Giovanni “Betti” Benetti in una foto che lo ritrae prima della vicenda narrata.

Fasc. 40 Doc. 8: by Elio V. Bartolozzi – Giovanni Benetti partigiano “Betti” (19.4.1923 – 25.12.2007) di Carpi (MO): alpino della Monterosa passato alla Resistenza arruolandosi nella Coduri, che catturato e condannato due volte a morte riuscì a salvarsi. Trascrizione della registrazione fatta il 15.09.1977 allo stesso Benetti, da Minetti Antonio “Gronda”, per la “Storia della Coduri”.


Il racconto completo di questa vicenda è compreso in un libro autobiografico del Betti “Memorie di un sopravvissuto” a cura di Mariagiulia Sandonà, edito a Carpi nel 1992, dove sono inserite anche due significative lettere che portano alla Coduri, una di Gronda e una di Riccio, oltre a molti altri importanti documenti. Ma la cosa che angustiò il Betti più di tutte, è stata quella che da molti ambienti vicini alla Resistenza è stato sempre tenuto un po’ in disparte perché ritenuto un traditore sopravvissuto alla fucilazione non dei nazisti ma di quella dei partigiani. Dicerie che presero campo e che avrebbero potuto fargli subire una terza (oltre alle due ancora pendenti: una da parte dei tedeschi perché sopravvissuto a un’esecuzione e l’altra dalla Monterosa perché disertore contumace) condanna a morte, addirittura inferta dai partigiani di Migliarina di Carpi (suo paese natio) se due suoi amici d’infanzia (Leonardo Tosi e Elvisio Caliumi) non fossero intervenuti a difenderlo nel corso della riunione che doveva deciderne la sorte: “Benetti non va toccato, se è un traditore, se è un fascista, allora dovete fucilare anche noi”. E così furono tre le condanne a morte a cui il Betti sopravvisse. (n.evb.).

Inserimento del 18/07/2017. – Il giorno 07/07/1917 ho ricevuto, inviatami da un amico sardo, la seguente e-mail: Buon giorno signor Elio, come gli ho promesso gli mando la copia della prima pagina con dedica scritta  a mano  da “Betti”, del libro (quasi nuovo) che mi hanno spedito da Taranto.
Mi faccia sapere. saluti. Nicola S.

Semplici ma nobili parole scritte sulla prima pagina del suo libro di Memorie da Giovanni (Betti) Benetti, che c’invita ad essere sempre pacati nei nostri giudizi, malgrado tutto, e a non lasciarci travisare da facili apparenze molte volte artefatte. (evb)

 

Ed ecco il copioso estratto che se ne propone: «La mia vicenda cominciò dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con la disfatta del nostro esercito e quando tutti pensammo di abbandonare ogni cosa per ritornare alle nostre case contenti di aver salva la vita e dare un aiuto alla nostra famiglia. La realtà amara ci impose invece di ripartire e continuare a combattere […] a fianco dell’alleato tedesco: cosa che noi giovani rifiutavamo decisamente dopo un’esperienza di guerra durata tre anni. Pur essendo digiuni, o quasi, di politica, di antifascismo, cresciuti nel periodo fascista capivamo che vi erano altre strade per servire la patria; per questo chiedemmo ai più anziani di illuminarci, di aiutarci, ma riscontrammo in loro, o in buona parte di loro, reticenza, paura, perché se scoperti ad incitare i giovani a non presentarsi alle richiamate sotto le armi, potevano essere deportati nei campi di sterminio o essere immediatamente fucilati. In una riunione fatta qui a Carpi, con la partecipazione di tutti i renitenti, si decise di non partire e di nasconderci, anche perché avevamo avuto sentore di qualche movimento clandestino.  Considerato il fatto che i tempi erano duri, pericolosi, e si era sempre braccati, ognuno si comportò in modo diverso: chi si presentò, chi si nascose, io e mio cugino dopo un certo periodo d’attesa, decidemmo di presentarci con l’intento di fuggire armati alla prima occasione opportuna. Da Modena a Novara, da Novara in Germania, dove ci aggregarono alla Div. Monte Rosa per prepararci. Tengo a dichiarare, una volta per tutte, che noi non eravamo firmatari, ma semplicemente giovani che dovevano finire la leva; firmatari erano invece molti ufficiali o sottufficiali, prelevati dai campi di concentramenti, ai quali venne fatto un discorso di questo genere : “Se firmate, verrete adibiti all’istruzione dei componenti la Div. Monte Rosa composta esclusivamente da italiani, e al termine dell’addestramento, non solo farete parte del nuovo esercito italiano, ma, rientrati in Italia, combatterete contro gli eserciti invasori e soprattutto i “banditi” italiani datisi alla macchia. Se non firmate, rimarrete nei campi di concentramento subendone le conseguenze”.
[…] Rientrando in Italia, appena varcammo i confini, cominciarono le defezioni: molti scappavano armati di tutto punto. Per loro era facile perché pratici dei posti, ma altri come me, dovevano aspettare occasioni più propizie.

