Fasc. 40 – Doc. 11 – By Elio V. Bartolozzi, con ricerche e collaborazione grafica di Nicola Serra di Sinnai (CA): “Archivio e storia del Comandante ‘Succo’ (Pietro Sechi)” figlio di Giuseppe (n. 1868) e di M. Francesca Sini (n. 1875), partigiano, capo squadra e poi vice comandante della “Brigata Zelasco” (Div.ne “Coduri”, VI Zona Operativa Liguria) nasce a Oschiri (SS) da famiglia di agricoltori, l’8 febbraio 1910. A soli 19 anni entra come allievo nella G.d.F. e nel 1935 viene inviato nella zona di guerra delle colonie italiane dell’A.O.I. Da dove farà ritorno nell’ottobre 1937, con destinazione Legione Territoriale di Genova. Da Genova, l’11 giugno 1940, verrà trasferito alla brigata di Sestri Levante (fraz. di Riva Trigoso). Località dove farà poi anche rientro nel giugno 1942, dopo una breve parentesi di tre mesi circa, trascorsi alla Spezia.
A Riva Trigoso, dov’era dislocata la sua caserma, ha modo di entrare in contatto con il gruppo organizzato degli operai antifascisti dei Cantieri del Tirreno, con i quali, condividendone le idee, dopo l’8 settembre 1943, ne diviene membro effettivo, e in seguito comandante e organizzatore delle S.A.P. locali. Ma il 22-11-44, individuato, sarà costretto a disertare e a unirsi, con moglie e figlio di soli 4 anni, all’allora brigata Coduri dislocata a Valletti. Nella quale formazione opererà proficuamente fino alla Liberazione.
Finita la guerra farà rientro nelle G.d.F. da dove, in data 27.06.1954, verrà collocato in quiescenza. Dopo essere stato, però, nel 1950, denunciato; e poi, il 3 dicembre 1952, processato e assolto dalle imputazioni che gli venivano contestate, con la motivazione seguente: trattandosi di azioni di guerra non punibili. Ma il P.M. interporrà Appello alla sentenza assolutoria; con la conseguenza che il Sechi verrà sollevato dal servizio con sospensione dello stipendio perché in attesa di giudizio. E così, per circa sei lunghi mesi il comandante Succo dovrà sottostare a questa ingiusta umiliazione. Finché il 23 maggio 1953 la Corte d’Assise d’Appello di Genova, con ordinanza emessa in camera di Consiglio il 15 maggio 1953, dichiarerà inammissibile l’appello interposto dal P.M. a seguito di rinuncia della impugnazione medesima. 

Ringraziamenti: Un particolare ringraziamento dell’autore, ai figli di Pietro Sechi “Succo”: Signora Pina e Signor Domenico e relative Famiglie, che mi hanno dato la possibilità di dar vita a questo lavoro con l’aver messo a mia completa disposizione tutti i documenti raccolti e catalogati dal  loro illustre congiunto e da essi amorevolmente conservati.
Le stesse Famiglie Sechi, a loro volta, colgono l’occasione per esprimere i sensi della loro più profonda gratitudine al fu Avvocato Professore, e poi Ministro di Grazia e Giustizia e Presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Vassalli; e al fu Avv. Emilio Furnò, del Foro di Chiavari, per la fraterna e risolutiva assistenza forense prestata al loro congiunto.
Un altro grande grazie rivolgono inoltre al fu Virgola e al fu Leone, rispettivamente Comandante e Commissario della Div. Coduri. Ai fu Riccio e Scoglio, rispettivamente Comandante e Capo di S.M. della Brigata Zelasco. E a tutti i partigiani e amici dell’intera Coduri, e all’ANPI di Sestri Levante, e agli abitanti di Santa Vittoria, di Statale di Né, e di tutte le zone Liguri in cui ha operato la Divisione Coduri, che “Succo” ha sempre benevolmente ricordato fino alla fine dei suoi giorni.

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“Archivio e storia del Comandante “Succo” (Pietro Sechi)”. Partigiano della “Brigata Zelasco” (Div.ne “Coduri”) operante nella provincia di Genova, zone del Golfo del Tigullio e del suo entroterra.

