomani del fatto di cui sopra e altre due volte successive, vennero prelevati e portati al Comando del Santuario, mia madre e mio padre, minacciati di gravi rappresaglie (come se l’averci bruciato la casa non fosse ancora abbastanza) se non avessero dato notizie utili alla mia cattura insieme a quella dei disertori.

Dopo questo fatto “Virgola” mi vietò di lasciare la formazione Partigiana e così cominciò la mia milizia attiva e definitiva nei Partigiani».  F.to Giusso Irene, partigiana “Violetta”.

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3)- 18 ettembre 1944. Un gruppo di 8 alpini della Monterosa completamente armati e equipaggiati, assistito e condotto dal nucleo delle SAP di fondo valle, il 18 settembre, giunge al distaccamento di Riccio alle prime falde del M. Zanone. [In: A. Berti: “La formazione di una divisione partigiana nel levante ligure”, Tesi di laurea A.a. 1980/81,  Università di Genova, Facoltà di Lettere, pag 149, Rel.re Prof. Manlio Calegari]. [Più certa invece la data del 7/9/’44 con 9 alpini, anziché 8, saliti in montagna, come avvalorato dal Verbale del COMANDO DIVISIONE CODURI datato: Genova, 17 Maggio 1946, e depositato presso l’ILSREC di Genova, che al riguardo indica la data 7.IX.1944, decisamente più credibile, visto che il Btg Tirano, a cui apparteneva il gruppo degli alpini, si trovava, attorno al 18 settembre, già schierato in Piemonte, a Cesana Torinese. Altra conferma giunge dal Foglio Matricolare di uno dei fuggiaschi: Galizzi Luciano (fornitomi in copia telematica dal figlio Enzo che ringrazio) dove viene specificato che il Galizzi L.: «Ha fatto parte dal 8.9.44 al 30.4.45 della formazione partigiana “Brigata Zelasco” assumendo la qualifica gerarchica di V. Comandante di Distaccamento.- …»]. [Terza testimonianza, il già citato “Diario on-line” del cplm Erminio Peloni del btg Tirano, che in riferimento alle date dal 7/9/44 al 10/9/44, annota: 7 giovedì 9.30 preparare lo zaino, si parte per non si sa dove 12.30 rancio, consegna munizioni 22.30 si lasciano le postazioni al BTG. Bassano. Adunata la compagnia a S. Bartolomeo, si pernotta nella campagna dietro la chiesa in attesa degli autocarri. 8 venerdì sempre si aspettano gli autocarri. Di notte Pippo continua a girare, lancia bombe su Sestri Levante. 9 sabato 7 9.30 arrivano gli autocarri, partenza, Chiavari 10 alt. 11 partenza, Rapallo 12 alt. Rancio a secco, galletta e carne 18.10 partenza, Genova 19,30 20.30 alt. inizio autostrada 22.30 partenza. 10 domenica 3 alt a Pioverà, riposo in un bosco, libera uscita, molti scappano].

Del gruppo di cui trattasi (come riportato sul verbale del 17 maggio 1946 citato immediatamente più sopra) sono fornite anche le generalità e le regioni di provenienza di ognuno. Su 9 alpini, 6 sono bergamaschi: G. Filisetti “Bani” (n.1925) di Bani di Ardesio (BG); R. Finazzi “Napoleone” (n.1924) di Chiuduno (BG); L. Galizzi “Argo” (n.1925) di S. Giovanni Bianco (BG); I. Marinetti (n.1924) di Ardesio (BG); P. Paris “Piero” (n.1925) di Chiuduno (BG), e R. Zelasco “Barba” (n.1924) di Bergamo (BG); più: 1 varesino, F. Asconi “Maciste” (n.1925) di Castronno (VA); 1 veronese, S. Galiani “Giggio” (n.1925) di Verona (VR); e un parmigiano, L. Grandi “Parma”  (n.1925) di Parma (PR).

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4)- Un 2° gruppo, condotto da “Leone” e “Carta” (Corradi Vittorio n.1925), partigiano che abitava in Loc. Zarello, vicino a Bastian e a pochi passi dall’accampamento del btg Morbegno, ormai subentrato al btg Tirano trasferito in Piemonte, la notte del 23 settembre scendono a S. Margherita di F.L. a prelevare 18 disertori, tra cui ancora diversi bergamaschi. Anche loro sono stati assistiti e organizzati, in precedenza, dal nucleo SAP di fondo valle. Il gruppo composto tutto di guastatori, al comando del sergente “Abruzzi” (Caruso Francesco n.1922), arriva a Iscioli munito di fucili e di un paio di mitragliatori con relative munizioni. (Da “Testimonianza del Commissario “Leone (Bruno Monti, n. 1910), fascicolo di pp 36, f. A4, dattiloscritte  su un solo verso, s.d., dal titolo “Riassunto Storico della divisione Coduri”, con firma autografa sull’ultima pagina).

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5)- Quella che segue è una memoria raccolta e trascritta, negli anni 76-79, da “Gronda” (Minetti Antonio n. 1920) per la “Storia della Coduri”: e racconta di una diserzione di 26 alpini della Monterosa di stanza a Riva Trigoso. Operazione iniziata da “Moschito” (Agazzoni Giovanni n. 1920) e condotta a termine da “Rango” (Groppo Silvio n. 1924).

Così racconta Moschito: «Era una mattina di fine settembre [’44] mi trovavo alla Casa Bianca [piccola località poco oltre Montedomenico dove esiste una casa, anch’essa denominata Casa Bianca, entro cui, in momenti diversi, trovò alloggio il Comando della Coduri oppure qualche suo distaccamento, n.d.a.] con «Gronda» (mi ricordo che nel momento c’era anche «Virgola») e «Virgola» quando vidi entrare un ragazzo di Montedomenico dicendo che a Balicca [altra piccola località agli inizi delle rispettive ascese che salgono a Montedomenico e a Libiola] c’era un giovane che voleva parlare con noi poiché a Riva Trigoso tre alpini volevano congiungersi con i partigiani, e malgrado i dissensi di Gronda e di Virgola, scesi al punto indicato e vi trovai Gaggiati Domenico, [già giovane collaboratore dei partigiani e operaio dei Cantieri di Riva Trig., n.d.a.] che vedendomi disse come mai ero lì. Risposi che avevo portato granoturco al mulino, poi disse che lui ci si trovava per mettersi in contatto con i partigiani. Avendo intuito che il partigiano ero io e assieme, su una bicicletta, scendemmo immediatamente a Riva passando il posto di blocco tedesco sito sulla strada di S. Vittoria, passando dalla via Don Toso Emanuele (allora chiamata via dei Chiodi), S. Bartolomeo e le Rocche. Qui Gaggiati prese la bicicletta in spalla e siamo scesi a Riva Ponente, dirigendoci verso Via Genova, ed entrammo in casa del signor Bruzzone Antonio (socialista, poi divenuto consigliere del Comune di Sestri Levante tra il 1956/1965 e assessore tra il 1965/1969). In quell’appartamento vi era un gruppo di giovani, qui ho notato che il padrone di casa era molto preoccupato dalla mia presenza e chiesi dove erano i tre alpini, si fece avanti un giovane che si faceva chiamare Macario (era di Ge-Molassana e lavorava a Riva nella TODT), il quale mi accompagnò all’inizio del Ponte sul Petronio indicandomi il Bunker dove si trovavano gli alpini, dato che in quell’istante era suonato l’allarme aereo, Macario fuggì verso i rifugi e io pensai che era il momento di agire, e mi diressi verso il bunker. Entrai e vidi che gli alpini non erano 3 ma 4. Con la pistola in pugno dissi loro che ero un partigiano sono venuto a prelevare i tre che volevano venire con me, essi rimasero allibiti e ci fu qualche minuto di silenzio, la situazione si faceva sempre più imbarazzante per tutti. Poi uno mi disse: “Ora non si può, c’è pericolo. Venga questa sera alle ore 20 alla trattoria del “Carbonino” (era in via E. Piaggio ed era un locale molto noto perché frequentato anche dagli operai dei Cantieri, n.d.a.) siamo tutti d’accordo”. Mi tese la mano che la strinsi. Anche gli altri mi salutarono allo stesso modo. Uscii preoccupato temendo che mi sparassero alla schiena, ma camminando a passo lento e avendo percorso una decina di metri, mi rassicurai subito, pensai che c’era un alpino in più e un fucile in più. Arrivato all’altezza della farmacia incontrai Valentino (Specchio) faceva parte delle S.A.P. di città, gli chiesi se aveva l’A.B.C. del Partito, poiché “Meneghetta” (Dellepiane Bruno n. 1920) medico della «Coduri», lo voleva leggere e mi disse se avessi incontrato Specchio di farmelo dare) di passare dopo tre giorni che me lo avrebbe procurato.

Io andai a casa, cenato, ritornai per l’ora prescritta all’appuntamento dal “Carbonino”, entrai e vidi una tavolata di soldati tedeschi che mangiavano, mi avvicinai al banco e chiesi alla titolare, Giulia Venzi, dov’erano gli alpini, mi rispose che erano nell’altra sala, apersi la porta ed entrai, davanti a me mi si presentò un quadro davvero inquietante: che al momento era funereo, gli alpini non erano 4 ma due tavolate tutti seduti in attesa di mangiare.

Chiusi la porta a chiave, mi levai il soprabito, misi la pistola e lo sten sul tavolo e chiesi il responsabile, si presentò un caporal maggiore, gli dissi: 1500 partigiani hanno circondato Riva centro, ho tempo ¼ d’ora per trattare con voi, se entro tale termine di tempo non escono hanno ordine di attaccare; alle mie parole gli alpini allibirono, ma parte si alzarono in piedi, il caporal maggiore mi fece notare che il tempo da me richiesto era limitatissimo e che non si poteva nemmeno discutere, (a parte che il sottoscritto ha parlato così perché è stato preso dalla paura trovandosi di fronte ad un gruppo così numeroso, rinfrancato dalla richiesta del caporal maggiore, chiesi se si poteva prendere due ore di tempo per le trattative, avuto conferma, dissi loro che dovevo uscire per avvertire i reparti (che praticamente non esistevano) così uscii e andai all’osteria di Magin (Castagnola Tomaso in via Libertà, e in seguito a Riva Ponente all’osteria “da Muleta” ho fatto trascorrere 40 minuti in tutto dando loro la convinzione che i partigiani c’erano realmente.

Rientrato ho mangiato con loro una bella polenta con spezzatino, piatto da Natale per me, con la fame arretrata che avevo nello stomaco. Ci siamo messi d’accordo che al sabato notte sarebbero venuti via tutti. Uscii per primo, i tedeschi erano andati via e io andai a casa mia a dormire, l’indomani mattina raggiunsi Iscioli e dissi a Gronda che gli Alpini del presidio di Riva venivano tutti con noi; però, per forza di cose dovevo portarli [attraverso] Moneglia in quanto a farli passare nella Val Gromolo era pericoloso dato che esistevano gli Alpini da Barattieri, Alpini e tedeschi a Villa delle Pesche in Sara, e tedeschi nelle vicinanze di Villa Zarello, e ho pregato che mi desse in aiuto Rango che lui era pratico dei distaccamenti nemici sul versante di Moneglia, ed era più facile far passare il reparto da quella parte che non dalla Val Gromolo. Era il 30/9/44, giorno di sabato, scendo con il compagno Rango e arriviamo a Trigoso in casa mia. Ed è qui che dissi al compagno Rango di aspettarmi a Moneglia, all’imbocco della galleria che sarei arrivato con gli Alpini, e ci lasciammo. Coadiuvati dal gruppo S.A.P. di Riva, gli Alpini lasciarono il bunker e si portarono all’imbocco della galleria, qui con il compagno “King” (Bottari Enrico n. 1924) arrivammo a Moneglia con gli Alpini, purtroppo data l’ora tarda, «Rango» non c’era più, e io mi misi in testa alla colonna, King la chiudeva, e mi inerpicai sulla collina in mezzo agli uliveti. Dopo una ½ ora di marcia vedo il chiaro dentro un rustico, busso alla porta, sento dire chi è, partigiani rispondo, aprite, ho bisogno di parlarvi. La risposta è negativa, “non apro a nessuno”, io gli rispondo che se non avesse aperto gli avrei fatto saltare il casolare, allora la moglie disse al marito: “Carogna apri qui abbiamo dei bambini”; e così che mi si presentò un uomo con il volto terrorizzato che tremava come una foglia, io le misi una mano sulla spalla dicendo: “Ma siamo tutti partigiani, non abbiate paura, siamo mica fascisti!”. Preso da parte chiesi l’itinerario da fare senza incappare nei distaccamenti nemici, la strada me l’insegnò giusta e io sbagliai e camminavo verso la Bottigliona, è stata una vera fortuna che incontrai la zia di Rango, la quale mi mise al corrente che la Bottigliona era occupata dai tedeschi. Mi mise a conoscenza pure dove poter nascondere gli Alpini, i quali li ho sistemati in due baracche e mandai a chiamare Rango, il quale si presentò con un altro che non ricordo se era suo fratello oppure “Lupo” (Braconi Roberto n. 1919), a loro lasciai gli Alpini e tornai a Riva con Bottari per ritirare la stampa da Valentino, senonché incappai nel rastrellamento che i tedeschi e i fascisti avevano iniziato, e mi rifugiai in un buco nel cortile di casa mia. Mandai una staffetta da Virgola per avvertire che gli Alpini erano al sicuro, e al mattino seguente [del 2.10.44] arrivai a Iscioli che gli Alpini condotti da Rango erano appena arrivati. Bottino 27 uomini e 27 fucili, dei quali 10 semiautomatici, 3 machine gewehr e 3500 colpi. A conclusione dell’operazione la Signora Venzi Giulia e Macario sono stati arrestati e condotti a Castiglione Chiavarese, il comando Alpino voleva sapere da loro chi era l’uomo del soprabito, cosa che nessuno dei due poteva dirlo poiché non ero conosciuto da loro, in più presero numerosi giovani in parte portati in Germania. La signora Gai Giulia in Venzi e Macario furono rilasciati dopo circa una quindicina di giorni di detenzione.