Io cominciai ad interessarmi per raggiungere i partigiani, appena arrivato a Casarza Ligure (GE). Dopo alcuni giorni di sondaggio, durante la libera uscita, ebbi la fortuna di incontrare Paganini (poi divenuto partigiano nella “Centocroci” col nome “Quattriss”) mio ex compagno sul fronte francese, al quale espressi la mia decisione; convintosi della mia sincerità, mi indicò le modalità da seguire. Alle 5 del mattinino successivo, seguii in lontananza il fratello minore di Paganini, Romildo, e suo cugino, Nereo Peri, lungo una stretta vallata sino alla casa di un borghese, mi presentarono e se ne andarono. Dopo aver mangiato, il borghese mi portò in una fitta boscaglia e mi disse: ”Domattina sentirai due fischi, allora uscirai avvicinandoti a chi ti farà segno, io sarò con loro”. All’alba conobbi due partigiani e con loro mi incamminai lungo un percorso che a causa dei giri viziosi durò circa due ore, poi finalmente arrivammo alla “Casabianca” (“Ca Gianca” in dialetto locale) dove incontrai il Comandante di Distaccamento “Gronda” della Brigata Garibaldina “Coduri”. Questi, dopo avermi chiesto i dati personali e le motivazioni della mia scelta, mi disse: “Senti, qui con noi c’è pericolo, fame, stenti di ogni genere, ci sarà molto da combattere e da spostarsi secondo le decisioni del Comandante di Brigata; tra noi vige un forte cameratismo e una ferrea autodisciplina, ti do un giorno di tempo per pensarci, poi mi dirai la tua decisione. Se la nostra vita non ti va, sei libero di scegliere e andare verso i tuoi posti, a tuo esclusivo rischio e pericolo“.
Mi presentò al vice Comandante “Aquila “, al Commissario “Rango” e a tutto il distaccamento. Prima che si allontanasse gli confermai la mia intenzione di rimanere, certo di aver trovato il posto giusto, chiedevo solamente di combattere. “Bene” disse Gronda, “sei il benvenuto nella grande famiglia dei partigiani, cercati il nome di battaglia, distruggi i documenti personali in modo che i tuoi cari non abbiano a subire persecuzioni nel caso di un tuo arresto e, riguardo al combattere, le occasioni non mancheranno “. Era il 12 Luglio 1944. Rimasi al Dist.to di Gronda fino ai primi di Novembre.
[…] Una sera il Com.te, come era solito fare, riunito tutto il Dist.to chiese 10 volontari per prelevare 23 alpini i quali, su informazione dei G.A.P. volevano unirsi ai partigiani. Il giorno successivo il loro arrivo, andai a trovarli ed eventualmente rincuorarli, ebbi la sorpresa di vedere che erano tutti compagni di Carpi, Modena, Novi [di Modena] e Rovereto [sulla Secchia]. Poiché Virgola aveva lasciato loro la libertà di scegliere, decisero di andare verso le montagne del Modenese e mi convinsero a seguirli.
Quando espressi il mio desiderio a Gronda egli mi rispose con un secco no: ”No, tu non vai, non capisci il pericolo a cui ti esponi, non arriverete mai alle vostre  montagne “. Per ben tre volte insistetti con la mia richiesta, finché non mi accordò il permesso, e mi lasciò pure la pistola che avevo in dotazione. […] Il viaggio intrapreso dai monti Liguri ai monti del Parmense, fu tutta una tragedia anche se facilitati dal lasciapassare firmato dal Com.te ” Virgola “. Un gruppo di 24 persone non poteva passare inosservato, pertanto proposi di dividerci in tre gruppi, marciare su diverse direttive e incontrarci ogni tanto per decidere le mosse successive; ma dopo un tratto di strada mi accorsi che gli altri due gruppi non mi abbandonavano, o per paura o per inesperienza, quindi maggiori erano i problemi da risolvere (viveri, ecc.) anche perché solo io non ero in divisa. Il tratto più duro fu quello tra il Passo di Centocroci (SP) e l’attraversamento del fiume Taro nelle vicinanze di Fornovo. C’imbattemmo varie volte in pattuglie di alpini e tedeschi che non esitarono a sparare uccidendo 5 o 6 dei nostri. Ad uno di essi toccò una morte orribile: catturato, lo presero per le braccia e per le gambe e lo finirono sbattendolo contro un muro. Finalmente arrivammo sulle montagne di Parma e precisamente a Capriglio di Tizzano, chiedemmo ad un missionario come potevamo fare e quale strada dovevamo prendere per raggiungere il Modenese; quando seppe chi eravamo ci disse che era molto pericoloso passare, poiché a Lagrimone, la camionabile era fortemente sorvegliata, perché unica strada ancora in mano ai tedeschi atta a permettere loro di ritirarsi dal fronte della Garfagnana. Ci consigliò di fermarci nell’attesa di un momento più opportuno, anche perché in zona c’era una brigata partigiana a cui potevamo aggregarci.