    (Parte Prima)

                                          Tessera di “Succo” partigiano: con i gradi di V.C. di Brigata (Div. “Coduri”)

N.d.a: Due parole di scusa verso gli appassionati che leggeranno questa storia assolutamente vera ed emblematica: so di essermi dilungato troppo nel riportare interi brani di libri pubblicati molti anni fa in Liguria. L’ho fatto in special modo per agevolare gli eventuali lettori sardi, amici o conoscenti di Succo (Succu, in buona lingua isolana) perché so che molti di loro cercheranno poi i libri qui citati, ma so anche che molti di questi testi sono ormai introvabili in libreria, e quindi non ho voluto fare solo una fugace segnalazione, ma ho voluto, anche se capisco di averlo fatto in modo assai insufficiente, dare un’idea più sostanziosa e particolareggiata dei personaggi e delle situazioni in cui essi hanno, per scelta propria e consapevolmente, operato: e mettendo più volte in eroico pericolo la loro stessa vita. E questo, sia detto, senza nessunissima retorica (evb).

1. Succo: periodo di ferma nella Guardia di Finanza

Pietro Sechi “Succo” (1910-2006) figlio dell’agricoltore Giuseppe (Oschiri, 08 apr 1868 – 29 nov 1942) e di Maria Francesca Sini (nata a Oschiri il 25 dic 1875 ) nasce a Oschiri (SS) l’8 feb 1910.

Ma: “La dimensione socio-culturale che caratterizzava Oschiri nel tempo della formazione giovanile di Pietro, subito dopo la prima guerra mondiale, era quella di una comunità che accoglieva l’ondata di ritorno dei reduci dal fronte. Quegli uomini, forti della loro esperienza di combattenti, reclamavano il mantenimento delle promesse avute, in cambio della vittoria. Con l’aper­ta ostilità dei potentati locali videro la luce le prime cooperative agricole: a contadini e pastori veniva offerta la possibilità di svincolarsi dal cappio che gli speculatori, gli incettatori e i possessori di capitali, stringevano sul collo di una economia povera. Nel corso degli anni venti, al seguito della costruzione della diga sul Coghinas, il paese conobbe, episodio singolare in tutto il nord Sardegna, una forma di industrializzazione rappresentata dall’impianto, alla periferia del paese, in prossimità della stazione ferroviaria, di una fabbrica di concimi chimici che utilizzava le eccedenze di acqua dell’invaso del Coghinas. Il benefìcio indotto da questa industria aprì la prospettiva di una altrettanto benefica ricaduta in termini socio­politici, data la presenza di maestranze e manodopera qualificate suscet­tibili di introdurre, nell’orizzonte culturale tipico di un’economia agro­pastorale, problematiche sociali più aperte al mutare dei tempi. Ma la discontinuità produttiva, con l’altalenare di assunzioni, licenziamenti e riassunzioni dovuta all’incostante regime delle piogge, lasciava la ma­nodopera in balia di una amministrazione poco rispettosa dei diritti degli operai.

L’impossibilità di un collegamento organico con altre realtà sociali di tipo industriale e il mancato sostegno del ceto istruito locale, asservito o intimidito dal nuovo regime fascista, non permisero il benché minimo avvicinamento tra i bisogni dell’arcaico mondo agro-pastorale e le istanze di un nascente proletariato industriale che, di fatto, sopravvisse fino alla scomparsa dell’industria stessa negli anni cinquanta.