6)- Parte conclusiva dell’azione condotta e raccontata a Gronda da “Rango” (Groppo Silvio n. 1914): «Era il giorno 16 settembre ’44, quando al distaccamento comandato da Gronda si ritorna a parlare dei 26 alpini di stanza a Riva Trigoso che sono decisi a venire in montagna con tutte le armi; chi ancora una volta ne parlava era Moschito, allora il Rango dice: mi sembra diventata una favola ormai, mi dà la sensazione che tu Moschito vuoi ritornare giù con la scusa degli alpini e che invece vuoi andare a trovare la tua giovane moglie, proprio non ci credo più; Moschito, ribatte che vada anche lui a sincerarsi e così si renderà conto. Rango accetta, ma Gronda, che ancora non aveva parlato, prese la parola e disse: ragazzi, non è uno scherzo da nulla prelevare, anche se vengono volontariamente, 26 alpini a Riva Trigoso, farle attraversare tutte le gallerie che portano a Moneglia, attraversare il paese, salire su al Bracco (e sappiamo quanti accampamenti di alpini e Tedeschi ci sono lungo questo tragitto) attraversare la statale del Bracco, sempre pattugliata, scendere a Fiume di Castiglione, risalire verso S. Pietro di Frascati attraversando l’altra strada battuta in continuazione dal nemico, con accantonamenti di alpini a S. Pietro – di alpini e Tedeschi in quantità a Castiglione Chiavarese, per non parlare del traffico che il Caposaldo del Santuario di Velva riversava su quella via – del forte gruppo di fascisti esistenti a Castiglione, è una azione questa che va molto meditata, ma soprattutto dobbiamo prima sincerarsi dove sono ubicati i nemici, quanti sono, tracciare accuratamente l’itinerario e dislocare lungo tutto il percorso staffette del posto pronte ad intervenire per avvertire di eventuali cambiamenti di percorso per forze maggiori. Stati calmi, penserò a tutto e poi vedremo il da farsi. Tutti ne convennero e così fu fatto. Furono fatti tutti gli accertamenti e il giorno 6 ottobre (notare la differenza di date tra Moschito e Rango che però non ha rilevanza ai fini del racconto, n.d.a.) avuto ordine dal Gronda partii per incontrarmi la sera a casa di Moschito e decidere il da fare; ricordo sempre che il Gronda mi disse: stai bene attento Rango, se vedi che ci sono pericoli lascia perdere tutto, non voglio rischiare la vita di nessuno, del resto se non li prendiamo adesso li prendiamo un’altra volta. Mi trovai con Moschito, parlammo anche con due alpini e si decise che la sera dopo, alla mezzanotte io sarei stato ad aspettarli all’uscita dell’ultima galleria, fin lì li avrebbe accompagnati Moschito. La sera dopo attesi fino all’una, e oltre; poi visto che non si vedeva nessuno raggiunsi casa mia e mi sistemai in un fienile, ormai albeggiava e di giorno era molto pericoloso camminare senza essere notati, poi al Bracco tutti sapevano che io ero andato in montagna e quindi c’era poco da fidarsi. Al mattino presto arriva mio padre e mi dice: è venuto Bracconi (Lupo – una delle staffette dislocate lungo il percorso) e mi ha detto che ti aspetta al più presto al posto che tu sai, ma stai attento, perché stamane c’è un movimento di nemici molto più fitto, non so il perché. Mi reco all’appuntamento con Lupo e mi dice: sono venuti gli alpini? Dico di no; meno male, questa notte hanno beccato Bozzano Giuseppe (“Grande” n. 1927) e il cognato di Moschito (Gavignazzi Alfredo “Terribile” n. 1925, in seguito caduto). Mentre eravamo intenti a discutere di questo e pensavamo che alla sera con il buio saremmo tornati al Distaccamento e Moschito ci avrebbe ragguagliato del fallimento; in quel mentre arriva mio fratello più anziano e mi dice: possibile che ne combini sempre delle nuove? Ma che c’è, chiedo io? E lui: guarda che giù a valle, subito fuori del paese di Moneglia, c’è Moschito con una trentina di alpini, che ti aspetta! sono nascosti fra gli ulivi al tale posto; allora dico a mio fratello: tu vai giù direttamente, dato che nessuno ti dice nulla, avvisi Moschito che io arrivo per altra via, e te Lupo tieni gli occhi bene aperti, se ci saranno novità ti manderò ad avvisare. Mi porto sul luogo indicatomi, trovo Moschito con gli alpini, me li consegna e se ne torna indietro attraverso i boschi. Ormai da Riva è stato dato l’allarme della fuga e tutta la zona è in agguato. Dove mettere 26 alpini in pieno giorno e darle da mangiare? Li faccio passare in un valletto profondo e raggiungo 2 casolari miei pieni di fieno e li faccio sistemare alla meglio; eravamo sotto una batteria di alpini a non più di 200 mt, dalla zona ho fatto allontanare gli sfollati, dei miei parenti, alla chetichella per non dare nell’occhio, e feci sistemare alla porta di ogni casolare una mitraglia Machine Gewehr dicendo loro di stare calmi, non parlate e non uscite fuori, attorno ci sono una 50ina di partigiani pronti ad intervenire in caso di bisogno, la batteria sopra di noi è sotto tiro, quindi non avete ad aver paura, pensiamo noi a tutto. Di partigiani in tutta quella zona ero il solo e su in alto c’era “Lupo” (Braconi Roberto n. 1919). Mio fratello racimolò un po’ di viveri nella frazione di S. Saturnino e ce li portò, e la giornata passò senza nessun inconveniente. Alla sera verso le 21 partiamo, io ero molto pratico del posto e conoscevo i viottoli più impensati a menadito; così raggiungemmo il Lupo (una delle tante staffette di controllo dislocate lungo il percorso), ci portammo nelle vicinanze della Via Aurelia dove pensavamo fosse meno pericoloso l’attraversamento e a 4 per volta li facevo passare dalla parte opposta; ma mi accorsi che così facendo perdevamo troppo tempo, allora l’ultimo gruppo lo feci attraversare tutto insieme. Quando fummo dalla parte opposta tutti, ci contammo, mancavano 3 alpini che diedero l’allarme e infatti una grossa pattuglia giunse sul posto e si mise a sparare nella direzione da dove proveniva il rumore, ma andò bene, nessuno rimase ferito. Dovevamo fare presto, scendere al Fiume dove un’altra staffetta attendeva (Scanavino di Campegli, in seguito caduto) lo raggiungemmo ma ci disse che lo Zeffiro (n/s collaboratore al corrente di tutto) era venuto ad avvisarlo che tra S. Pietro di Frascati e Castiglione erano in allarme, perciò di cercare un altro passaggio per attraversare la rotabile Sestri Levante – Varese Ligure. Non c’era più tempo da perdere, ormai avevamo perso troppo tempo, imbracciammo le armi e tentammo di passare fra Castiglione e S. Pietro; ci andò ancora una volta bene, e così all’alba raggiungemmo il Distaccamento. In località Lenzano di Monte Pu trovammo l’ultima staffetta scaglionata lungo il percorso.

Tutti questi alpini [che da 26 qual erano partiti rimasero in 23 perché 3, come abbiamo visto, si dileguarono lungo il percorso mettendo a rischio anche la vita dei loro commilitoni, n.d.a.] dopo essersi riposati, chiesero il n/s lasciapassare e si avviarono verso le loro case. Lasciarono tutto l’armamento e le scarpe buone di cui avevamo molto bisogno.

Quella volta, dopo tanta apprensione per l’attesa, facemmo festa, il Distaccamento aveva in dotazione 2 mitraglie pesanti e per noi, allora, era cosa molto, molto importante».

*  *  *

7)- Ecco proposto un altro episodio, (del quale, copia del manoscritto identico nel formato e nel numero di pp., è depositato, oltre che nell’Archivio della Coduri dove l’ho rilevato, anche presso l’ILSREC di GE), raccontato ancora da Minetti Ildo “Aquila”: «Era il giorno 27 Agosto 44, venni chiamato dal Tasso (Tasso G. Battista n. 1892),  nella sua bottega da ciclista (sita a Casarza Ligure nella attuale via Annuti Vittorio “Califfo” (n. 1921), Partigiano fucilato alla Squazza dalle brigate nere di Chiavari) che mi mise al corrente di approcci da lui avuti con 2 alpini della Monterosa e che era riuscito a convincerli ad abbandonare il loro reparto per raggiungere i partigiani, però prima di decidersi a salire in montagna, volevano parlare con un collaboratore dei partigiani, per avere notizie di come vivevano, quanti armamenti avevano, dove si trovavano ecc., che se la cosa fosse stata seria e sicura, loro avrebbero cercato di convincere tutta la batteria che si trovava in Francolano (frazione di Casarza Ligure sul confine col comune di Sestri Lev., n.d.a.) composta da una 30ina di alpini. Sentito tutto quello che volevano sapere, che certamente non avrei detto, mi insospettii e dissi al Tasso: “Sentite Giovanni, quello che questi due vogliono sapere non mi ispira nessuna fiducia, state attento che possono essere due spie, che una volta saputo quello che gli interessa e conosciuti noi per quello che siamo, ci denunciano e andiamo incontro a guai seri, voi siete già stato arrestato una volta e la seconda non ve la perdonerebbero di certo”.

“No, no, mi rispose, sono convinto che sono sinceri, sono dei bravi ragazzi, sono certo che fanno sul serio, ad ogni modo, se non vuoi aiutarmi, mi rivolgo altrove ma in questa faccenda voglio andarci fino in fondo”. Vista la sua decisione e la sicurezza e fiducia che aveva gli ho detto: “Va bene Giovanni, vi aiuterò, vedremo se sarà possibile far passare tutta la batteria ai partigiani, ma per adesso non si può far nulla, i partigiani non sono in zona, sapete che hanno subito un rastrellamento e hanno dovuto ritirarsi (era il periodo  tra il 2 agosto e i primi di settembre in cui la Coduri s’era trasferita sul M. Penna, n.d.a.) appena tornano in zona incontreremo i due alpini e vedremo il da farsi”. Quando i partigiani tornarono in zona, ho avuto un biglietto da Gronda, mio fratello, che mi chiedeva tabacco e altra roba e mi dava appuntamento a Iscioli. Mi recai all’appuntamento e spiegai loro quello che il Tasso voleva fare e chiedevo consigli; ricordo bene che Virgola mi disse: “ State bene attenti che non sia un trucco e che vi tirino in un’imboscata, è già successo, state molto all’erta”. E rivolto a Gronda: “curati di questa faccenda, ma se vedi che ci sono dei dubbi non andare, matureranno bene e poi si vedrà!». Tornato a casa misi al corrente il Tasso di tutto e decidemmo di avere un colloquio con i due alpini. Ci siamo incontrati nel retro bottega del Tasso e ci siamo messi d’accordo, però gli alpini, dopo averci assicurati che tutta la batteria sarebbe venuta via, ci dissero che questa loro adesione doveva figurare come un’azione fatta dai partigiani e che loro sopraffatti dovettero arrendersi. Dopo un altro incontro con il Gronda, si decise di fingere l’azione la sera e demmo agli alpini la [nostra] parola d’ordine che era [quella sera]: “Gino-Genova”. Ricordo bene che la sera del 30/9/44 (altre test. Dicono 1° ott.) verso le ore 19, ci siamo incontrati io, Tasso, Odofaci Giuseppe “Geppin” n. 1909, e un altro signore di Genova di cui non ricordo il nome e che era con noi in contatto; avevano già prelevato un alpino che volontariamente ha voluto andare con i partigiani e un altro alpino “Roma” che però all’ultimo momento si ritirò dicendo che voleva convincere i suoi commilitoni che trovavansi alle Case Nuove e che erano parecchi. Dissi a coloro che rimanevano a casa e particolarmente al Tasso, “state all’erta, almeno fino alle ore 23 e se sentite sparare è segno che abbiamo avuto un’imboscata, quindi regolatevi in merito, ma voi Giovanni [Tasso] dato che vi conoscono bene, in questo caso allontanatevi da casa”; lui mi rispose “non pensare a noi, stai attento tu che noi ce la caveremo comunque”. Partimmo io, il [Gueglio Achille] e l’alpino [nostro collaboratore] e ci incontrammo con Gronda al punto fissato, alla Madonnina di Verici (v. a sinistra). Il Gronda, che nel frattempo aveva avuto un’altra  segnalazione di un altro gruppo di alpini che volevano venire in montagna, con appuntamento dalla Chiesa di Verici, e visto che noi non avevamo notato nulla passando da lì, si insospettì e decise di andare lui con 6 uomini a vedere di che si trattava, e mandava altri 12 partigiani con me a prelevare gli altri in Francolano. Ricordo che c’erano, fra gli altri, Rango, Valencia, Bruneri, Cannella, Bertieri. Mentre il Gronda partiva per la Chiesa, io e gli altri ci incamminammo in fila indiana lungo il pendio che dalla Madonnina scende a Francolano; dopo circa 10 minuti che camminavamo e quando già eravamo in vista della casa dove erano acquartierati gli alpini, ho notato (dato che camminavo in testa e la nottata era chiara) brillare due canne di fucile, o mitra, e immediatamente mi gettai a terra e gridai agli altri di fare altrettanto. Indi scaricai contro gli alpini il caricatore della pistola,  mentre gli altri miei compagni lanciarono bombe a mano contro il nemico appostato mettendolo in fuga. E quando ritornarono con i rinforzi noi ci eravamo già dileguati.

Che cosa era successo?! Perché anziché  trovare gli alpini pronti a seguirci, ci siamo trovati di fronte ad una pattuglia appostata? I due alpini con i quali eravamo andati a colloquio si erano lasciati andare un po’ troppo nelle loro intenzioni, qualcuno capì che cosa si andava creando e quindi fece la spia (sembra sia stata una ragazza, ma non ci fu mai possibile appurarlo, essendo venuti a mancare i due protagonisti, come vedremo in seguito). Il comando alpino, tenendo all’oscuro l’intera batteria, sistemava intanto una pattuglia appena sopra la casa e rimaneva in attesa che gli alpini si muovessero per salire in montagna, ma non era a conoscenza della nostra venuta, ecco perché noi ci potemmo salvare. La stessa notte dell’imboscata, la Monterosa effettuò un grosso rastrellamento a Casarza Ligure, arrestò molta gente, fra cui il Tasso [il fratello minore, di Aquila, Minetti Egidio, appena sedicenne] e li condusse nelle carceri di Chiavari. Ma mentre tutti gli altri, dopo un po’ di tempo vennero rilasciati, Tasso Giovanni venne invece processato e fucilato nel poligono di tiro di Chiavari il 5 ottobre 1944.

I due alpini, Francesconi Renato (n. 1925 a Crevalcore BO) e Santagostino Alessandro (n. 1924 a Casorate VA), furono arrestati e processati a Chiavari dal Tribunale di Guerra, dove, durante il dibattimento, ammisero la loro connivenza con i partigiani. Condannati a morte per tentata diserzione e alto tradimento, furono fucilati nel cimitero di Casarza Ligure il 12-10-’44. Ma già in precedenza i nazifascisti fucilarono, nel cimitero di Casarza Ligure, altri tre alpini della Monterosa incriminati degli stessi reati: Lazzaro Sergio (n. 1925 a Strà VE) il 9-9-’44; Milani Alfonso (n. 1924 a Cursolo-Orasso VB) e Moraldi Pietro (lombardo) il 20-10-’44. Dopo questi fatti la batteria alpina di Francolano venne smistata in altra zona.

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 Riguardo l’episodio su riportato vi sono altre testimonianze:   

a)- Perego Luigi.