Il periodo di permanenza in quella zona fu breve, ma sufficiente per conoscere i dintorni, i missionari, e “Gallo” il Com.te della Brigata Garibaldina. Io avrei preferito entrare in formazione per avere più sicurezza e difesa ma gli altri, e in particolare il Panini di Modena, insistettero affinché si proseguisse; e accettai a malincuore il parere della maggioranza, come avevo imparato nella formazione Coduri. Il mattino del 22 Novembre 1944, mentre con un altro compagno ero intento a prelevare olio da un camion, improvvisamente sentii una raffica, lì per lì non mi allarmai, ma nell’udirne altre provenienti da posti diversi, capii che eravamo nell’occhio di un grande rastrellamento. La zona era ormai circondata, immediatamente scappammo e ci portammo sul monte Caio, ove cercammo un nascondiglio. Trovai rifugio nell’incavo di una pianta secolare e copertomi con delle fascine, passai la notte in quella posizione; faceva molto freddo e nevicava. Durante tutta la mattinata del 23 Novembre osservai il viavai di pattuglie tedesche che portavano i rifornimenti alle postazioni piazzate nei punti strategici; nel pomeriggio un tedesco notò una camicia rossa con la scritta 47° Brigata Garibaldi e delle fotografie sparse intorno, diede l’allarme e così mi scoprirono e con le armi spianate mi catturarono.
Legato, mi portarono al loro comando dove il cuciniere, per schernirmi, esclamò: “Tu buono, nix partigiano” cominciando a picchiarmi. “Beh” pensai, “finché sono pugni e schiaffi niente di male”. Verso sera, mi portarono in paese e, passando tra due file di donne, tenevo gli occhi abbassati per impedire ai tedeschi di scoprire un qualsiasi cenno di riconoscimento. Fui condotto nella cantina di casa Galvana, di proprietà del sig. Galvani Teodoro. Entrato, vidi Morselli di Rovereto e Corino di Fossoli, colpiti entrambi da una raffica di mitra, il primo ad una gamba, il secondo al ventre con la conseguente fuoriuscita degli intestini che egli reggeva con le mani; è semplice immaginare la sofferenza e la visione agghiacciante che mi si presentarono. In seguito portarono anche Rossi di Novi Modenese, sicché degli 8 rimasti, 4 fummo presi e gli altri riuscirono a scappare. Nell’attesa, che per noi significava morte sicura, l’unica e importante mia preoccupazione fu quella di raccomandare ai miei compagni il silenzio più assoluto nei riguardi di coloro che ci avevano aiutato, dai contadini ai missionari e al parroco.
Quella stessa sera mi interrogarono con il metodo della tortura: la corda con cui erano legate le mani, mi imprigionava anche il collo, quindi mentre essa veniva tirata, rischiavo la rottura delle braccia o il soffocamento. Andarono avanti così per molte ore, tra percosse di ogni genere, ma, fra continui svenimenti e conseguente gettito di acqua ghiacciata, riuscirono soltanto a sapere il mio nome e indirizzo, non una parola di più. Vedendo il mio ostinato silenzio mi portarono in cantina, legato mani e piedi, il cappio alla gola, mi appesero ad una trave del soffitto, in modo che le punte dei piedi toccavano un sasso traballante; bastava un piccolo spostamento per rimanere impiccato, riuscii a resistere in quella posizione 14 ore. All’alba del 24 novembre entrò un sergente tedesco che, meravigliato di trovarmi vivo estrasse un coltello e, tagliando il cappio, pose fine alla mia sofferenza. Non era finita, tre tedeschi mi condussero ad una trentina di mt sotto il paese; ordinandomi di scavare una fossa per 4 persone, si tornò alla cantina e dopo 15 minuti c.a, io e Morselli fummo riportati alla fossa. Mentre ci abbracciavamo, un tedesco sparò alla nuca del mio compagno, la pallottola usci dalla sua fronte, sfiorò il mio viso lasciandomi illeso; nel cercare di aggiustare il corpo nella fossa, attesi invano il colpo di grazia, certamente i tedeschi, dopo una dimostrazione pratica, pensavano di riuscire a farmi parlare.