Per essere al centro delle due più importanti vie di comunicazione quali la strada e la ferrovia che collegano la costa nord con il resto dell’isola, Oschiri non conobbe l’isolamento di cui, fino a tempi recentissimi, soffriva la quasi totalità dei centri sardi. A causa o in virtù della concomitanza di questi fattori, si verificarono notevoli modificazioni nei modi di vivere tradizionali, rivelatisi più avanti nel tempo, non sempre di segno positivo. Questi spiragli attraverso cui filtravano concezioni ed esperienze di vita e di lavoro, se non nuove, certamente interessanti, permisero una certa problematizzazione delle condizioni di vita locali e sguardi critici su fatti storici posti all’origine della ricchezza di poche famiglie e della povertà della maggioranza delle altre. Venne così ad assumere contenuto politico il sordo mugugno dei diseredati rivolto ai possidenti del paese detentori di tutti i poteri” (Nda: Non conoscendo Oschiri di persona, le soprastanti informazioni sulla località l’ho riprese dal libro di Mario Vargiu, amico fraterno di Succo, dal titolo “Pietro Sechi, partigiano”, Il Torchietto, Ozieri, s.d.).

Proveniente da questo contesto sociale troppo limitato per un giovane alla ricerca di un futuro più appagante e che anche potesse offrire prospettive più ampie, Pietro Sechi fece domanda d’arruolamento volontario nella RGdF. Dove, il 27 giugno 1929 – seguendone sempre lo stato di servizio attraverso il suo Foglio Matricolare – venne assunto nella “Legione Allievi” della GdF. Legione istituita nel 1906, con sede a Maddaloni fino al 2002 e poi trasferita a Bari. Il 1° dicembre, sempre del ‘29, promosso “Guardia di terra”, viene trasferito alla Legione Territoriale di Trieste e il 1° ottobre del ’33 a quella di Venezia. Poi il 1° ottobre del 1935, viene inviato alla 10a Legione Territoriale di Napoli ed assegnato, per mobilitazione, al Battaglione speciale “E” della RGdF. Infine, il 19 ottobre sempre del ’35, viene imbarcato sul piroscafo “Sardegna” diretto a Massaua (Eritrea) dove sbarca il 27 dello stesso mese, e dove il 15 luglio 1936, cessa di appartenere al Btg Speciale “E” per passare in forza al comando RGdF dell’A.O.I. (Africa Orientale Italiana) come venivano denominate allora le colonie italiane in Africa. L’anno dopo, il 5 ottobre 1937, rientra in Italia e viene inviato alla Legione Territoriale di Genova perché abbisognevole di cure. Da qui, il 6 dicembre, si reca a casa, in licenza straordinaria di 29 giorni, per motivi di salute.

2. Succo: suo arrivo e permanenza a Sestri Levante

Trascorso detto periodo, il giorno 5 gennaio 1938 rientra a Genova, al suo corpo di appartenenza, da dove, l’11/06/1940, dietro sua richiesta, viene trasferito alla brigata di Sestri Levante, mobilitato per la difesa coste. Ma il 5/03/1942 subisce un altro trasferimento presso la brigata della Spezia, sempre mobilitato per la difesa coste, dove rimane fino al 15 giugno. Il 16 giugno fa ritorno a Sestri Levante, ancora mobilitato per la difesa coste, ma il 28/12/1942 cessa di essere mobilitato e il 1° febbraio 1944 viene promosso Finanziere scelto, come meglio si può vedere nell’annotazione di pag. 2 del suo Foglio Matricolare. Poi il 22 novembre 1944, per le ragioni che poi diremo, diserterà e si unirà all’allora brigata partigiana Coduri, operante nel Golfo del Tigullio e nel suo entroterra.