La sera del 1° ott. 1944 mi trovavo in casa del Tasso assieme allo stesso e a Noce Antonio per ascoltare come di consueto radio Londra. In attesa della trasmissione, il Tasso ebbe a dirmi: ”questa sera succederà qualcosa di grosso” al che io, all’oscuro di tutto, consigliai il Tasso ad allontanarsi da casa, perché tutti sapevamo che era segnalato, ma lui non ne volle sapere. Eravamo intenti all’ascolto della radio, quando sentimmo bussare fortemente al portone di casa; immediatamente ognuno di noi se ne tornò alla sua dimora (abitavamo tutti e tre nello stesso palazzo); qualcuno andò ad aprire e gli alpini, perché di loro si trattava, arrestarono tutti gli uomini, venni portato in istrada con tutti gli altri. Mi portarono poi in casa del Minetti e cercavano Ildo “Aquila” ma non trovandolo, arrestarono il fratello di appena 15 anni, che logicamente era all’oscuro di tutto. Ci portarono tutti sotto il piazzale della chiesa e dopo una sommaria cernita, ci condussero alle carceri di Chiavari. Rimasi in quelle carceri 23 gg. Durante i quali assistetti a un’infinità di atti veramente barbari che commettevano particolarmente le brigate nere, nei confronti dei più segnalati. Pestaggi e torture di ogni tipo, prelievo quasi periodico di uomini, che i più fortunati venivano mandati nei campi di lavoro in Germania, mentre molti altri venivano portati sui luoghi dove venivano barbaramente uccisi. Poi finalmente venni rilasciato, a mio carico non risultò nulla di grave e anche per l’interessamento di un prete.

b)- Minetti Egidio (“Tom” n. 1928).

Confermo quanto detto dal Perego e aggiungerò solo che il Tasso era ormai certo della sorte che lo aspettava, non mangiava, fumava molto, rimase con noi 2 giorni, poi lo portarono nella cella dove andavano solo i condannati. Subì molti interrogatori, durante i quali le venivano inferte ogni sorta di sevizie, dopo 3 gg. di quel calvario, lo vidi passare ammanettato insieme al Canzio Antonio di Castiglione (5 ott. 1944), sembravano due maschere, pieni di lividi, di sangue di gonfiori di ogni genere, passando un brigatista ci disse: questi hanno finito di fare i traditori, li portiamo a fucilare !!!Io uscii dopo 16 giorni, venni due volte interrogato dallo Spiotta e dal Tenente Cristiani, non mi picchiarono, forse per la mia giovane età, ma appena a casa presi la strada dei monti e divenni un partigiano.

c)- Minetti Antonio (“Gronda” n. 1920).

Da qui il testo della ricerca è di Gronda che scrive: Mi pare che questi fatti andassero descritti dettagliatamente, anche per dimostrare il valore di tutti coloro che si sono prodigati nello sfasciamento della Monte Rosa, dei pericoli a cui si esponevano, e con il sacrificio della vita, come toccò al Tasso Giovanni e al Canzio Antonio. (Nota fuori testo di Gronda: Gli alpini inviati dal Canzio in montagna erano del Rep. Sanità operante in Castiglione Chiavarese. Il Canzio ha sempre agito da solo, non si fidava di nessuno a Castiglione Ch.).

La morte del Canzio la si deve soprattutto all’aiuto che sempre ha dato al movimento partigiano, al suo antifascismo e per l’abbattimento del fascismo stesso. Il “Tigre” con altri partigiani, in una azione a Masso fecero prigionieri n° 7 alpini, durante il ritorno si fermarono, come di consueto, in casa del Canzio in località Baresi di Castiglione Chiavarese. Venivano rifocillati, il Canzio diede le ultime notizie al Tigre, della forza e delle loro azioni (era il Canzio un ex maresciallo dei C.C.) poi il Tigre partì. Dopo qualche giorno, uno di questi alpini, fuggì, carpendo la buona fede dei partigiani e segnalò subito al comando quanto aveva visto e come il Canzio collaborasse con i partigiani. Appena scoperta la fuga, il comando partigiano, mandava ad avvertire il Canzio suggerendole di allontanarsi da casa, non volle sentire ragione e dopo poco lo prelevarono, lo incatenarono con le stesse catene con cui teneva legate le mucche e lo trascinarono a Castiglione Chiavarese. Lo fecero sfilare così incatenato com’era nel paese come ammonimento dicevano, poi lo portarono a Chiavari e come il Tasso subì ogni sorta di sevizie finché lo portarono al poligono di Chiavari e lo fucilarono. [Il 5 ottobre 1944 con Tasso G.B.].

d)- Braconi Arnaldo “Marte”, sua moglie sig.a Lina Cattaneo e Piero, cognato di Braconi. [Lavoro svolto da Naccari (Fico Italo), Luciano (parente di Marzo) e Gronda].

La signora Braconi, in quel tempo ancora signorina, abitava con il padre, la madre e il fratello, in Torza di Maissana, gestivano la rivendita di tabacchi e un negozio di commestibili. Fin dagli inizi delle formazioni partigiane collaborò con gli stessi e grande fu il suo apporto alla lotta di Liberazione; ma diamo a lei la parola.

Sento, con molto piacere, che state raccogliendo materiale per dare a colui che scriverà la storia della Coduri e che adesso state cercando, come diceva prima Luciano, particolarmente materiale inerente lo sfaldamento della Monterosa, ebbene io posso dirvi che noi a Torza abbiamo molto lavorato in tal senso, particolarmente noi ragazze che più di altri potevamo avvicinare i giovani alpini venuti dalla Germania dove avevano detto loro che in Italia vi erano molti giovani che avevano tradito la Patria e si erano dati alla montagna e agivano come dei veri banditi, il loro compito era quello di far cessare quello sconcio e debellare una volta per tutte questa piaga, questa onta che macchiava il popolo Italiano. La parola che maggiormente dicevano era che i responsabili di questo erano i sovversivi e loro complici.

Noi ragazze che niente sapevamo di sovversivi, di partiti, di politica in genere, spiegavamo a questi giovani che non era vero niente di quanto le avevano detto in Germania, ma che anzi, coloro che erano in montagna lottavano per un’Italia nuova e libera e soprattutto lottavano perché la guerra avesse finalmente fine. Ma non pensate che fosse tutto così semplice, cioè poter parlare in questo modo con gli alpini: dovevamo prima fare amicizia con loro, vedere di come pensavano e capire se ci si poteva fidare e tutto ciò per noi inesperte, era un lavoro non indifferente. Capito poi il soggetto, visto che si poteva parlare cominciava il nostro lavoro di convincimento, di chiarificazione. Non vi nascondo che fra un appuntamento e l’altro ci scappava anche qualche innocente bacetto, ma noi pensavamo che il gioco valesse la candela.

Il lavoro fatto diede poi i frutti, che se proprio non andò in porto come noi avremmo voluto, servì a qualche cosa. Infatti diversi di questi giovani convintisi che la vera ragione stava dalla parte di coloro che erano in montagna parecchi di loro presero quella via, ma l’intendimento dei partigiani era un altro: vedere di avere colloqui con gli ufficiali comandanti il presidio di Velva, convincerli a passare in massa dalla loro parte!

Cominciammo allora ad avvicinare qualche ufficialetto e via via sempre più in alto fino a che gli altri, molto più preparati di noi e avendo un terreno già ben preparato combinarono un primo incontro proprio in casa nostra. Eravamo allora nel mese di Agosto 44 ed io venni avvertita di preparare un locale per un incontro fra i partigiani e il comando del presidio di Velva. Non vi nascondo la mia eccitazione e anche la mia soddisfazione! Preparai la saletta di casa, qualche bottiglia di buon vino, pane e un po’ di salame nostrano. Il giorno prestabilito, mentre ero in strada ad attendere le due delegazioni, vidi diversa gente del paese che scappava in preda al panico (erano coloro che nulla sapevano) e gridavano arrivano gli alpini, scappate…! Cercai di calmarli, ma non potevo dire loro quanto stava succedendo. Avevano avvistata una pattuglia di alpini, con in testa tre ufficiali, che si dirigevano su Torza. Ma ecco che dallo stradone provinciale, provenienti da Varese giungevano i partigiani, erano in 4 e precisamente: Virgola, Leone, Bocci e Gronda; non vi dico la meraviglia dei miei compaesani e degli sfollati! (allora erano molti. Le due delegazioni si incontrarono proprio di fronte a casa mia, si salutarono militarmente e si presentarono, ricordo il più alto in grado degli alpini, che poi seppi era il capitano Garofalo, rivolgendosi a Virgola disse: Finalmente ho il piacere di conoscere il famoso comandante, tutti parlano di lei e se devo dire la verità, ne parlano molto bene! Chiese poi di vedere le armi “americane” e infine si accomodarono in casa e iniziarono il colloquio. Di questo ne parleranno coloro che vi hanno preso parte. In seguito poi, visto che tutto non andò in porto come doveva, anche se altri colloqui ci furono, anche al Santuario di Velva, io e la mia famiglia, ormai scoperti, dovemmo darci alla fuga, senza per questo aver cessato mai di dare il nostro contributo alla causa comune.

*  *  *

8)- Diserzione di 20 alpini e 11 muli, più altra azione minore, compiuta da “Lanciere” (Raspolini Edilio nato a Sestri Lev. il 4.5.1912 e residente a Casarza Lig.), (test. s.d.) raccolta ancora da “Gronda”. Segue il racconto di Lanciere: “Questa importante batteria si trovava accampata in località Battilana di Casarza Ligure e oltre al lavoro di salmeria e di approvvigionamento per le altre postazioni site in tutta la zona della Val Petronio, aveva il compito  di sorvegliare pure un grosso deposito di armi e munizioni sito nelle vicinanze dove la stessa si trovava accampata. Noi sapevamo che fra le donne della zona e il Sergente che comandava questa batteria, che per la precisione era il Serg. Arduino, in seguito sposatosi con una ragazza del posto la quale sembra abbia avuto molto ascendente sulle decisioni che lo stesso in seguito prese, (l’allora Sign.na Osma) c’era bisogno di un incontro a livello partigiano per decidere definitivamente tutta la faccenda e il passaggio di tutti gli uomini e vettovagliamento, ma soprattutto delle armi, al movimento partigiano.

Per questo delicato, quanto rischioso compito ai offrirono il Lanciere e il Comandante di Distaccamento Toro. I due, vestitesi in borghese, dopo avere avuto un ultimo colloquio con Virgola, partirono alla volta di Battilana dove giunsero verso le ore 15; il Toro abitava proprio in quella zona ed essendo molto conosciuto si fermò in casa propria, mentre il Lanciare da solo si portò sul posto. Racconta che era armato di una pistola Beretta calibro 12 che teneva ben nascosta fra la cintura dei pantaloni; si avvicinò alle tende degli alpini e chiese del Sergente Arduino, lo chiamarono, si appartarono dagli altri e iniziarono il colloquio. Il Lanciare si fece conoscere per chi veramente era, avvertendo il sergente che un centinaio di partigiani erano appostati nei dintorni, ciò che non era assolutamente vero, ma al che l’Arduino rispose non essercene la necessità, perché tutti erano d’accordo di andare con i Partigiani, eccetto due che in quel momento si trovavano di guardia al deposito munizioni. Lanciere chiese ed ottenne di potersi recare a parlamentare anche con loro per vedere di convincerli. Si avvicina ai due e quando furono vicini per parlare senza essere ascoltati da nessuno disse loro: “Sentite giovanotti, io sono un partigiano, sono già d’accordo con il sergente v/s per il passaggio di tutto il v/s gruppo ai partigiani, sono tutti d’accordo, gli unici contrari siete voi, ma penso che ormai avete ben capito che la guerra per voi è finita, è persa, gli Americani sono alla linea Gotica, sappiamo di preciso che presto lanceranno una decisiva avanzata che spazzerà via tutto perché volete sacrificarvi? Non pensate alle vostre mamme, papà, fidanzate, fratelli, sorelle e amici? Non pensate alla vostra pelle? Capirete bene che se vi prenderemo con le armi in pugno quando verrà la vostra sconfitta saranno guai per voi? Venite con noi, starete bene abbiamo da mangiare, siamo al sicuro e se non vorrete fermarvi a combattere con noi, potrete raggiungere le v/s famiglie attraverso le montagne con un n/s salvacondotto, quanti come voi lo hanno già fatto.” Un bel momento il più giovane dei due si decise e disse: “anch’io vengo con gli litri miei amici”. Il più restio disse: “ma lo sa che io potrei arrestarlo e denunciare tutti gli altri?”. “E no, caro giovanotto,  pensi forse che non sappiamo chi sei? come ti chiami? e che dopo ne pagheresti amaramente?  ma non sai che hai una pistola puntate su di ti pronta a sparare? Non sai che un centinaio di partigiani mi seguono e sono pronti a farvi fuori tutti? a queste parole si mise il moschetto sulle spalle e disse: anch’io vengo con i partigiani, ma poi proseguirò per il mio paese; era costui della prov. di Parma. Ritornai dal serpente, prosegue Lanciere, lo misi al corrente di tutto e decidemmo che lo avrei fatto incontrare con un comandante non lontano. In quel mentre si senti un rombo di moto-sidecar che si avvicinava, il Sergente mi annunciò tempestivamente che stava giungendo il Colonnello, io mi lasciai filare lungo il breve pendio, estrassi la pistola, tolsi la sicura e mi preparai al peggio. La moto si fermò e il Colonnello diede ordine al Sergente che al più presto doveva recarsi con i muli alla batteria del Bracco, coricare tutte le armi e l’esplosivo e trasportarlo nella Cappelletta di S. Antonio sita al bivio che porta a Bargone della località Bargonasco. C’è stato segnalato un grosso movimento di “Ribelli” perciò dobbiamo concentrare il materiale per una più sicura difesa da eventuali attacchi di quei traditori e ripartì. Risalii sulla strada e accompagnai il Sergente dal Toro e assieme prendemmo le decisione: saremmo tornati la sera dopo verso le 21 e che loro si tenessero pronti con muli carichi e tutto l’armamento e quello che non si poteva trasportare, doveva venire distrutto”.