Altre torture e interrogatori, finché, caricato il Corino su un carretto, ci portarono tutti e tre sul luogo della fucilazione. Un tedesco chiese al Corino, giunto allo stremo delle forze, se era contento di morire e al suo cenno affermativo sfoderò la P. 38 sparandogli due colpi in bocca, poi toccò a Rossi che si trovava alla mia destra, la pallottola lo raggiunse alla nuca e, fuoriuscendo, mi si conficcò nel ginocchio sinistro, lanciai un urlo, gettandomi sugli altri corpi: pienamente cosciente, coricato di fianco con gli occhi chiusi, sentii il rumore caratteristico dell’armamento di un’arma automatica, poi la raffica, forte, tremenda, che mi colpi la spalla sinistra, il braccio e il costato; non emisi alcun grido sebbene raggiunto da 18 proiettili.
“Ero ancora vivo!!” Fu il pensiero delle persone più amate a darmi la forza di fingermi morto, senza mai perdere un attimo di lucidità e salvarmi quindi da una morte sicura per dissanguamento. A quel punto un tedesco si chinò, mi tastò il polso e disse: “caput”, ci coprirono alla meglio con la terra e se ne andarono. Cercai di resistere il più possibile in quella condizione, ma, non riuscendo a respirare, con uno sforzo sovrumano, riuscii a scuotermi la terra sul viso e respirare a pieni polmoni.
Dopo il primo attimo di gioia, pensai alle possibilità di salvezza e decisi, se le forze riuscivano a sostenermi, di raggiungere la missione dei frati. Il percorso che mi divideva dal convento era di circa 2,5 Km., molto duro, perché si doveva scendere a valle e poi risalire, tuttavia riuscii a raggiungere il limite del bosco nonostante il susseguirsi di cadute, svenimenti causati dalla sofferenza e dalla perdita di sangue.
A questo punto mi venne incontro il cane dei frati, che, nell’intento di festeggiarmi mi buttò a terra, fortunatamente poiché, proprio allora, mi accorsi che una sentinella tedesca piantonava il convento.
Cautamente arrivai sul retro della missione e mi sedetti stremato vicino alla porta secondaria; la sentinella arrivò a pochi metri senza scorgermi. Mi vide invece un frate, che uscito forse per prendere una pentola, rientrò immediatamente; attesi il momento più opportene e radunate tutte le forze che mi rimanevano, riuscii ad aprire la porta, dopodiché svenni. Riprendendo conoscenza, mi vidi steso a terra, coperto, circondato da bottiglie d’acqua calda e da una ventina di frati, lì ricevetti le prime cure. Seppi in seguito che il Padre Superiore dovette prendere una decisione drastica, a causa delle tracce di sangue lasciate lungo il percorso; quindi, pensando di non riuscire a nascondermi, si recò dal Cap. tedesco denunciando la presenza alla missione di un contadino, che, uscito per fare i suoi bisogni, era stato ferito da una pattuglia.
Fortunatamente, il Capitano, facendo parte di un’altra compagnia, era all’oscuro de nostra fucilazione, venne a controllare ma, viste le mie condizioni, non indagò oltre anche perché aveva ricevuto l’ordine di ritirarsi e firmò il permesso per il mio trasferimento urgente all’ospedale maggiore di Parma. Qui ricevetti le prime vere cure, con l’immediata amputazione del braccio, cure non soltanto materiali ma anche morali perché infermieri e professori condividevano la nostra causa e ci aiutarono nei limiti del possibile. Purtroppo la mia presenza e quella di altri due partigiani fu scoperta dalle brigate nere e dai tedeschi, che aspettavano la nostra guarigione per riprenderci; anzi un giorno vennero per riprenderci comunque, ma il primario riuscì con un secco rifiuto a fermarli.
Per quaranta giorni fummo piantonati. Una notte suonai per chiamare l’infermiere ma non si presentò nessuno, il mattino successivo arrivarono, come facevano spesso mia cognata e la mia fidanzata (oggi mia moglie) dicendomi di provare a camminare.