Quindi, dal 28/12/1942 fino al 22/11/1944, il Finanziere scelto Pietro Sechi si trova in servizio a Sestri Levante, dove vivrà tutti i drammatici eventi legati alla fatidica data dell’8 Settembre 1943 e assisterà allo sfaldamento completo dell’Esercito Italiano lasciato completamente solo, senza più ordini e direttive dalla Casa regnante  fuggita nel Sud d’Italia. Ma già prima di questa data, a Riva Trigoso (comune di Sestri Levante) dov’era dislocata la sua caserma, ha modo d’incontrare vari personaggi appartenenti alla variegata e assai politicizzata classe operaia massicciamente orientata verso i sindacati e i partiti di sinistra: di massima operai dei Cantieri del Tirreno, osti di locali dove si poteva mangiare oltre che incontrarsi per discutere di politica o promuovere incontri tra candidati alla diserzione, e appartenenti alle cosiddette S.A.P. di pianura già da tempo collegate all’antifascismo attivo nelle fabbriche sestresi: quali gli appartenenti al Soccorso Rosso, come ad esempio Eraldo Fico (il futuro Comandante Virgola), Antonio Minetti “Gronda” (il futuro C.S.M. della Coduri), Armando Arpe “Italo” (il futuro vicecommissario della Coduri). E tanti altri di cui si può leggere ivi direttamente nell’Archivio della Coduri.
Ma attraverso la documentazione in nostro possesso, sappiamo anche che il Sechi, prima di salire in montagna, era un affiliato SAP perché consigliato dallo stesso comandante Virgola a restare al suo posto in quanto più utile alla causa in questa veste. E quindi si deve supporre che Succo (e quasi certamente anche Angelo Monni “Matteo”) abbiano avuto diversi abboccamenti con uomini rappresentativi della Coduri, divisione partigiana dove poi entrambi sono entrati a far parte quali combattenti per la libertà della nostra patria.

Ma a Riva Trigoso, e nello stesso Sestri, era all’epoca, tutto un subbuglio. Oltre ai bombardamenti degli alleati che s’intensificarono dopo l’Armistizio, v’erano truppe germaniche acquartierate un po’ dovunque, con nidi di mitragliatrici contraeree, posti di blocco a terra, batterie dotate di pezzi d’artiglieria da 105 mm, posti di avvistamento contraereo e marinaro… E in riva al mare bunker anti sbarco armati di mitragliatrici, oppure di cannoncini più leggeri ma continuamente presidiati da truppe armate fino ai denti per timore di sbarchi alleati.

Poi furono costruiti anche muraglie anti sbarco lunghe chilometri e di spessore che superava il metro alla base. Le case più vicine alla costa vennero fatte evacuare e riempite di esplosivo. E la gente dovette sfollare. Chi verso l’entroterra per quelli più fortunati che avevano dei parenti in quei paraggi, gli altri dovettero invece arrangiarsi e vivere nelle gallerie, il più delle volte scavate da loro stessi. I pidocchi erano un po’ dappertutto. Poco il mangiare. Ognuno doveva arrangiarsi un po’ come meglio poteva. Triste periodo, quello. D’augurarsi che non si ripeta mai più.

Poi, verso la fine di luglio ’44 arrivarono anche gli alpini della Monterosa. E a problemi si aggiunsero problemi. Sì che erano italiani, ma dietro c’erano sempre loro: i germanici. E poi le Brigate Nere, quelle che alla gente facevano forse più paura di tutte perché non si capiva mai cosa avessero in mente di fare. Ed erano cattive anche con noi ragazzi di 8, 10, 12 anni. Ragazzi di cui la maggior parte non sapeva neanche cosa fossero le mutande, perché non ne avevano e non potevano averne a causa della miseria in cui eravamo immersi fino al collo; e che aveva fatto loro dimenticare tutto. Anche i giochi e i giocattoli. Una palla fatta di stracci, arrotolati stretti e poi legati più volte, era il massimo che potessero avere. Ci si arrangiava rubacchiando qua e là, qualcosa di commestibile nei campi di frutta, con i proprietari che spesso ci rincorrevano. Molti di noi la vita, da ragazzi, se l’è goduta proprio niente.