Raspolini (Lanciere) e Toro (Manzi) ritornano al comando della Divisione e fanno presente quanto deciso. La sera dopo, da Iscioli, parte il Lanciere,  Toro con il suo distaccamento e Tigre con un altro distaccamento; appena partiti il Tigre ordina al Lanciere di andare al distaccamento di Aquila che trovavasi alla Casa Bianca di Monte Domenico, e farsi dare il Banchero Luigi (“Penin” n. 1925) molto pratico di muli che ci poteva servire per ogni evenienza, si sarebbero dovuti trovare a Bargone. Giunti all’appuntamento, i due distaccamenti non c‘erano più, avevano proseguito per Battilana, era però ad aspettarli il Gek che diede loro le informazioni. Proseguimmo anche noi due, ma giunti poco sotto le case di Massasco sentiamo sotto di noi una sparatoria tremenda, urli, imprecazioni, noi saltammo fuori della strada e rimanemmo in attesa. Era una pessima serata, buia pesta, con scrosci d’acqua a non finire e la burrasca che stava avvicinandosi; dopo poco vedemmo nello penombra,  passare una persona che camminava in modo strano e con la pistola in pugno, era un partigiano o un alpino? Impossibile distinguere, lo seguimmo con lo sguardo e lo notammo bussare alla porta della Signora Muzio (moglie del Generale Muzio) sostenitrice di quella gentaglia e spesso e volentieri in casa sua si tenevano “festini” molto “liberi” (così si diceva nel paesino) alla richiesta dall’ interno di chi fosse, rispose “sono l’ufficiale degli alpini ….. (non capimmo il nome). La porta si apre immediatamente e così si rinchiuse. Capii ormai che l’azione di prelievo degli alpini era fallita e io e Penin ritornammo indietro. Che cosa era successo? Quella sera due ufficiali degli alpini accasermati al Bargonasco, si erano recati in casa della solita signora e dopo avere gozzovigliato stavano tornando al quartiere; lungo la strada erano di guardia due partigiani, anche per aspettare noi due, mentre gli altri avevano preso posizione come precedentemente prestabilito ed erano tutti in attese di me, ero infatti io che dovevo presentarmi al Sergente; sentendo venire giù lungo il viottolo due persone, diedero il “chi va 1à” e chiesero la parola d’ordine, gli ufficiali accortisi che arano partigiani fecero fuoco al che i n/s risposero, un’ufficiale rimase ferito nelle parti basse (ecco perché camminava in quel modo) e un partigiano [venne ferito] al polpaccio di una gamba, ma fortunatamente non troppo gravemente; [si] seppe dopo che tutta l‘altra sparatoria fu una messa in scena del Serg. Arduino per camuffare tutta l’operazione.

La sera dopo la sparatoria, tornammo ancora giù io e il Toro [Manzi Silvio di Casarza], mi presentai al Sergente, spiegai quello che era successo e allora caricati i muli di armi e munizioni prelevate dal deposito (un grosso aiuto ci fu dato da gente del posto, ma particolarmente da Attilio … che per caricare i muli fece la spola da deposito alla strada, cosi da Battilana partirono verso la montagna ben 15 muli carichi di armi e munizioni e 25 alpini con il loro sergente Arduino. Ad accompagnare tutta quella gente eravamo “ Lanciere e Toro!!!”. Da notare che oltre ai muli avevamo preso anche il cavallo del Colonnello. La notte fu veramente inclemente, acqua a non finire che ci accompagnò per tutta la notte.

Il tragitto attraverso i boschi, al buio, sotto la pioggia battente non ebbe più intoppi di sorta e così giungemmo a destinazione a Iscioli che stava spuntando l’alba. Tigre fece sistemare muli e alpini, asciugarono la roba che avevamo addosso, si distribuirono le armi di cui tanto avevamo di bisogno, alla notte successiva si dovette ripartire, il Comando Divisione [il Comando di Brigata] ci aveva assegnato un casolare situato sopra Buto, perché nella n/s zona era stato segnalato un rastrellamento.

Si riparte verso le 2 di notte e attraverso il monte Bianco, monte Zanone, Disconesi e Maissana, ci portiamo sopra la strada che dal Santuario di Velva porta a Varese Ligure. In quel tempo Varese Ligure ora ancora in mano ai Nazi-Fascisti e mentre eravamo appostati sopra la strada in attesa di attraversarla passò un’auto con sul davanti una bandierina con molte stellette, certamente vi era sopra un alto ufficiale della repubblica di Salò, infatti davanti ad essa e dopo viaggiavano molte moto bene armate; sapemmo dopo che sulla macchina viaggiava il Generale Graziani, penso che un’occasione simile non si sia mai presentata a nessuna formazione partigiana e a noi è sfuggita. A Buto troviamo un distaccamento della Centocroci che al n/s sopraggiungere si ritira da comandi ricevuti. Ci sistemiamo alla meglio ma poi bisogna pensare al vettovagliamento: Tigre mi dice di prendere un uomo e di andare a cercare da mangiare. Mi porto  alle case del paesino a racimolare ben poco, ritornando verso i compagni passo vicino ad un casolare dove una donna stava cuocendo un po’ di polenta, doveva mandarne al marito sui monti dove stava lavorando a fare carbone e sfamare 4 o 5 bambini; fu questa donna che mi diede l’informazione che risultò poi tanto utile. Poco prima ero passato da una casa e avevo chiesto aiuto per una 40ina di partigiani che avevano fame, ma mi fu risposto che non avevano assolutamente nulla; la donna mi disse; “andate in quel casone vicino la casa, troverete almeno 2 sacchi di formaggio che quel signore ha truffato al suo padrone (era questi un gerarca fascista che  risiedeva a Sesta Godano) visto che dovrà con lo stesso dividere il formaggio stesso, quindi in casa ne ha molto altro e se lo vende a prezzi che nessuno di noi può comprarlo!!!”. Tornai da Tigre e dagli altri, mi vestii da sergente degli alpini, presi con me altri partigiani vestiti anch’essi da alpini, mi ripresentai allo stesso signore e gli chiesi il formaggio spettante al suo padrone della Sesta come lui ci aveva ordinato e mi furono consegnate un mucchio di formaggine in diversi sacchi, alla fine dissi “adesso andate a prendere quello che avete nascosto nel casone, datecelo e noi taceremo il tutto con il vostro padrone; così fu fatto, fingemmo di andare verso Sesta Godano, poi ritornammo indietro e passammo davanti la casa della povera vecchietta le lasciammo un bel po’ di forme di quel bene racimolato e giunti al casone, dove avevano già cotta la polenta con la farina raccolta, un po’ di patate, spaccammo quelle forme e facemmo festa. Dopo poco vidi giungere tutto trafelato quello del formaggio che veniva a denunciare che gli alpini le avevano portato via tutto, ma che noi potevamo ancora riprenderli, attraverso scorciatoie che lui conosceva; rivoleva il suo formaggio! Presi una bomba Sipe, la disinnescai e la feci scoppiare, lanciandola lontano dal casone e gridai: siamo attaccati dagli alpini! Bene! Dovevate vedere quello “sciacallo” come se l’è data a gambe levate.

Il padrone del contadino era il Dottore della Sesta e comandava le brigate nere, era forse il più ricco del paese e un vero fetente! Dopo pochi giorni ci arrivò l’ordine di rientrare nella n/s zona.

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9)- Ulteriore azione di Lanciere e altri; raccontata dallo stesso e raccolta da Gronda: – Un giorno mi trovavo da mio suocero e passò da casa un mio cognato che era in servizio nella repubblica di Salò, era diretto al fronte e le avevano dato una breve licenza, lo convinsi ad andare in montagna e così fece; fu un buon partigiano e si beccò anche una bella ferita in una gamba in uno scontro avuto con una pattuglia di Tedeschi, ma questi furono decimati.

Altra azione importante e che se non fosse stato per una spiata di una ragazza, la batteria con 4 cannoni di stanza a Conscenti, sarebbe passata ai partigiani. Quella volta era con me anche Italo e Bocci. Ci salvammo per un puro caso e lo dobbiamo ai padroni della trattoria che si trovava sulla piazza di quel paese, che a rischio della loro vita ci fecero passare attraverso una porticina secondaria e così ci potemmo mettere in salvo.

Questa azione dovrebbero descriverla Italo (Armando Arpe) certamente se la ricorda meglio di me, oppure Naccari (Fico Italo). Era con noi anche Viola (Irene Giusso).

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10)- “Pro memoria lavoro clandestino 1939 – 1945” di Solari Edoardo; Operaio dei Cantieri di Riva Trigoso, già cospiratore e antifascista anteguerra, poi partigiano nella Coduri col nome di battaglia “Settembre”, nato a Sestri Levante il 12.12.1920. La sua è una memoria s.d., scritta durante gli anni ’70 per la “Storia della Coduri”; dove l’autore cita i nomi di molti antifascisti e cospiratori del Tigullio già operativi anteguerra [che erano molti e non potendo illustrarne le vicende come vorrei mi riprometto di ritornare sull’argomento in un prossimo futuro], in genere tutti di tendenza comunista o socialista. Tra i quali molti erano contadini o liberi professionisti. Od operai delle locali industrie (Cantieri del Tirreno, F.I.T., OLE ecc.), dove avevano la possibilità di frequentarsi e discutere tra loro: specialmente i gruppi di Riva Trigoso, di Sestri Levante, di Casarza Ligure e di Lavagna ch’erano i più numerosi.

Ed ecco ciò che scrive E. Solari: «Certo non è facile ricordare a distanza un così triste periodo: posso solo dire che quanto circolava tra amici di tendenza diversa, tutto si fermava a rapporti verbali. Questo modo di procedere è durato fino al settembre 1943. Ai primi di marzo, negli ambienti di lavoro, si tentava la preparazione ad azioni di sciopero. Devo dire che dove lavoravo io questo non è stato possibile perché gli unici amici di cui mi fidavo – forse per le mie scarse capacità ad aprirmi agli altri senza i dovuti stimoli – erano due soltanto, e sono Bersani Carlo e Battistini Alfredo. Mentre dal primo ottenni informazioni, qualche pistola, e altro – solo dopo l’8 settembre – dal secondo nulla.

Nella mia famiglia, sentendo i miei fratelli e mio padre che non frequentava la chiesa, cercai di sapere qualcosa sul fascismo e sui vari problemi, ma scarse e allusive le informazioni avute – questo tra il 1926/30. Capii solo che mio fratello fece parte della cellula Comunista di Trigoso: con Ravera, Godani, Peri e Bugazzi scioltasi con l’arrivo di Busero, Domenichini e altri squadristi di La Spezia – che provocò l’espatrio in Francia di Peri, Migliori, Ravera, Poletti e altri ancora. [Tutti del gruppo dei cospiratori del Tigullio e, più o meno, tra loro tutti coetanei, n.d.a.].

Questo periodo dovrebbe, se lo vuole, descrivere bene l’avv. Cirenei (mi risulta che abbia tenuto nascosto in località “Casa Gin” (Loc. S. Carlo, Comune di Molare) per parecchio tempo diversi antifascisti sestresi. Su questo problema si potrebbero esprimere bene pure Arduino Favero e Vanteri Alfredo che lavoravano ai Cantieri del Tirreno dove esisteva la raccolta del Pro Soccorso Rosso.

Arrivati alla guerra 40/45: con mio fratello maggiore sentivamo, insieme a Umberto Calosso, radio Londra e Radio Carso con la Cincinnati America; si discuteva sulla guerra e sul fascismo. Mio fratello palesava simpatia per il sistema anglo americano, ma non gli cavavo nulla su quanto si metteva in pentola contro il fascismo. Ai primi di marzo 43, circolavano molte voci sugli scioperi e l’eventuale caduta di Mussolini. Avvertivo un certo nervosismo in mio fratello e in altri. Una sera capitò in casa mia un militare addetto al trasporto truppe proveniente dal confine Francese in sosta momentanea. Questo militare mi offrì uno stoccafisso in cambio di olio e vino. A questo soldato chiesi se si poteva avere una pistola per difesa della mia famiglia. Arrivò verso le 22 con una 9 corta e due caricatori, in cambio volle altro olio.

Tutto lieto andai da mio fratello intento a sentire radio Londra. Alla vista dell’arma quasi svenne; gli prese una tale fifa che mi disorientò. Solo gli dissi che era cosa poco utile mettersi ad ascoltare, mettersi a repentaglio con tutta la famiglia, se poi non ci si muoveva. Da quel momento non chiesi più nulla. Arriva il 25 luglio: si avverrò quello che si prevedeva. Per mia parte osservai ciò che accadeva cercando di incitare le reazioni degli operai dove lavoravo. Intanto si cominciò ad allargare le conoscenze: con Niccoli, Nero, Vanteri Alfredo, Poletto Guido, Menini Mario e altri, che più o meno erano interessati a questi problemi.

Premetto che dove io abitavo, a cento metri esisteva il Comando della 213 Costiera, e della Milizia fascista: i primi li comandava il capitano Ghiglione, i secondi il comandante De Bernardi (che credo attualmente abiti a S. Giulia), nel magazzino nella casa a fianco vi era ubicato una squadra addetta alla sorveglianza del ponte sul Petronio che era minato. Con uno di questi, un certo Traverso di Sestri Pon. o Cornigliano, ho discusso varie volte dei rapporti esistenti tra i due corpi e lo trovai consenziente sui vari punti, tanto che l’8 settembre, mi consegna armi e dispositivo per fare saltare il ponte; e mi aiutò, insieme ad altri sui colleghi, a nascondere lungo i camminamenti le varie armi che invece dovevano essere riconsegnate al comando. Poi li vestii in borghese e se ne andarono a casa loro. Ma un agente della milizia aveva visto e l’indomani i tedeschi si ripresero quasi tutto, salvo quello che ero riuscito ad infilare nei cunicoli sotto casa mia.

Passarono molti giorni prima che ci si potesse orientare per il da farsi; nell’attesa perlustrai tutti i luoghi dove vi erano stati militari. Giunto sulla costa del Brunecato [loc. sul litorale rivano] trovai due cassette contenenti bombe a mano OTO (bombe a mano incendiarie e anticarro) e altro materiale che gettai in mare perché ritenni non dovesse essere recuperato dai tedeschi. Mentre le bombe con mia moglie in secchi da latte li portammo a casa in attesa di come usare questo e altro.

E arrivammo ai primi di gennaio ’44. Si parlava di organizzare una formazione in appoggio alla già esistente Cichero qui nella zona, ma a metà Marzo si inviarono i primi, in zona Torchiano, dal Cap. Ernesto (prima di questi strinsi rapporti con un compagno di lavoro Minetti “Aquila”) il quale mi chiedeva se gli potevo dare delle armi per suo fratello e altri.

Parlai di questo a Vanteri e Fico Italo “Naccari”, e tramite Bastian mi incontrai a Casarza nella cantina di Massucco, con Marco Lessona, Finocchietti, Bobbio e volli sapere come stavano le cose: si decise che avrei dato 6 moschetti e una ventina di caricatori però queste armi non finirono troppo bene, perché questi stessi le armi le avrebbero trovate in un cunicolo sopra Trigoso, portate là da me, Naccari e Nero. Questo episodio ritengo lo debbano precisare i protagonisti.