Che cosa era successo? Nella notte i partigiani, arrivati a bordo di un camion, avevano occupato l’ospedale, catturato i tedeschi, rinchiuso come d’accordo, il personale ospedaliero avevano portato in salvo i due partigiani. Io usci dall’ospedale travestito da vecchia: caricato su un carrettino, si prese la via di casa ma giunti nei pressi di San Polo d’Enza, sul ponte che attraversa il fiume omonimo, c’era un posto di blocco tedesco. Come passare? Altro colpo di fortuna: in quel momento gli aerei alleati mitragliarono il ponte costringendo i tedeschi a ripararsi, dandoci quindi la possibilità di proseguire e arrivare finalmente a casa. Era il 6 Gennaio 1945!
Appena in grado di camminare, ripresi il mio posto a fianco dei partigiani fino alla Liberazione».

Considerazioni amare: leggendo le soprastanti righe, qua e là si ha l’impressione di coglierne una profonda malinconia. Il motivo si ritiene, possa dipendere dalla circostanza che in molti ambienti vicini alla Resistenza, il “Betti” non sia stato mai creduto, e intorno a lui sia sempre aleggiata un’ombra di pesante diffidenza. Infatti, pur avendo passato quello che ha passato, il “Betti”, senza mai fornire una qualunque motivazione, è sempre stato tenuto un po’ lontano, in disparte, escluso dalla Resistenza “celebrante”. Ma a questo punto si preferisce lasciare la parola a chi l’ha conosciuto e frequentato a lungo, e di persona:

Addio a Benetti, l’uomo che sopravvisse due volte – Ex partigiano se la cavò perdendo un braccio. (A firma di A. Giordano sul sito dell’ANPI Sezione di Carpi).
Il 25 dicembre 2007, a 84 anni di età, se n’è andato Giovanni Benetti. Nel corso dell’ultimo conflitto aveva militato nelle file della Resistenza con il nome di battaglia di “Betti”. Catturato dai Tedeschi, era stato condannato a morte, una prima volta per impiccagione e la seconda per fucilazione. In entrambe le circostanze era riuscito a salvarsi, sia pure a costo della perdita di un braccio. Il racconto di queste vicende è contenuto in “Memorie di un sopravvissuto” a cura di Mariagiulia Sandonà. Un ricercatore, Andrea Giordano, ha voluto ricordarlo con lo scritto che pubblichiamo di seguito.
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Provate a immaginare che cosa si prova a rimanere impiccati a una trave per quattordici ore consecutive nel buio di una cantina di un casolare di campagna, in punta di piedi su un mattone, in bilico tra la vita e la morte. Tra la vita e l’autoimpiccagione, come avrebbero voluto i suoi aguzzini. Nel buio di una cantina tra la sete, la fame, i gemiti dei compagni feriti, moribondi. Quattordici interminabili ore lì, fermo, con i pensieri che ti attraversano la mente a una velocità indecifrabile, i compagni che ti incitano a lasciarti andare per evitare le torture del giorno dopo. Ma lui è rimasto lì, immobile, sofferente, alla ricerca continua di un respiro che gli facesse dimenticare o ricordare di avere un cappio al collo. Era lì il “Betti”, immerso totalmente in un mondo tutto suo. Avrei voluto vedere la faccia stupita, incredula del Tedesco quando alle otto del mattino è entrato in quella cantina per tirarlo giù, certo di trovarlo morto. Ma quell’uomo non lo era, perché quell’uomo era il “Betti”. Provate a immaginare che vi diano una vanga e vi costringano a scavare una fossa sufficientemente larga, alquanto profonda… E vi venga da pensare: “Adesso lo colpisco, lo disarmo e sparo agli altri tre”. Ma poi non lo fai perché…”. Era lì il “Betti”, con la vanga in mano a scavarsi la fossa con le proprie (tutte e due ) braccia. Provate a pensare a due amici che si abbracciano e si stringono forte, sapendo che tra un secondo il grilletto muterà la sua posizione di riposo e sarà la fine di tutto. Ma per Morselli solo… Perché il “Betti” è ancora lì, sporco di sangue, teso ad accompagnare con uno spostamento del corpo il suo amico, adagiandolo nella fossa. Poi è il turno di Chiesi, già morente, e poi ancora di Rossi, ma questa volta il proiettile devia e va a colpire il polpaccio del “Betti”, il quale comincia a urlare, lasciandosi cadere a sua volta nella fossa come se lo avessero colpito a morte. Accuratezza, diligenza, scrupolosità tedesca vuole che venga fatto un giro di mitraglia sui corpi dei quattro, per essere sicuri. Le vanghe agli assassini, e giù terra, fino a farli scomparire. Provate a immaginare di essere sepolti vivi… E di sentire il tonfo dell’arnese agricolo che vi spiana il terreno. Provate a immaginarvelo. Il “Betti” lo era…vivo, essendosi finto morto; il braccio sinistro perso per sempre, ma vivo. Ancora una volta vivo… sepolto vivo. Era lì il “Betti”, sotto un metro di terra, con un braccio maciullato dalla mitraglia, ma lì, vivo, alla ricerca disperata di aria e in attesa del momento propizio per uscirne. Con l’aiuto di quello “buono” ha scavato, ne è uscito e ha camminato, nella notte, trovando rifugio in un convento di frati missionari. Poi la corsa all’ospedale di Parma dove gli è stato amputato il braccio e infine la fuga dallo stesso nosocomio dove era stato nuovamente individuato. Con la paura addosso, attraverso strade frequentate dai nazifascisti, travestito da vecchia donna, su un carretto, trainato fino a Migliarina di Carpi. C’era anche la tua Ormiste quella volta lì. Ancora due condanne pendevano su di te, da una parte quella del Comando fascista come disertore, dall’altra quella del Comando tedesco di Cremona come partigiano scampato a una esecuzione. Ma non solo, la tua più grande tristezza era data dal sapere che la tua vicenda non era stata creduta veritiera da parte di alcuni esponenti di squadre partigiane. Come traditore avresti potuto essere fucilato dai partigiani di Migliarina, se non fosse stato per due tuoi cari amici d’infanzia che non esitarono a mettere la loro vita per la tua: ” Benetti non va toccato: se è un traditore, se è un fascista, allora dovete fucilare anche noi”. Forse questa è una spina che ti è rimasta nel fianco, ma mi auguro che il mirabile, lodevole, encomiabile gesto di Leonardo Tosi ed Elvisio Caliumi ti abbia ripagato nel tempo . 22 aprile 1945: Carpi è libera, riprenditi la vita, “Betti” , un po’ più amara, senza più l’aiuto di un braccio nella vita di tutti i giorni, ma con la tua Ormiste, i figli che verranno, i nipoti, i ricordi che non ti abbandoneranno, gli incubi notturni che abilmente saprai mettere su tela. Suo padre poteva non vederlo per un mese intero, perché lui dormiva dove capitava, in campagna, mangiando i frutti della terra o a casa dei contadini. E’ sempre stato un “ribelle” Betti, lo so per certo, un po’ Rosso Malpelo un po’ Olmo Dalcò. Non è una favola, non è un film, è la storia vera, unica, irripetibile di Betti o Elis o Strela o semplicemente Giovanni. Mentre ero lì, nel cimitero di Migliarina con la bandiera dell’Anpi in mano e guardavo la bara scendere giù nella fossa, pensavo che se sono un uomo libero lo devo anche a te e ti ringrazio… E che questa volta purtroppo non ce la farai ad uscire di lì “fisicamente”. Ma poi ho sorriso, rammentandomi di quelle volte che, abbracciandoti ormai ottantenne, ti dicevo: “Ciao carissimo, alòra cum’ andòmia?”. E tu, puntualmente: “An-gh’è mèl, ancòra quaranta o sincuant’ann e pò aiò finìi”. Non ho mai stentato a crederlo. Arrivederci Betti.
Andrea Giordano