Ma non possiamo certamente tralasciare di annotare che il 5 febbraio 1940, Pietro Sechi e la signorina Antonia Bruna Sotgia convolarono a giuste nozze; e che il 1° novembre 1940 furono allietate dalla nascita di Domenico, il loro primogenito. Ragazzo che nel proseguo avremo occasione d’incontrare più volte. Ma non sappiamo con precisione la data in cui la famiglia, trovandosi il Sechi di servizio a Sestri Levante, sia andata a stabilirsi a Santa Vittoria, altro rione di Sestri al centro della Val Gromolo, più verso la collina rispetto a Riva Trigoso dov’era ubicata la caserma della GdF. L’altro giorno, parlando di quei tempi con un abitante di 86 anni, nativo di Santa Vittoria, si ricorda ancora perfettamente dove abitava (in località Ponzerone) la GdF Succo, si ricorda del piccolo Domenico e della signora Sechi. Ed anche di “Matteo” Angelo Monni di Sinnai (1910-1970) che coabitava, almeno per un certo periodo, a S. Vittoria insieme a Succo. Di Matteo, qui da noi, in Liguria, fino a poco tempo fa, conoscevamo solo la sua storia di partigiano, sapevamo essere amico e conterraneo di Succo ma ben poco d’altro sapevamo. Ora sappiamo invece, grazie all’amico Nicola Serra nativo delle stesse zone della Sardegna di Matteo, che i due si conoscevano bene, ed erano anche fortemente legati. Tanto che, ad esempio, s’erano reciprocamente scambiati il ruolo ecclesiastico di Padrini in occasione dei Battesimi dei loro figli, Domenico e Giovanni, quest’ultimo figlio di Angelo Monni e Bianca Filippini, uniti in matrimonio il 24 dicembre 1940, come risulta in una dedica con foto spedita ai coniugi Sechi che ritrae la famiglia Monni-Filippini il giorno del loro matrimonio; dal quale, l’anno dopo, nascerà il loro primogenito Giovanni, e successivamente, nel settembre 1943, la loro figlia Luisella.

3. Succo: da organizzatore S.A.P. a Partigiano combattente. 

Nel precedente paragrafo si è visto che a Riva Trigoso, dove si trovava la sua caserma, Pietro Sechi si avvicina agli uomini della Resistenza, ai quali presto si propone per poter aderire anche lui a tale missione patriottica; ma Eraldo Fico gli consiglia di rimanere al suo posto perché più utile come organizzatore delle S.A.P. di Sestri Levante, trascinatore e animatore dei giovani per arruolarsi nelle formazioni partigiane, fornitura di armi, munizioni, viveri e tutte le informazioni che potevano interessare alla Coduri. Sechi segue il consiglio ma non si limita a fare solo questo: visto che in zona, sul finire del mese di luglio ’44, sono giunti gli alpini della Monterosa, insieme all’amico Angelo Monni e ad altri, decide di avvicinarne qualcuno per fare opera di convincimento a disertare. E riesce particolarmente nell’intento avvicinando il sergente Arduino che comanda un reparto di salmerie nel confinante comune di Casarza Ligure. Il discorso iniziale tra i due (o i tre se con Monni presente) dovrebbe essere partito abbastanza favorito in quanto i due (o i tre) erano ancora tutti in divisa militare e appartenenti alla RSI. Ma quando l’accordo stava per concludersi, da parte degli alpini sopraggiunse però la richiesta di un ulteriore incontro con un comandante partigiano più alto in grado. Cosa che venne accolta e le cose si avviarono verso una diserzione bene organizzata, anche se non priva di pericoli, ovviamente. A questo punto si ritiene più opportuno affidarsi alle testimonianze lasciate dagli interessati e alla scorsa dei documenti in nostro possesso, molti conservati dalla famiglia di Pietro Sechi e rinvenuti, dopo la liberazione, presso il comando della compagnia della GdF di Chiavari. 

Fonti e testimonianze sul caso Arduino e diserzione di “Succo”

Cfr. ivi, Fasc. 40 – Doc. 5: La Resistenza nel Tigullio e nelle sue vallate, ed anche in Storia e Memoria, N° 1/2014: Rivista semestrale dell’ILSREC di Genova che contiene l’ultimo episodio narrato nell’articolo di E. V. Bartolozzi All’origine della diserzione nel Levante Ligure, dove, oltre a testimonianze di partigiani si hanno anche testimonianze lasciate da alpini della Monterosa.
L’episodio si svolge in rione Battilana (Casarza Ligure) e coinvolge un distaccamento di circa 25/23 alpini con salmerie e 15 muli; comandati dal Serg. Arduino, il quale, convinto da una ragazza del luogo che in seguito diverrà la sua compagna, si consegnerà, con tutto il suo reparto, l’armamento, le salmerie e i 15 quadrupedi, al comando della Coduri. Lo stesso articolo mette in evidenza il ruolo di primo piano svolto dal finanziere Pietro Sechi sin dai primi del mese di agosto 1944, nel convincere il sergente degli alpini ad unirsi alla resistenza. E conseguentemente a costringere poi lo stesso Sechi, perché scoperto, a darsi ad una precipitosa fuga notturna, insieme a tutta la sua famiglia, per evitare d’essere catturato e condannato a morte per diserzione.