Prima qualche mese, assieme a Vanteri, si tenne nascosto in una stalla vicina, nutrito e curato, un polacco – o finto polacco – fuggito, così si diceva, da una bettolina. Il quale ci procurò non pochi guai. Infatti qualche mese dopo sono rientrati nella zona, diversi di Casarza, e Vanteri mi disse di rintracciarli e Naccari mi disse poi di farli rientrare a Iscioli. Arrivò pure il polacco che voleva portarmi a prelevare, assieme a Nero, il comando tedesco a Casarza. Mi rifiutai, lo tenni fermo. Naccari e Vanteri, mi dissero di farlo rientrare sullo stesso percorso che lui conosceva. Lo tenni sotto controllo, dal Nicolini seppi che scese da una auto tedesca a Trigoso, e che pure a lui aveva fatto la stessa proposta – e maggiori informazioni sui partigiani. Alla seconda notte, vennero prelevati Nicolini, Bellagamba e non so quali famigliari di Sanguineti su a Barassi, e credo che questo sia stata la fase cruciale per la formazione autonoma della Brigata Coduri – imponendo l’allontanamento di quasi tutti gli anti fascisti attivi nella zona, e per qualche tempo non ebbi più contatti. Mi trasferii a Casarza, in casa Finocchietti, fino all’arrivo della Monterosa. Da lì a Cardini in casa Bonfiglio. Riallacciati i contatti, a questo punto servi molto per i rifornimenti e i passaggi; ottenni sempre da tutti ospitalità gratuita, con me gli altri. Avevamo punti di appoggio a Verici, Tassani, Libiola Caminata e Barletti.

Da casa Bonfiglio passarono Migliorini, Riccio, Libero; e altri ancora ottennero ospitalità: Bruneri, Canella, Taro, Volpe, Zalo, Undici, e molti altri ancora di cui mi sfugge il nome. A queste famiglie si deve dare il merito della benevolenza avuta perché tutto hanno dato e nulla chiesto. Questa riconoscenza in particolare dovrebbero esternarla coloro che hanno avuto, specie nel periodo gennaio ‘45 fino alla calata a Sestri Levante. 

Non ricordo bene come avvenne l’incontro a Verici, per l’azione sul Bracco, e quella a Tassani in casa Merlo, con Bocci, Italo e altri, sul problema del dislocamento, e loro potenziale, e numero postale del comando dei militari nella zona da segnare sulle apposite cartine.

Tramite Bobbio ottenni dalla titolare postale il numero che se non erro era 053, il resto fu eseguito. Io in particolare ero specializzato nel taglio delle comunicazioni tanto che costringemmo in poco tempo i vari Comandi a fare montare la guardia a varie linee.

Nota bene che per l’antifascismo, credo che il metodo adottato sia stato quello giusto – nessuno chieda ad altri, perché così nulla rimaneva – perché se uno veniva acciuffato non avrebbe potuto parlare di grandi cose. Questo capisco che era a livello di base, che in alto altro vi fosse, in modo che chi tirava i fili si trovava quasi sempre al sicuro».  

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11)- Vicenda di Giovanni Benetti “Betti” (19.4.1923 – 25.12.2007) di Carpi (MO). Ex alpino della Monterosa, passato alla Resistenza arruolandosi nella Coduri, che, catturato e condannato due volte a morte, riuscì a salvarsi. Trascrizione della registrazione fatta allo stesso Benetti il 15.09.1977 da Minetti Antonio “Gronda” per la “Storia della Coduri”.     

 Il racconto completo di questa vicenda è compreso in un libro autobiografico del Betti “Memorie di un sopravvissuto”, a cura di Mariagiulia Sandonà, edito dall’ANPI di Carpi nel 1992, dove sono inserite anche due significative lettere, una di Gronda e una di Riccio, oltre a molti altri importanti documenti. Ma la cosa che angustiò il Betti più di tutte, è stata quella che da molti ambienti vicini alla Resistenza sia stato sempre tenuto un po’ in disparte perché ritenuto un traditore sopravvissuto alla fucilazione non dei nazisti ma di quella dei partigiani. Dicerie che presero campo e che avrebbero potuto fargli subire una terza (oltre alle due ancora pendenti: una da parte dei tedeschi perché sopravvissuto a un’esecuzione e l’altra dalla Monterosa perché disertore contumace) condanna a morte, addirittura inferta dai partigiani di Migliarina di Carpi, suo paese natio, se due suoi amici d’infanzia (Leonardo Tosi e Elvisio Caliumi) non fossero intervenuti a difenderlo nel corso della riunione che doveva deciderne la sorte: “Benetti non va toccato, se è un traditore, se è un fascista, allora dovete fucilare anche noi”. E, così, furono tre le condanne a morte a cui il Betti sopravvisse, n.d.a. 

Ed ecco, attraverso le parole dello stesso Betti, il suo racconto: «La mia vicenda cominciò dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con la conseguente disfatta del rostro esercito e quando tutti pensammo di abbandonare ogni cosa per ritornare alle nostre case, (tralascio le motivazioni di questa decisione, perché richiede un lungo discorso che altri, meglio di me, faranno), contenti di aver salva la vita e dare un valido aiuto alla nostra famiglia, la realtà amara ci impose invece di ripartire, rivestire la divisa militare e continuare a combattere: secondo il bando per cui le classi 1923-24-25 dovevano ripresentarsi per continuare la ferma militare, quindi la guerra, a fianco dell’alleato tedesco; cosa che noi giovani rifiutavamo decisamente dopo un’esperienza di guerra durata tre anni.
Pur essendo digiuni, o quasi, di politica, di antifascismo, cresciuti nel periodo fascista capivamo che vi erano altre strade per servire la patria; per questo chiedemmo ai più anziani di illuminarci, di aiutarci, ma riscontrammo in loro, o in buona parte di loro, reticenza, paura, perché se scoperti ad incitare i giovani a non presentarsi, potevano essere deportati nei campi di sterminio o essere immediatamente fucilati.
In una riunione fatta qui a Carpi, con la partecipazione di tutti i renitenti, si decise di non partire e di nasconderci, anche perché avevamo avuto sentore di qualche movimento clandestino. Considerato il fatto che i tempi erano duri, pericolosi, e si era sempre braccati, ognuno si comportò in modo diverso: chi si presentò, chi si nascose, io e mio cugino dopo un certo periodo d’attesa, decidemmo di presentarci con l’intento di fuggire armati alla prima occasione opportuna. Da Modena a Novara, da Novara in Germania, dove ci aggregarono alla Div. Monte Rosa per prepararci.
Tengo a dichiarare, una volta per tutte, che noi non eravamo firmatari, ma semplicemente giovani che dovevano finire la leva; firmatari erano invece molti ufficiali o sottufficiali, prelevati dai campi di concentramenti, ai quali venne fatto un discorso di questo cenere : “Se firmate, verrete adibiti all’istruzione dei componenti la Div. Monte Rosa esclusivamente italiani, e al termine dell’addestramento, non solo farete parte del nuovo esercito italiano, ma, rientrati in Italia, combatterete contro gli eserciti invasori e soprattutto i “banditi” italiani datisi alla macchia. Se non firmate, rimarrete nei campi di concentramento subendone le conseguenze”.
Il nostro atteggiamento nei confronti di questi firmatari, che infierivano su di noi per farsi belli agli occhi dei tedeschi era di odio, di conseguenza eravamo svogliati e menefreghisti. Infatti, in occasione della visita di Mussolini per il giuramento alla Repubblica di Salò, la truppa fu posta sotto stretta sorveglianza, poiché erano sparite 3 pallottole e i tedeschi temevano un attentato, sospettando l’esistenza tra noi di elementi sovversivi. Quando varcammo i confini e rientrammo nel nostro territorio, cominciarono le defezioni: molti scappavano armati e bene addestrati, per loro era facile perché pratici dei posti, ma altri come me, dovevano aspettare occasioni più propizie.
Io cominciai ad interessarmi per raggiungere i partigiani, appena arrivato a Casarza Ligure (GE).
Dopo alcuni giorni di sondaggio, durante la libera uscita, ebbi la fortuna di incontrare Paganini (poi divenuto partigiano nella “Centocroci” col nome “Quattriss”) mio ex compagno sul fronte francese, al quale espressi chiaramente la mia decisione; convintosi della mia sincerità, mi indicò le modalità da seguire. Alle 5 del mattino successivo, seguii in lontananza il fratello minore di Paganini – Romildo e del cugino Nereo Peri – lungo una stretta vallata, sino alla casa di un borghese, mi presentarono e se ne andarono. Dopo aver mangiato, il borghese mi portò in una fitta boscaglia e mi disse: ”Domattina sentirai due fischi, allora uscirai avvicinandoti a chi ti farà segno, io sarò con loro”.
All’alba conobbi due partigiani e con loro mi incamminai lungo un percorso che a causa dei giri viziosi durò circa due ore, poi finalmente arrivammo alla “Casabianca”, dove incontrai il Comandante di Distaccamento “Gronda” della Brigata Garibaldina “Coduri”. Questi, dopo avermi chiesto i dati personali e le motivazioni della mia scelta, mi disse: “Senti, qui con noi c’è pericolo, fame, stenti di ogni genere, ci sarà molto da combattere e da spostarsi secondo le decisioni del Comandante di Brigata; tra noi vige un forte cameratismo e una ferrea autodisciplina, ti do un giorno di tempo per pensarci, poi mi dirai la tua decisione. Se la nostra vita non ti va, sei libero di scegliere e andare verso i tuoi posti, a tuo esclusivo rischio e pericolo”.
Mi presentò al vice Comandante “Aquila ” al Commissario “Rango” e a tutto il distaccamento; prima che si allontanasse gli confermai la mia intenzione di rimanere, certo di aver trovato il posto giusto, chiedevo solamente di combattere.

“Bene” disse Gronda, sei il benvenuto nella grande famiglia dei partigiani, cercati il nome di battaglia, distruggi i documenti personali in modo che i tuoi cari non abbiano a subire persecuzioni nel caso di un tuo arresto e, riguardo al combattere, le occasioni non mancheranno “.
Era il 12 Luglio 1944.

Rimasi al Distaccamento di Gronda fino ai primi di Novembre.

Vorrei qui aprire una parentesi sui Com.te ” Virgola “(Com.te di Brigata) e “Gronda” che io ebbi modo di conoscere bene: uomini responsabili e di una serietà esemplare, non solo Com.ti ma fratelli, ogni volta che non potevano partecipare ad un’azione, già da loro studiata in precedenza sul posto, raccomandavano ai responsabili di essere decisi e intraprendenti ma soprattutto dovevano pensare all’incolumità degli uomini, su questo punto ritornavano costantemente, anche durante le discussioni che si facevano alla sera attorno al fuoco.
Queste, e tante loro altre qualità furono uno degli stimoli maggiori per il raggiungimento della vittoria e far sì che in me rimanga un ricordo indelebile delle esperienze fatte nella Divisione CODURI.

Una sera il Com.te, come era solito fare, riunito tutto il Distaccamento chiese 10 volontari per prelevare 23 alpini i quali, su informazione dei G.A.P. volevano unirsi ai partigiani.
Il giorno successivo il loro arrivo, andai a trovarli ed eventualmente rincuorarli, ebbi la sorpresa di vedere che erano tutti compagni di Carpi, Modena, Novi di Modena e Rovereto sulla Secchia.
Poiché Virgola aveva lasciato loro la libertà di scegliere, decisero di andare verso le montagne del Modenese e mi convinsero a seguirli.
Quando espressi il mio desiderio a Gronda egli mi rispose con un secco no: ”No, tu non vai, non capisci il pericolo a cui ti esponi, non arriverete mai alle vostre  montagne “.
Per ben tre volte a periodi successivi, insistetti con la mia richiesta, finché, sebbene a malincuore, mi accordò il permesso, lasciandomi anche la pistola avuta in dotazione. Ricordo che, nel salutarci, gli occhi del Com.te si riempirono di lacrime, c’era forse in lui il presentimento di quello che mi sarebbe poi successo? Non lo so, non avrei più voluto partire ma ormai la nostalgia di casa aveva preso il sopravvento e partii con gli altri.
Il viaggio intrapreso dai monti Liguri ai monti del Parmense, fu tutta una tragedia anche se facilitati dal lasciapassare firmato dal Com.te ” Virgola “.
Un gruppo di 24 persone non poteva passare inosservato, pertanto proposi di dividerci in tre gruppi, marciare su diverse direttive e incontrarci ogni tanto per decidere le mosse successive; dopo un tratto di strada mi accorsi che gli altri due gruppi non mi abbandonavano o per paura o per inesperienza, quindi maggiori erano i problemi da risolvere (viveri, ecc.), anche perché solo io non ero in divisa.
Il tratto più duro fu quello che dal Passo di Centocroci (SP) ci portò all’attraversamento del fiume Taro nelle vicinanze di Fornovo, ci imbattemmo varie volte con pattuglie di alpini e tedeschi, i quali non esitarono a sparare uccidendo 5 o 6 dei nostri. Ad uno di essi toccò una morte orribile: catturato, lo presero per le braccia e per le gambe e lo finirono sbattendolo contro un muro.
Finalmente arrivammo sulle montagne di Parma e precisamente a Capriglio di Tizzano, chiedemmo ad un missionario come potevamo fare e quale strada dovevamo prendere per raggiungere il Modenese; quando seppe chi eravamo ci disse che era molto pericoloso se non impossibile passare, poiché a Lagrimone, la strada camionabile era fortemente sorvegliata, unica via ancora in mano ai tedeschi per ritirarsi dal fronte della Garfagnana; ci consigliò di fermarci nell’attesa di un momento più opportuno, anche perché in zona c’era una brigata partigiana a cui potevamo aggregarci.
Il periodo di permanenza in quella zona, fu breve, ma sufficiente per conoscere i dintorni, i missionari e “Gallo” Com.te della Brigata Garibaldina.
Io avrei preferito entrare in formazione per avere più sicurezza e difesa ma gli altri e in particolare il Panini di Modena, insistettero affinché si proseguisse; accettai a malincuore il parere della maggioranza, come avevo imparato nella formazione Coduri. Il mattino del 22 Novembre 1944, mentre con un altro compagno ero intento a prelevare olio da un camion, improvvisamente sentii una raffica, lì per lì non mi allarmai, ma nell’udirne altre provenienti da posti diversi, capii che eravamo nell’occhio di un grande rastrellamento.
La zona era ormai circondata, immediatamente scappammo e ci portammo sul monte Caio, ove cercammo un nascondiglio.
Trovai rifugio nell’incavo di una pianta secolare e copertomi con delle fascine, passai la notte in quella posizione; faceva molto freddo e nevicava.
Durante tutta la mattinata del 23 Novembre osservai il viavai di pattuglie tedesche che portavano i rifornimenti alle postazioni piazzate nei punti strategici; nel pomeriggio un tedesco notò una camicia rossa con la scritta 47° Brigata Garibaldi e delle fotografie sparse intorno, dato l’allarme, notarono il mio nascondiglio e con le armi spianate mi catturarono.
La motivazione che io do alla presenza di quella camicia è questa: probabilmente, durante la notte i partigiani per uscire velocemente dal cerchio in cui erano caduti, persero o si disfecero di quel materiale che mi fu fatale.
Legato, mi portarono al loro comando, dove il cuciniere, per schernirmi, esclamò:” Tu buono, nix partigiano” cominciando a picchiarmi.
“Beh” pensai, “finché sono pugni e schiaffi niente di male”. Verso sera, mi portarono in paese e, passando tra due file di donne, tenevo gli occhi abbassati per impedire ai tedeschi di scoprire un cenno di riconoscimento.
Fui condotto nella cantina di casa Galvana, di proprietà del sig. Galvani Teodoro, entrato, vidi Morselli di Rovereto e Corino di Fossili, colpiti entrambi da una raffica di mitra, il primo ad una gamba, il secondo al ventre con la conseguente fuoriuscita degli intestini che egli reggeva con le mani; è semplice immaginare la sofferenza e la visione agghiacciante che mi si presentarono. In seguito portarono anche Rossi di Novi Modenese, sicché degli 8 rimasti, 4 fummo presi e gli altri riuscirono a scappare.
Nell’attesa, che per noi significava morte sicura, l’unica e importante mia preoccupazione fu quella di raccomandare ai miei compagni il silenzio più assoluto nei riguardi di coloro che ci, avevano aiutato, dai contadini ai missionari e al parroco.
Fortuna volle che l’unico interrogato fossi io, ciò dovuto ad un errore dei tedeschi, che dal materiale trovato, mi scambiarono per un com.te partigiano.
Quella stessa sera mi interrogarono con il metodo della tortura: la corda con cui erano legate le mani, mi imprigionava anche il collo, quindi mentre essa veniva tirata, rischiavo la rottura delle braccia o il soffocamento.