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Un altro affettuoso pensiero per… Giovanni Benetti “Betti”, dalla Sez. ANPI di Casarza Ligure (Genova), che qui si riporta, che si può agevolmente apprezzare anche via web sul N° 3 di Patria Indipendente del 23 marzo del 2008 (XIII).

Un pensiero per… Giovanni Benetti “Betti”
I partigiani, compagne e compagni vecchi e giovani dell’ANPI di Casarza Ligure (GE) accomunati a tutti gli antifascisti delle ANPI del Tigullio ricordano con profondo dolore la scomparsa del partigiano “Betti” avvenuta il giorno di Natale 2007 a Carpi di Modena. Perché la gente del levante ligure ricorda questo figlio dell’Emilia? Perché “Betti” è stato ed è… il caso emblematico, la sintesi reale di quel tempo, di quel periodo storico e di come iniziò, si sviluppò e prosperò, per arrivare alla vittoria finale, di quel grande movimento popolare detto “Resistenza”.

Ti abbiamo conosciuto giovane 21.enne nella prima metà del mese di luglio 1944 quando, disertore della Div. Alpina “Monte Rosa”, salisti in montagna per unirti a noi “ribelli”, della banda “Virgola” (Div. “Codurì”) operante nell’Appennino ligure orientale e da subito ci colpì la tua ferrea volontà, la tua determinazione nel voler combattere il nemico numero uno: il nazifascismo.

Segno di una consapevolezza meditata e maturata da molto tempo, forse in quelle riunioni serali alle quali partecipavi con i tuoi conterranei nei fienili ora di “Malavasi” ora di “Vincenti”, una determinazione forte, sicura e decisa che non concedeva spazio ad altre possibilità e ti faceva essere il primo ad alzare la mano per andare volontario in azione, sempre e comunque, convinto com’eri che quello era ciò che bisognava fare in quel momento per il bene del nostro Paese.

Assieme a questa tua sicurezza, ci trasmettesti quella grande forza di solidarietà e di unità d’intenti che necessita per raggiungere un qualsiasi obiettivo; solidarietà, unità, fratellanza che toccasti con mano durante il ritorno a casa dopo l’8 settembre 1943, dove un moto spontaneo di popolo formato da migliaia di vecchi, donne e bambini cercò nei modi più disparati di poter raggiungere le case, con la speranza che fosse fatto altrettanto nei confronti dei loro cari.

In più di uno scontro armato, ci dimostrasti l’immediatezza di decisione cioè intuire la cosa migliore da fare, specialmente nei casi più cruenti e difficili; una dote innata, forse affinata e maturata nella tua giovinezza, ben evidenziata nella risposta data da tuo padre ad un amico… «il mio ragazzo ha le ali robuste… può volare e cavarsela benissimo». Così ti abbiamo conosciuto, apprezzato, amato; ecco perché il tuo comandante ti rifiutò più volte il permesso di lasciarti andare incontro al tuo destino che si rivelò terribile e crudele (Memorie di un sopravissuto. Impiccato – fucilato – resuscitato, di Mara Giulia Sandonà, Ed. Nuovagrafica – Carpi – MO -1992).

Anche dì fronte a questa prova dimostrasti e insegnasti che, quando la forza di volontà è cosi presente, profonda e intimamente intrisa nel proprio “io” è possibile affrontare tutte le prove, anche le più impensabili e impossibili. Per tutto questo, per averlo quotidianamente testimoniato, sino alla mattina del Natale scorso e soprattutto per averlo insegnato ai nostri figli… Grazie!! Ciao “Betti”!
(Sez. ANPI di Casarza Ligure – Genova)