Cfr. ivi Fasc. 7 – Doc. 14, Archivio della divisione Coduri, Edilio Raspolini “Lanciere” (n. 1912) Azioni varie di Lanciere:
Anche in questa testimonianza si ha una minuziosa e dettagliata descrizione del distaccamento alpino di Battilana comandato dal serg. Arduino. L’episodio è il medesimo che viene descritto nelle memorie di “Succo” Pietro Sechi e nell’articolo sulla diserzione degli alpini della Monterosa nel Levante ligure di Elio V. Bartolozzi, ma tale testimonianza non contempla più la presenza di Pietro Sechi e neanche quella di “Matteo” (Angelo Monni) perché le due guardie di finanza sarde in parte avevano esaurito il loro compito, in quanto l’operazione di convincimento degli alpini a disertare si era conclusa positivamente, ma per verificare e poter essere così tranquilli di definitivamente decidersi, gli alpini chiedevano un’ulteriore prova: avere un incontro con un comandante partigiano di grado gerarchico superiore onde poter concordare con esso particolari garanzie riguardo le proprie libere scelte future, una volta unitesi alle formazioni partigiane. Insomma, molti volevano disertare solo per poter poi, una volta in banda, proseguire per tornarsene in famiglia. Cosa che venne quasi sempre assecondata, a condizione che loro lasciassero armi, indumenti, e quant’altro, alle forze partigiane che ancora scarseggiavano di tutto. Di solito, di militare, gli veniva lasciata solo un’arma individuale, gli abiti che avevano indosso, un po’ di scorta viveri e un lasciapassare per attraversare le zone presidiate dai partigiani che eventualmente avessero incontrato lungo il loro percorso. In nessun caso (a meno che non vi fossero in mezzo dei feriti o altri gravi motivi) mai nessuna protezione armata veniva loro garantita.

Cfr. ivi Fasc. 7 – Doc. 16, Archivio della divisione Coduri, Pietro Sechi “Pietro Sechi”, pag. 8, paragr. 6, dove viene così descritto dallo stesso Pietro Sechi l’episodio del sergente Arduino:
“Nel mese di agosto 944, assieme allo scomparso partigiano “Matteo” (Monni Angelo) convincemmo il sergente maggiore Arduino (che comandava un reparto salmeria della Monterosa) a disertare assieme ai suoi dipendenti (circa 30 alpini con muli e materiale). Il colpo riuscì alla perfezione e gli alpini furono portati al comando della nostra divisione in Valletti.
Ed è in quella occasione che fui scoperto e processato in contumacia dallo stesso comando della divisione Monterosa, guadagnandomi la pena di morte. Tale fu la sentenza”.

Altra autorevole testimonianza (Cfr. ivi Fig. 3 del paragrafo 4 più in basso): dove si riporta la pagina dattiloscritta 2/5 del Comando della Coduri, trasmessa il 17.7.1945 alla Commissione Regionale Accertamenti Titoli Partigiani per la Liguria di Genova, in cui vengono elencate e datate molte delle azioni effettuate da Pietro Sechi, gli incarichi ricoperti e gli encomi ricevuti. Serie di documenti firmati tutti da “Virgola” e “Leone”: rispettivamente Com.te e Commiss. della Div. “Coduri”.

Cfr. ivi Fasc. 7- Doc. 16, Archivio della divisione Coduri, Pietro Sechi Pietro Sechi, pag. 2: Tale diserzione viene ufficializzata dalla lettera del 28/11/1944, inviata dal Comando della Compagnia della GdF di Chiavari alla Monterosa; in cui viene descritto, in maniera dettagliata, l’allontanamento di Sechi, assieme alla propria famiglia composta dalla moglie e un figlioletto di quattro anni, da Santa Vittoria (Sestri Levante) per raggiungere il Comando della formazione partigiana Coduri a Valletti (Varese Ligure, SP).