Andarono avanti così per molte ore, tra percosse di ogni genere, ma, fra continui svenimenti e conseguente gettito di acqua ghiacciata, riuscirono soltanto a sapere il mio nome e indirizzo, non una parola di più.
Vedendo il mio ostinato silenzio mi portarono in cantina, legato mani e piedi, il cappio alla gola, mi appesero ad una trave del soffitto, in modo che le punte dei piedi toccavano un sasso traballante; bastava un piccolo spostamento per rimanere impiccato, riuscii a resistere in quella posizione 14 ore.
All’alba del 24 novembre entrò un sergente tedesco che, meravigliato di trovarmi vivo estrasse un coltello e, tagliando il cappio, pose fine alla mia sofferenza.
Non era finita, tre tedeschi mi condussero ad una trentina di mt sotto il paese; ordinandomi di scavare una fossa per 4 persone, si tornò alla cantina e dopo 15 minuti c.a, io e Morselli fummo riportati alla fossa.
Mentre ci abbracciavamo, un tedesco sparò alla nuca del mio compagno, la pallottola usci dalla sua fronte, sfiorò il mio viso lasciandomi illeso; nel cercare di aggiustare il corpo nella fossa, attesi invano il colpo di grazia, certamente i tedeschi, dopo una dimostrazione pratica, pensavano di riuscire a farmi parlare.
Altre torture e interrogatori, finché, caricato il Corino su un carretto, ci portarono tutti e tre sul luogo della fucilazione.
Un tedesco chiese al Corino, giunto allo stremo delle forze, se era contento di morire e al suo cenno affermativo sfoderò la P. 38 sparandogli due colpi in bocca, poi toccò a Rossi che si trovava alla mia destra, la pallottola lo raggiunse alla nuca e, fuoriuscendo, mi si conficcò nel ginocchio sinistro, lanciai un urlo, gettandomi sugli altri corpi: pienamente cosciente, coricato di fianco con gli occhi chiusi, sentii il rumore caratteristico dell’armamento di un’arma automatica, poi la raffica, forte, tremenda, che mi colpi la spalla sinistra, il braccio e il costato; non emisi alcun grido sebbene raggiunto da 18 proiettili.
“Ero ancora vivo!!” Fu il pensiero delle persone più amate a darmi la forza di fingermi morto, senza mai perdere un attimo di lucidità e salvarmi quindi da una morte sicura per dissanguamento.
A quel punto un tedesco si chinò, mi tastò il polso e disse: “caput”, ci coprirono alla meglio con la terra e se ne andarono.
Cercai di resistere il più possibile in quella condizione, ma, non riuscendo a respirare, con uno sforzo sovrumano, riuscii a scuotermi la terra sul viso e respirare a pieni polmoni.
Dopo il primo attimo di gioia, pensai alle possibilità di salvezza e decisi, se le forze riuscivano a sostenermi, di raggiungere la missione dei frati.
Il percorso che mi divideva dal convento era di circa 2,5 Km., molto duro, perché si doveva scendere a valle e poi risalire, tuttavia riuscii a raggiungere il limite del bosco nonostante il susseguirsi di cadute, svenimenti causati dalla sofferenza e dalla  perdita di sangue.
A questo punto mi venne incontro il cane dei frati, che, nell’intento di festeggiarmi mi buttò a terra, fortunatamente poiché, proprio allora, mi accorsi che una sentinella tedesca piantonava il convento.
Cautamente arrivai sul retro della missione e mi sedetti stremato vicino alla porta secondaria; la sentinella arrivò a pochi metri senza scorgermi.
Mi vide invece un frate, che uscito forse per prendere una pentola, rientrò immediatamente; attesi il momento più opportene e radunate tutte le forze che mi rimanevano, riuscii ad aprire la porta, dopodiché svenni.
Riprendendo conoscenza, mi vidi steso a terra, coperto, circondato da bottiglie d’acqua calda e da una ventina di frati, lì ricevetti le prime cure.
Seppi in seguito che il Padre Superiore dovette prendere una decisione drastica, a causa delle tracce di sangue lasciate lungo il percorso; quindi, pensando di non riuscire a nascondermi, si recò dal Cap. tedesco denunciando la presenza alla missione di un contadino, che, uscito per fare i suoi bisogni, era stato ferito da una pattuglia.
Fortunatamente, il Capitano, facendo parte di un’altra compagnia, era all’oscuro de nostra fucilazione, venne a controllare ma, viste le mie condizioni, non indagò oltre anche perché aveva ricevuto l’ordine di ritirarsi e firmò il permesso per il mio trasferimento urgente all’ospedale maggiore di Parma.
Qui ricevetti le prime vere cure, con l’immediata amputazione del braccio, cure non soltanto materiali ma anche morali perché infermieri e professori condividevano la nostra causa e ci aiutarono nei limiti del possibile.
Purtroppo la mia presenza e quella di altri due partigiani fu scoperta dalle brigate nere e dai tedeschi, che aspettavano la nostra guarigione per riprenderci; anzi un giorno vennero per riprenderci comunque, ma il primario riuscì con un secco rifiuto a fermarli.
Per quaranta giorni fummo piantonati. Una notte suonai per chiamare l’infermiere ma non si presentò nessuno, il mattino successivo arrivarono, come facevano spesso mia cognata e la mia fidanzata (oggi mia moglie) dicendomi di provare a camminare. Che cosa era successo?
Nella notte i partigiani, arrivati a bordo di un camion, avevano occupato l’ospedale, catturato i tedeschi, rinchiuso come d’accordo, il personale ospedaliero avevano portato in salvo i due partigiani.
Io usci dall’ospedale travestito da vecchia: caricato su un carrettino, si prese la via di casa ma giunti nei pressi di San Polo d’Enza, sul ponte che attraversa il fiume omonimo, c’era un posto di blocco tedesco. Come passare? Altro colpo di fortuna: in quel momento gli aerei alleati mitragliarono il ponte costringendo i tedeschi a ripararsi, dandoci quindi la possibilità di proseguire e arrivare finalmente a casa. Era il 6 Gennaio 1945!
Appena in grado di camminare, ripresi il mio posto a fianco dei partigiani fino alla Liberazione».

oooOooo

Cattura di alpini rimasti poi con la Resistenza o tornati a casa.   

Oltre ai racconti delle diserzioni riportati sopra, abbastanza bene articolati perché ripensati e scritti negli anni settanta in vista di una “Storia della Coduri”, che poi come già detto, sfociò nell’opera di Amato Berti e Marziano Tasso «Storia della divisione garibaldina CODURI», vi sono anche diverse storie di alpini catturati dai partigiani che poi hanno volontariamente scelto di rimanere con la Resistenza oppure tornarsene a casa con un lasciapassare partigiano. Di seguito se ne riportano soltanto un paio.

 1)- Cattura del sottotenente della Monterosa Dante Verde (n. 1921 a Bergamo). Il 16 settembre, presso Velva (sulla provinciale Sestri Lev. – Varese Ligure), Riccio cattura l’ufficiale di cui sopra. Condotto al comando di distaccamento, su richiesta del comando Regionale e della Cichero viene sottoposto a processo ed è assolto perché a suo carico non risulta nulla di compromettente. La parola passa ora a Saetta [dal suo libro “Il cammino della Libertà, Ed De Ferrari, Genova, 2005] : «S. Tenente Dante Verde, Dan, da Bergamo. Ingegnere, Ufficiale della Monterosa veniva catturato nei pressi di Velva. Durante gli interrogatori al Comando, continuava imperterrito a riaffermare la sua fedeltà agli ideali che lo avevano portato ad aderire alla Repubblica di Salò. Dopo lunghe discussioni, compreso gli ideali che ci guidavano chiedeva di essere armato per entrare a far parte della nostra formazione. Mi venne assegnato quale Vice comandante di Distaccamento. Dopo il combattimento della Gattea (del 30.12.1944 dove persero la vita 7 partigiani e 16 furono catturati n.d.a.) chiese, ed ottenne, di passare il fronte.

Ma l’amicizia tra Saetta e Dan dura ben oltre la Liberazione, e il 26.6.1945 Dan scrive la seguente lettera a Saetta:

Bergamo, 26-6-1945
Carissimo Saetta. Ieri ho visto a Bergamo Virgola, Colombo e altri, venuti qui per il funerale di Zelasco. Non puoi credere quanto sia stato contento di rivedere i vecchi amici, speravo di rivedere pure te. Virgola mi disse che ti sei comportato molto bene.
Bravo, ero sicurissimo che tu ti saresti comportato cosi perché sei sempre stato uno dei migliori. E ora che fai? Mi dicono che te la spassi a Chiavari […]. Io invece mi trovo ancora sotto la «naia». Infatti dopo che ci lasciammo in gennaio, tentai di attraversare il fronte assieme a Vela e a Viola. Dopo molte peripezie e pericoli (fummo infatti due volte in pericolo di essere presi dai tedeschi) riuscimmo a raggiungere la linea alleata e qui, mentre Viola e Vela venivano rimessi in marina, io venivo arruolato di nuovo nell’esercito e inviato subito a Vergate sul fronte di Bologna dove mi fermai fino alla presa della città stessa.
Ora mi trovo da alcuni giorni in licenza, ma il 28 dovrò rientrare al corpo. Avevo pensato di ritornare a Bologna passando per la Riviera, così avrei potuto rivedere tutti, ma sono stato sconsigliato poiché dicono che da Chiavari è difficile avere un mezzo di trasporto per Bologna.
Salutami Scevola, Naccari, Cid. Bel Amì, Palumbo e tutti gli altri. Dì loro di scrivermi. Spero di venire presto a Chiavari a rivedervi.
Scrivimi presto e a lungo e fammi sapere come sta Fernanda. Tanti saluti a tutti e un abbraccio a te. Dan

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2)- Cattura di 10 alpini da parte di Riccio (allora Com.te di un distaccamento della Coduri dislocato a S. Maria di Maissana). [V. pag. 201 e segg. de “Ne è valsa la pena” di Aldo Valerio “Riccio”, Genova 1983, op.cit.]. Metà ottobre ’44. Riccio viene a conoscenza che nella notte due carrette della Monterosa, scortate da 10 militari, effettueranno un trasporto dal presidio del Bargonasco a Bargone. Decide di agire. Tra i suoi sceglie 8 volontari [Nero (Augusto Nicolini n.1910 a Sestri Lev.), Gomel (Alfredo Nadotti n. 1923 a Sestri Lev.), Nelson (Ermes Piccinini n. 1921 a Parma), Bios (Luigi Latiro n. 1925 a Sestri Lev.), Ulisse (Francesco Basso n. 1925 a Imperia), Zarro (Prismano Spadda n. 1924 Francia), Pepè (Jean Civaudan n. 1924 Francia) e Piero (Piero Paris n. 1925 a Bergamo)] e va ad appostarsi in una curva lungo la strada che sale verso Bargone. Dispone l’agguato e attende. Il gruppo degli alpini alla fine appare. Lui salta con il mitra spianato davanti alla piccola colonna e intima la resa, mentre i suoi uomini si alzano dai loro nascondigli con le armi puntate. A questo punto gli alpini, vedendosi circondati, si arrendono e consegnano ai partigiani quanto in loro mani: armi, munizioni, quadrupedi e altro materiale bellico. Le due carrette verranno gettate lungo un declivio perché di nessuna utilità per i partigiani che percorrono solo sentieri e mulattiere. Senza aver sparato un colpo, i partigiani rientrano  al mattino in formazione carichi di bottino e con 10 prigionieri.           

3)- Assalto alla caserma del Bargonasco con la cattura di 55 alpini, effettuata sempre da Riccio a meno di 24 ore dall’azione punto 2. [V. pag. 209 e seg. de “Ne è valsa la pena” di A. Valerio “Riccio”, Genova 1983, op.cit.]. Riccio, venuto a conoscenza che nella caserma del presidio della Monterosa ubicato nel Bargonasco vi sono presenti una cinquantina di alpini, a meno di 24 ore dall’azione di cui al punto 2, decide di tentare una sortita per sorprenderli. Indossa una divisa delle C.N., sceglie altri 8 volontari e scende verso il Bargonasco. Utilizzando uno degli alpini catturati il giorno prima per distrarre la sentinella, Riccio bussa alla porta della casermetta e appena gli viene aperto irrompe, mitra spianato, dentro intimando la resa. Gli alpini, presi di sorpresa, obbediscono. Erano in 55. Dopo aver raccolto armi, munizioni e altro materiale bellico, i partigiani rientrano alla base. In seguito molti di questi alpini chiesero e fu loro concesso un lasciapassare partigiano per tornarsene a casa. Della squadra di Riccio fanno parte, oltre agli 8 visti sopra: Monti (Domenico Ceresola n. 1909 a Maissana), Alce (non meglio identificato), Attila (Vinicio Muraro n. 1924 a Stienta/RO), Cervinia (Enrico Jaquenet francese), Talpa (Pietro Romano n. 1925 a Castelvers.), Pentolino (Emilio Merciari n. 1925 a Missano/GE), Duca (Domenico Bertolone n. 1920 a Castiglione Chiavarese). 

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Ma i comandi della Monterosa sono fortemente contrariati da queste continue defezioni e dai continui attacchi portati dai ribelli. Sentono che la loro autorità sta incrinandosi e decidono di reagire. Coadiuvati da truppe tedesche e dalle B.N., pochi giorni dopo iniziano un poderoso rastrellamento con l’intento di accerchiare la Coduri e annientarla. E così salgono da varie direzioni verso i rifugi partigiani. Il primo ad essere attaccato è Riccio che non si lascia però sorprendere perché, con i suoi, è bene appostato sul M. Zanone e accoglie i circa 300 nemici con raffiche di mitragliatrice, e altre armi. Colti di sorpresa, i militari della RSI sono costretti alla ritirata lasciando sul terreno diversi morti e feriti, e molte armi e munizioni. Riccio non subisce perdite. Tra i suoi uomini erano presenti anche gli alpini del gruppo bergamasco, da poco giunti in montagna, che si batterono senza alcuna esitazione, quantunque, per ragioni di prudenza [infatti era uso, verso i nuovi arrivati, sottoporli a un periodo di osservazione prima di concedergli piena fiducia. n.d.a.] Riccio avesse ordinato a “Duca” (Bertolone Domenico n. 1920) di piazzarsi alle loro spalle, e in caso di tradimento non avere alcuna pietà di sparargli addosso.

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18 settembre 1944. (Dal libro di M. Bertelloni e F. Canale “Cosa importa se si muore”, pagg. 201/202, RES Editrice, 1a ed., Milano 10/1992): «Lunedì, 18 – Inizia la sua attività il tribunale di guerra della Monterosa. Presidente-relatore il tenente colonnello Cesare Tobia D’Antonio, pubblico ministero il sottotenente avvocato Attilio Beltrametti; cinque i giudici. L’avvocato Emilio Furnò, sottotenente commissario del corpo militare della Croce Rossa in servizio presso l’ospedale numero 66 Cri, funzionante a Chiavari sin dall’inizio della guerra, è chiamato ad assumere le funzioni di difensore. È stimolato a questo incarico da Beltrametti (che ha moglie israelita ed un figlio staffetta in una formazione partigiana del savonese) ed anche da Rolando Perasso, laureato in giurisprudenza, sottotenente di vascello, medaglia d’argento al valor militare, che rappresenta il partito d’azione in seno al CLN chiavarese.
L’amicizia tra i tre si fa stretta, ne nasce logicamente un’attività squisitamente umanitaria, diretta a strappare alla pena di morte il maggior numero possibile di persone. Ai tre si uniranno successivamente altri due ufficiali della Monterosa: il maggiore prof. Giovanni Trucco di Torino ed il perito industriale Cesare Bertucelli di Genova.
L’avvocato Furnò presterà per la prima volta la sua opera nell’udienza del 4 novembre, assumendo la difesa di quattro alpini, tra cui un ufficiale, imputati tre di diserzione ed uno di violazione di consegna. Parteciperà in seguito a quasi tutte le udienze, fino all’ultima, quella del 18 aprile 1945. […] L’ufficio di polizia militare, costituito e diretto dal tenente Mario Cristiani, agisce per proprio conto; non ha alcun rapporto con il tribunale. La fucilazione di diversi partigiani è autonomamente disposta dai comandi militari collegati con l’ufficio di Cristiani che ha la sede principale nelle carceri di Chiavari».

Dall’analisi della documentazione relativa al Tribunale di guerra della Monterosa, che ho potuto consultare, si evince che: nel periodo della sua attività, tra il 18.09.1944 e il 18.04.1945, il tribunale si è riunito in udienza 49 volte; giudicato 466 imputati; inflitto 34 condanne a morte tra cui 23 alpini disertori (4 contumaci), 1 marò disertore e 10 partigiani d’altre provenienze. Dei rimanenti 432 processati: 325 sono i disertori di cui 40 gli assolti, 49 i rinviati a giudizio in altra data e 236 i condannati a pene detentive varianti tra i 30 e i 15/17 anni. Gli altri 107 imputati: 101 sono militari con reati di vario genere (furto, omicidio colposo ecc.) alcuni assolti e altri condannati a miti pene detentive; 6 i civili (ricettazione, o furto, o istigazione alla diserzione) assolti o condannati a multe o a brevi periodi di carcere spesso con differimento della pena. Non manca il caso curioso: nell’udienza del 20.02.1945 un alpino della classe 1925, nativo di Genova, viene condannato a 1 anno e 6 mesi di reclusione militare con differimento della pena per “denigrazione guerra”. 

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All’incirca nello stesso arco di tempo, per la Monterosa, avviene anche il trasferimento in Piemonte di tre dei suoi battaglioni: il btg Tirano da Sestri Levante a Cesana (Monginevro), dove dà il cambio ai tedeschi su un fronte alpino che si estende da Claviere al M. Chenaillet; il btg Bassano da Rapallo alla Val Varaita/Val Maira, con sede del comando a Casteldelfino. Compito di quest’ultimo btg è il controllo, sul confine francese, del valico di San Veran e del Colle dell’Agnello. Ai due btg suddetti, si aggiunge il 3° gruppo artiglieria “Vicenza”, trasferito da Leivi al Colle della Maddalena, in Valle Stura, con comando ad Argentera d’estate e a Sambuco d’inverno.

Ma anche in queste nuove dislocazioni, per la Monterosa, oltre agli scontri con i francesi, proseguono le diserzioni e la lotta contro le formazioni partigiane. Molte fonti (anche ex RSI) valutano, per questo periodo, percentuali di diserzioni che si aggirano sul 5% e superiori. Di seguito si trascrivono due testimonianze dirette che illustrano che anche durante il trasferimento dei reparti si ebbero diserzioni, o, per quanto, si tentarono:

 1a Testimonianza) – Il tentato ammutinamento del Btg. Bassano: «L’assassinio, o l’esecuzione, è anche la fine dell’autunno, [26 settembre 1944 n.d.a.] il principio  dell’inverno. Si parte [da S. Margherita Ligure n.d.a.], si va in montagna. Forse hanno smesso di aspettare l’invasione dal mare […]. Non è lontana, Genova, dal passo della Maddalena. […] Ma allora la geografia dei luoghi mi era molto confusa, né ce la spiegavano i nostri superiori, sicché tutto era più o meno nel mistero. […] Ho alcuni ricordi. Il più vero, il più duro, il più certo, quello che avrebbe davvero potuto e dovuto rompere la membrana della bolla di sapone che racchiudeva la fiaba in cui, travestito da alpino, stavo vivendo, e farla scoppiare, è successo in una stazione, alla partenza, credo, proprio da Genova, l’inizio del viaggio. […]
«È stato uno degli ufficiali a cui volevo bene, a sangue freddo. Con la pistola. Non l’ho visto, l’assassinio, me lo hanno raccontato, o credo di ricordare di aver visto, l’assassinato, un ragazzo disteso per terra con un cartello al collo dove era scritto che aveva incitato gli alpini alla diserzione.

[…] Di questo episodio tragico, notturno, non ci sono, naturalmente fotografie né disegni. Ma c’è, nell’album, scritto con l’inchiostro bianco sulla carta azzurra, con la mia calligrafia di allora un po’ infantile, anzi ingenua, scritto, naturalmente, dopo il mio ritorno a casa, quello che adesso ricopio, nei caratteri senza carattere del mio computer:
«E dopo aver preso il treno [a Genova,  n.d.a.] si arriva ad Asti.
E qua ci sarebbe da raccontare la strana storia, ma neanche tanto strana in fondo, di un battaglione che voleva scappare, era tutto pronto, i muli, i viveri, quelli che dovevano ammazzare gli ufficiali, i partigiani sull’altra riva, e invece è arrivato Firmian (comandante della compagnia, l’8a, più nota da noi per la battaglia di Allegrezze contro i partigiani di Silvio Solimano (Berto, n.1925) Medaglia d’Oro alla Memoria, che in questa battaglia rimase ucciso e lasciato sull’asfalto per svariato tempo, n.d.a.) zoppicando, con il bastone e la gambetta zifolina, ha detto un po’ di cose, ha detto che chi lascia la sua strada, quella che ha scelto una volta, non ne ritrova nessuna, e, non so ancora come, siamo ritornati al treno, cantando Bassano Bassano l’eroico battaglion.
E così siamo venuti via da Asti, e ad Asti è rimasto solo un partigiano con una palla in testa, un cartello sul petto, e un sorriso sul viso di terra». 

[Da Franco Panizon, op. cit. pag. 49/50. L’autore, triestino (n. 1925), laureato in medicina, docente e poi direttore di clinica pediatrica, dopo il pensionamento si dedica alla pediatria nei paesi poveri, in Africa e in Afghanistan. Da sempre impegnato in politica, è stato anche Consigliere comunale e a lungo ha fatto parte della Commissione Sanità del PDS triestino, n.d.a.]. 

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2a Testimonianza – Settembre 1944: dal diario online del cplm. Peloni Erminio della Monterosa, btg Tirano, più volte citato:

7 giovedì: 9.30 preparare lo zaino, si parte per non si sa dove 12.30 rancio, consegna munizioni 22.30 si lasciano le postazioni al BTG. Bassano [dove poi subentrerà il btg Morbegno, n.d.a.]. Adunata la compagnia a S. Bartolomeo [Fraz. di Sestri Lev,. n.d.a.], si pernotta nella campagna dietro la chiesa in attesa degli autocarri.

8 venerdì: sempre si aspettano gli autocarri. Di notte Pippo continua a girare, lancia bombe su Sestri Levante.

9 sabato: 7 9.30 arrivano gli autocarri, partenza, Chiavari 10 alt. 11 partenza, Rapallo 12 alt. Rancio a secco, galletta e carne 18.10 partenza, Genova 19,30 20.30 alt. inizio autostrada 22.30 partenza.

10 domenica: 3 alt a Pioverà [probabile Piòvera (AL), n.d.a.], riposo in un bosco, libera uscita, molti scappano.

11 lunedì: 3 partenza, Asti, Rivoli, vicino a Torino 7.30 a Pinerolo, alt 11 partenza per la Val Chiose, Sestriere, arrivo a Cesana 15 in caserma 18.30 adunata comp., il Ten. Com. parla (50 disertori, farsi coraggio).

12 martedì:  8 si prepara lo zainetto e si consegna lo zaino al magazzino 12 rancio 19 adunata comp. armati equipaggiati. La 12a comp. riceve l’ultimo saluto del Com. e parte (19.30) da Cesana per la strada del confine che porta a Claviere ma dopo 1500 m si prende la strada di sinistra che porta a Cresta Rascia. E’ subito notte, la strada sale sempre più, le soste sono frequenti sebbene lo zaino non pesi molto. A mezzanotte sosta al bivio di Rocca Clary in attesa del carro con i mortai.

13 mercoledì: 4.30 i mortai non arrivano. Si cammina ancora per andare in postazione su Rocca Clary. La notte si è fatta buia con la nebbia si sale faticosamente per il sentiero delle nostre postazioni 6.30 si arriva finalmente alla baracca, i tedeschi che devono dare il cambio dormono ancora. Comincia a piovere nella baracca, il tetto gocciola, si allaga il pavimento. Ricevute le consegne, si prende posto nelle brande. Siamo più di 40 nella baracca tra mortaisti e nucleo comando e telefonisti. Pomeriggio si mettono in postazione i mortai, piove.

[La lettura di questi ricordi ci conferma l’idea di quale fosse lo spirito che serpeggiava all’interno dei reparti alpini. Il sentimento di lasciare tutto e fuggire, o verso casa o per rifugiarsi nei partigiani, era abbastanza presente, specialmente tra la truppa, pur non raggiungendo, molte volte, quella forza risolutiva necessaria per spogliarsi della ventennale retorica che allora quasi tutti i giovani si portavano dentro. Ma dimostra altre cose, che all’interno dei reparti esisteva sempre qualcuno che esercitava attenta propaganda per mantenere viva la possibilità di disertare. E possedeva i giusti contatti con fonti esterne vicine alla Resistenza, alle quali chiedere appoggio, ma, soprattutto, quanto fosse rischiosa questa loro attività. E quante fossero le spie e i delatori presenti tra i reparti della Monterosa, n.d.a.]. 

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3)- Omero Ciai “Maitardi” nato a Roma il 7/7/1922 e caduto a Sestri Levante (GE) il 6 febbraio 1945. Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Alpino provetto (una via, sul Gran Sasso, tracciata da lui, porta infatti il suo nome) e studente alla facoltà di ingegneria dell’Università di Roma, dopo l’8 settembre 1943 smette di frequentare la facoltà e si impegna a condurre in salvo prigionieri inglesi fuggiti dai campi di concentramento. Per questo decide di raggiungere la Valle d’Aosta per unirsi ai partigiani di quella zona. Poco dopo, Ciai, alla frontiera con la Francia, cade in mano ai tedeschi. Deportato in Germania, in un campo di concentramento per militari, si arruola nella Monterosa con l’intento di disertare appena tornato in Italia. Giunto in Liguria, alla prima occasione utile lascia la Monterosa e si aggrega ai partigiani della div. Coduri divenendo vicecomandante e C.S.M. della Brg “Dell’Orco”. Nascosto presso amici di Sestri Lev. per poi recarsi in licenza (in seguito all’editto di Alexander, molte formazioni, per sfoltire i ranghi in quanto gli Alleati avrebbero cessato gli aviolanci e quindi smessa ogni assistenza diretta ai partigiani, furono inviati in licenza volontaria per rivedersi in primavera) decide, malgrado il dissenso di molti suoi compagni, di andare a parlare, per convincerli a disertare, con un gruppo di suoi ex commilitoni di guardia al posto di blocco presso il vecchio ponte sul Gromolo nel centro di Sestri Levante. Avvicinato il gruppo, ne nasce quasi subito un vivace alterco che si trasforma presto in scontro a fuoco perché anche Ciai era armato di pistola e tentò in qualche modo di difendersi. Ma sopraffatto, venne colpito e il suo corpo abbandonato lungo l’attuale Via Sertorio, dove in seguito fu recuperato dagli amici. A fine guerra la sua Università gli conferirà la laurea ad honorem in Ingegneria.