Inoltre, sono particolarmente interessanti una serie di altri documenti messi a disposizione dalla famiglia Sechi – che di seguito riportiamo – rinvenuti dopo la liberazione presso il comando della compagnia della GdF di Chiavari: che illustrano (a partire dal 21 novembre 1944) e attraverso tutta una lunga serie di dispacci e comunicati, l’evolversi della diserzione di Pietro Sechi e le stringenti misure adottate per catturarlo. Da notare specialmente “l’invito” della Monterosa del 21.11.1944, firmato d’ordine dal Ten. Mario Cristiani, comandante dell’ufficio 0.3 dei detenuti politici, disertori e partigiani catturati. Per i quali, se trovati con armi addosso, ne scaturiva quasi d’obbligo una condanna a morte per fucilazione alla schiena: 

 

4. Succo, per sfuggire alla pena di morte, è costretto a rifugiarsi in montagna.

Nel paragrafo precedente, abbiamo visto Succo che, scoperto nella sua attività di organizzatore delle S.A.P. di Sestri Levante accorpate alla Coduri, ha dovuto frettolosamente lasciare, insieme a tutta la famiglia, la sua dimora di Santa Vittoria per rifugiarsi tra i ranghi di montagna della divisione Coduri, allora ancora brigata, arrivando a Valletti, sede del Comando, la notte del 21/22 novembre 1994. Ma a Valletti rimane ben poco perché viene subito destinato a Statale di Ne, quale comandante della Polizia partigiana (S.I.P.), reparto di nuova istituzione.
Ma per seguire con più ordine le gesta partigiane di Succo (N.d.a: il Sechi, entrando nei partigiani (che allora venivano ancora chiamati “banditi”) aveva scelto il soprannome di “Succu”, in riferimento a Onorato Succu, popolare figura di bandito-giustiziere sardo che tra le due guerre, nell’Ogliastra, divenne bandito dopo aver subito una grave ingiustizia. Ma qui da noi, in Liguria e nei documenti ufficiali, Pietro Sechi viene sempre denominato “Succo”) preferisco affidarmi alla documentazione che ufficialmente: il Comando Sesta Zona Operativa del C.L.N. ha inviato, il 18 luglio 1945, al Comando Generale della Guardia di Finanza di Roma. Documentazione che avremo l’opportunità di ritrovare anche più avanti, in altra occasione.

Se quella sopra è documentazione più atta ad elencare la copiosa e ufficializzata attività di Succo durante le sue numerose incursioni partigiane, ritengo necessario riportare sotto anche alcune situazioni dove emerge, quasi unicamente, il valore umano del partigiano Succo. Impressioni che vengono qui formulate e riferite dagli stessi suoi compagni presenti ai fatti rievocati:

Tratto dal libro “Ne è valsa la pena?” di Aldo Vallerio “Riccio”, Com.te Brg. Zelasco (Div. Coduri), pag. 298-299-300-301-302, Genova, 1983: Termine rastrellamento invernale – Riccio rimasto ferito. Fine gennaio/primi febbraio 1945.

Arrivano “Succo” e “Matteo”
loro mangiavano erbe di bosco crude
ed a me davano il lardo abbrustolito