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4)- A questo punto non si possono tralasciare altre due fucilazioni di alpini: quella di Arturo Arosio “Aquila” nato il 24/5/25 a Lissone (MI); e quella di Emanuele Giacardi “Tarzan” nato il 7/11/25 a S. Maria del Tempio (AL) avvenute il 18/3/1945 in località Villa Pino di S. Margherita di F.L. (Sestri L.). Il 1°, ex alpino della Monterosa confluito nella Centocroci, fu catturato durante un rastrellamento e si trovava nelle carceri di Chiavari per scontarvi una pena di 30 anni di carcere per diserzione. Il 2°, disertore della Monterosa confluito nella Coduri, anche lui catturato durante un rastrellamento, era nelle carceri di Chiavari in attesa di giudizio. Ma cinque giorni prima la loro esecuzione (il 13/3) vicino al luogo dove le B.N. della brg Silvio Parodi di Genova li fucilarono (non senza inumane e prolungate sevizie), in una normale azione di guerra con i partigiani [così definita anche dal Tribunale che nel dopoguerra giudicò il partigiano “Succo” autore dell’azione] rimasero uccisi un tenente della X Mas e suo padre che intervenne in aiuto al figlio. Il tribunale di guerra della Monterosa, per rappresaglia, condanna loro due e altri 4 partigiani alla pena capitale mediante fucilazione alla schiena. Gli altri condannati erano: Giuseppe Barletta, Luigi Marone, Mario Piana e Alessandro Sigurtà. Mario Piana, creduto morto, al momento rimase solo gravemente ferito, ma morirà in seguito per le ferite e le sevizie subite in quel tragico frangente. Sul luogo del martirio, i condannati giunsero in autobus accompagnati da padre Illuminato, cappellano delle carceri di Chiavari.

[Padre Illuminato, figura molto enigmatica e collaborazionista sfegatato della RSI, inviso a tutta la popolazione per le sue inumane crudeltà inflitte ai prigionieri del fascismo che gli capitavano sotto mano, nonché cappellano delle carceri di Chiavari e correo di molte delazioni e fucilazioni di partigiani, e alla fine della guerra fu processato e condannato in contumacia a 30 anni di reclusione, ma non fu mai più ritrovato dopo essere sfuggito, usando un espediente, dalle mani dei partigiani che l’avevano catturato il giorno 1° aprile 1945 e che lo stavano conducendo al Comando della Coduri per le dovute conseguenze del suo tristo e durevole comportamento, n.d.a].

    Anche di questo martirio serbo viva memoria, perché anche qui le fucilazioni avvennero a meno di un chilometro da casa mia. Non ho potuto vedere né le salme dei caduti né assistere direttamente alle fucilazioni, perché noi ragazzi in precedenza siamo stati cacciati indietro dalle BN, che nei paraggi erano diverse centinaia, se non migliaia, quel giorno; e poi da coloro che dopo che le BN s’erano allontanate accorsero per ricomporne e recuperarne i resti. Ma deve essere stata una cosa orribile, perché raccontavano che i condannati erano stati in precedenza bruciacchiati su tutto il corpo, compresi gli occhi, le mani e il viso, con dei mozziconi di sigarette accesi. Ad alcuni erano state strappate anche le unghie… e via di questo passo. Il tutto svolto alla presenza di padre Illuminato. Ma prima di allora io non avevo mai visto piangere insieme tanta gente in modo così irrefrenabile. Alcuni dei fucilati erano giovani conosciuti in zona, e forse la cosa aveva maggiormente colpito tutti quanti. C’era anche chi bestemmiava, chi malediceva specialmente il frate: insomma, una cosa indescrivibile.

Del giorno dell’eccidio, personalmente mi ricordo più della moltitudine di C.N. radunate lungo via Fabbrica e Valle, dove allora abitavo. Era una fila interminabile che io vedevo da seduto sull’uscio di casa mia ubicata su un rialzo di circa una ventina di metri rispetto al livello strada, e a una distanza  di non più 100/120 metri in linea d’aria. Da lì vedevo solo le loro teste che spuntavano dal muro di cinta, alto circa 1,5 metri, di una proprietà di cui anche noi eravamo affittuari. Io guardavo loro e loro guardavano me. Poi qualcuno si mise a fare boccacce nella mia direzione, qualche altro alzò il fucile in alto e lo roteò più volte. Non avevo paura, ma la cosa m’impressionò molto. Mia madre, che era in casa, se n’accorse e bruscamente mi richiamò dentro. I militi rimasero lungamente, però, fermi lì e poi, dopo ore, se n’andarono. Poi giunse la notizia dell’eccidio. Tutto si mise a roteare intorno a me. E nella mia testa tutto si fece confuso. Ma anche negli altri, nessuno sembrava sapere bene cosa fare. Piangere e imprecare, questo sì. E anche maledire.

Ma la scena che ho più impressa in mente è stata quella in chiesa, il 24/3/45, durante i funerali del militare della Xa MAS e di suo padre, persone molto conosciute in zona. La chiesa era, dentro e fuori, stracolma di persone del luogo, ma soprattutto di militi della Xa e di B.N. armati fino ai denti. Al centro della chiesa c’era una specie di corridoio lasciato libero dove sostavano i loro capoccioni, anch’essi armati. Ma il personaggio che più mi colpì era padre Illuminato, vestito da frate che ogni tanto, scrutando in alto ogni angolo delle pareti e della volta della chiesa, batteva col calcio del fucile sul pavimento e mormorava, abbastanza forte da farsi udire, grosso modo questa frase: «Chissà quanti partigiani saranno nascosti qua dentro!». La frase l’hanno riportata in molti, specialmente donne che erano sedute nel vano centrale della chiesa, molto vicine a dove si trovavano e parlottavano tra loro i capoccioni. Ma la cosa che colpì di più l’immaginazione di noi ragazzi era quel frate, di cui tutti già sapevamo e di cui tutti parlavano: armato, che andava in giro a maltrattare e a fucilare i partigiani. Tutto l’insieme fu comunque una cosa assai penosa, sia la funzione in sé sia per la gente che, impaurita e molto scossa, non sapeva bene come comportarsi. Almeno così m’era parso allora.

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Tre diserzioni collettive. Per quanto concerne le diserzioni, esse continuarono ma a ritmi variamente diversi a seconda dei periodi. Infatti, nel settembre e nell’ottobre ’44, altri grossi contingenti della Monterosa furono spostati dalla Liguria nella Garfagnana. Di conseguenza la Monterosa fu, in certo qual modo, costretta a mutare tattica. E in maniera assai poco militare, incominciò a frazionare i suoi organici in piccoli presidi, lontani tra loro e quindi più facili preda delle più mobili unità partigiane. Ciò che favorì anche il passaggio di interi reparti alla Resistenza. E per il fatto psicologico di sentirsi forse sconfitti, troppi isolati e abbandonati a sé stessi, spesso tali allontanamenti venivano organizzati dall’interno, dagli stessi ufficiali e sottufficiali. E qui (anche se non avvenute nella zona strettamente controllata dalla Coduri, ma ai suoi margini) non si possono non menzionare tre significative diserzioni collettive: a)- A settembre ’44, durante un’offensiva dei partigiani che attaccavano i presidi isolati della Monterosa e la città di Varzi, una compagnia del btg Brescia schierata a Marsaglia, e il suo comandante, si consegnarono ai partigiani della brg Capettini. b)- Ancora a settembre, la 2a compagnia del btg Brescia, dopo uno scontro con i partigiani, si unisce a questi. c)- E poi, a novembre, la diserzione più clamorosa. Un intero btg della Monterosa, il Vestone, dislocato a Gorreto, in Val Trebbia, col compito principale di mantenere libere le vie di comunicazione e di rifornimento tra la costa ligure e la Val Padana attraverso i Passi della Scoffera, Bocco, Madonna delle Nevi e Cento Croci, nella notte tra il 3 e il 4 novembre 1944, passa, completo di armi ed equipaggiamento, ai partigiani della 3a div. Pinan Cichero. Meno un esiguo numero di alpini che scelsero di rientrare alla loro base.

Ma successivamente, a causa dei grandi rastrellamenti invernali di dicembre, gennaio e febbraio che sottopongono i partigiani ad una notevole pressione militare, creano un notevole rallentamento nelle diserzioni. Specialmente in Liguria, dove alcune unità alpine, come visto, sono state traslocate in Piemonte e in Garfagnana. E poi era anche intervenuto l’editto di Alexander a indebolire nel credo e nella fiducia l’intero arco resistenziale. Ma nei mesi primaverili di marzo e aprile, con la presa d’atto che i partigiani avevano brillantemente superato il periodo forse più nero della loro storia, se ne ha un poderoso risveglio. Infatti molti alpini, sia a gruppi sia isolati (ma questo non tanto e non solo in Liguria), si lasciano letteralmente prendere o si arrendono alla prima occasione che capita loro di entrare in contatto con i partigiani, o con truppe alleate. Per concludere, anche se i dati al riguardo sono un po’ ballerini, da molte parti si stima che, a fine guerra, nel complesso i disertori della Monterosa siano stati circa 1/5 del suo organico iniziale, che era circa di 19.500 uomini. Anche G. Pansa, a pag. 225 del suo libro “Il Gladio e l’Alloro” Ed. Mondadori, 1991, afferma che al 21 aprile ’45, la consistenza della Monterosa si aggirava sui 10.000 uomini. Mancavano all’appello circa 9.500 tra disertori, morti in combattimento, catturati, esonerati per malattia, o altre cause, ecc.

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Per quanto concerne invece la zona in cui agiva la Coduri, se le diserzioni continuarono fino alla fine del conflitto (con punte massime nei mesi di settembre e ottobre 1944); le fucilazioni ebbero, per converso, un forte decremento. Infatti, come già accennato, il 18/9/1944 entrò in funzione, a Chiavari, il Tribunale di guerra della Monterosa, che a poco a poco incominciò a punire i reati di diserzione (dov’era sempre prevista nei codici militari la pena capitale) con pene detentive piuttosto pesanti, ma che lasciavano, per il futuro, spiragli di speranza nel caso le cose fossero mutate.

Ma in fondo qual era lo sprone che induceva questi giovani ad affrontare tanti pericoli per abbandonare la RSI alla quale avevano, in qualche modo, aderito? I più autorevoli storici hanno formulato svariate ipotesi, tutte valide e tutte condivisibili, e che, zumando sui casi visti più sopra, si è portati a sposarle quasi tutte per intero:

1)- Per quanto riguarda le reclute del ’23 ’24 e ’25, nonché molti richiamati delle leve precedenti (tipo Zelasco, per le reclute, e Algini per i richiamati)  si erano arruolati nella RSI solo per sottrarre loro stessi e la loro famiglia alle pesanti sanzioni emanate a più riprese dal fascismo e dirette non solo verso i disertori e i renitenti ma anche contro i loro famigliari.

2)- I militari italiani (specialmente se di truppa) fatti prigionieri dai tedeschi subito dopo l’8 settembre e rinchiusi nei lager nazisti, oppure quelli a cui, appena catturati sui vari fronti viene proposta l’alternativa o aderire alla RSI o essere internati in Germania, la maggior parte vi aderisce per opportunità: per non andare a morire di stenti in un lager nazista, ma per nutrire ancora una minima speranza di rientrare presto in Italia, come viene loro promesso, e vedere in seguito il da farsi. La gran parte degli ufficiali, invece, aderisce perché in qualche modo legata ancora al fascismo e ai suoi fatiscenti ideali. Ma molti anche per lo stipendio, che per l’epoca, non era poi così male; anche se di molto inferiore a quello delle B.N. e degli arruolati nell’organizzazione Todt.

3)- Poi vi è una buona parte di giovani che aderiscono solo perché non conoscono altra alterativa o non trovano nessuno che prospetti loro soluzioni differenti (in proposito: Giovanni Benetti “Betti”, ivi, link 11). Infatti le bande partigiane, in molte zone, non avevano ancora raggiunto quella consistenza che potesse, come rifugio, farle preferire ad altre soluzioni.

4)- Infine, coloro che credevano fermamente in Mussolini e nessuno avrebbe potuto smuoverli da queste loro idee.

Se poi si volesse sintetizzare la questione attraverso i numeri, la cosa risulterebbe, in quanto a precisione, piuttosto complicata, perché la conta dei partigiani combattenti della Coduri (intanto si precisa che per legge tale qualifica poteva essere attribuita soltanto a coloro che entrarono nelle formazioni prima del 21 gennaio 45, salvo motivate eccezioni, i successivi potevano essere solo classificati patrioti) anche se attenta e scrupolosa fu completata solo a guerra finita. Infatti solo in data 17 maggio 1946 i Quadri della Coduri, tra cui Virgola, Leone, Naccari, Miro, Saetta, Riccio, Scoglio e un membro della Commissione Accertamento Riconoscimento Qualifiche Regionale, licenziano un  Verbale (di cui copia è depositata presso l’ILSREC di Genova) dove si attesta che i partigiani della Coduri appartenenti al Comando di Divisione della Coduri erano 41; i Caduti 55; i Mutilati 13; gli stranieri 2. Gli appartenenti alla Brigata “Zelasco” erano: 208 i partigiani, e 24 i patrioti. Gli appartenenti alla Brigata “Longhi” erano: 165 i partigiani, e 68 i patrioti. Gli appartenenti alla Brigata Dell’Orco erano: 198 i partigiani, e 52 i patrioti. E i Sapisti appartenenti a squadre dipendenti organicamente dal Comando Divisione, erano 153, per un totale complessivo di 977 effettivi. Tra i quali figurano: 89 ex alpini Monterosa; 6 ex Kriegsmarine; 9 ex bersaglieri; 1 ex carabiniere; 1 ex GNR e 1 ex Legione Straniera, per un totale di 107 effettivi, corrispondente a circa il 10,9 % della forza riconosciuta. Un numero decisamente inferiore ai fuoriusciti dai ranghi della RSI stimabile attorno alle 350/450 unità. Molti di costoro infatti, in seguito all’abbandono, scelsero la strada di casa o militarono in altre formazioni partigiane più vicine ai loro paesi d’origine, oppure si arruolarono (non pochi i casi) in altre unità o enti della RSI o della Wehrmacht  (tipo GNR, organizzazione Todt, ecc.). Và comunque detto che dopo la Liberazione, molti hanno scritto ed elevato tale forza a 1500 unità. Anche loro sono molto prossimi al vero, ma si deve anche dire che i conteggi, in genere, non devono tener conto delle adesioni dell’ultima quindicina di giorni: che in questo periodo, per tutte le formazioni furono sicuramente ingenti, ma che nella maggior parte dei casi sono state anche incontrollabili e incontrollate e non riconosciute, poi, dalla Commissione Regionale Riconoscimento Qualifiche.
Sull’argomento, l’unico documento in data precedente al Verbale di cui sopra, che si è potuto consultare, è quello depositato, anche questo, presso l’Istituto Storico della Resistenza della Liguria, ma riguarda non la Coduri ma la Centocroci. Infatti, in data 27/10/1944, l’Uff. Matricola della Centocroci attestava che i Patrioti che militavano in essa, ex appartenenti a Reparti Repubblicani, ammontavano a 91 unità, di cui 78 della Monterosa e 13 appartenenti ad altri corpi (S. Marco, G.N.R. ecc.). Considerando quindi che la Coduri, in quella stessa epoca constava di circa 400 effettivi, mentre la Centocroci si aggirava sui circa 300, e in quanto agenti entrambe le formazioni, in territorio pressoché analogo, si può ragionevolmente ritenere che allora nella Coduri militassero circa 125 ex appartenenti all’esercito RSI, di cui circa 100 ex Monterosa.                                   (e.v.b., marzo 2013).