Dopo un po’ di tempo che mi pare di poter valutare approssimativamente ad un’ora circa si mette a piovere, per cui pochi istanti più tardi sotto questa baracca di frasche è come essere a cielo aperto.
Prima sento gocciolare sulla gamba destra, mi sposto un’idea e mi piove sulla coscia sinistra, mi tiro da un’altra parte e le gocce mi si infilano nel collo. Gioco a rimpiattino con l’acqua che sgocciola un po’ dappertutto, ma alla fine sono costretto ad arrendermi. Mi alzo e me la prendo tutta così come viene. In definitiva non c’è altro da fare.
Mi trovo a disagio ed arrivo a pensare che qualcuno possa avercela con me al punto di perseguitarmi in tutti i modi e le maniere. In queste ultime ore ne ho viste infatti di tutti i colori. Mi viene voglia di imprecare, ma una voce dentro mi richiama all’ordine e mi fa osservare che in un certo senso questo è assai meglio di quando, bomba fra le mani senza sicura, mi trovavo accovacciato fra alcuni cespugli di bosco con i tedeschi che mi davano una caccia spietata. Certo, è meglio adesso di allora, ma perché devo fare sempre confronti e paragoni con il peggio e mai con le cose belle e piacevoli? Eppure c’è qualcuno che non ha i miei problemi, che mangia bene, gode, se la spassa e fa i soldi. Ma noi ci siam assunti l’onere di liberare l’Italia, di salvare le macchine del Cantiere, il porto di Sestri Levante, le gallerie di S. Anna e di cambiare la faccia del mondo! E siccome siamo gente d’onore e di principi è certo che ce la faremo. Vedrai poi quanti riconoscimenti e quanti premi. Soprattutto vedremo i… risultati!
Penso e ripenso a queste cose e ad altre ancora più intime e personali, e a furia di far mulinare il cervello alla fine si fa giorno, e grazie al binocolo che mi è sempre rimasto appeso al collo, posso localizzare con precisione la posizione in cui mi trovo. È un bosco fitto fitto, da dove posso osservare una parte delle case di Montedomenico e dall’altra quelle di Libiola. Le ore del giorno sono ancora più lunghe e noiose di quelle della notte. Ma debbo stare buono e non protestare perché c’è sempre la saggia voce interna che mi invita a considerare che ieri sera era notevolmente peggio. Nel tardo pomeriggio, verso le 16 arrivano “Succo” e “Matteo” ed a causa del rumore che fanno nel bosco li accolgo con la pistola puntata. Ci abbracciamo con calore, e non si fanno meraviglia delle mie ferite perché erano stati minuziosamente informati delle mie peripezie dal padre di “Scandalo”, il quale aveva loro detto dove su suo consiglio mi ero rifugiato. Che piacere incontrare questi due “Sardi”, compagni generosi e combattenti tenaci. Decidono di fermarsi con me. Mi proteggeranno e mi aiuteranno a riprendere le forze ed a guarire le ferite. Hanno del pane è un bel pezzo di lardo, ma loro mangiano erbe di bosco. Il lardo lo fanno abbrustolire a fettine e lo danno a me. Sono meravigliosi questi due compagni di me più anziani, ma io non posso accettare. Mi ribello, faccio una sfuriata, mi appello alle regole della disciplina e della democrazia partigiana.

L’acqua marina di “Matteo”come disinfettante sulle ferite

 Non è giusto dico loro. A questo modo facciamo come nell’esercito dove gli ufficiali mangiano meglio e diverso, mentre la truppa deve accontentarsi di quel che il convento passa. I due sardi ascoltano la mia sfuriata sorridendo, si scambiano occhiate d’intesa, ma il lardo continuano a farlo abbrustolire ed a riservarlo tutto per me; loro al contrario mangiano erbe, diverse qualità di erbe di bosco, ed hanno, ed hanno il coraggio di essere spiritosi ed affermare che le preferiscono a qualsiasi altra cosa, persino ai ravioli se questi fossero alla nostra portata! La mia ferita alla gamba, così come tutte le sbucciature e le contusioni che ho riportato nel rovo vengono ora disinfettate con una boccetta di acqua marina che “Matteo” per fortuna conservava in un taschino. Non sapevo che “Matteo” in un ambiente dove dominavano i pidocchi e la scabbia pensasse al profumo. Forse ogni tanto se ne passava qualche goccia sui suoi baffi spioventi che gli davano persino un’area truce, mentre in realtà non è capace di fare male ad una mosca. Lo sfotto e lui dopo essere arrossito si schernisce. Lo chiamo il partigiano profumato ma si capisce da come mi guarda che non gradirebbe molto che io facessi circolare questa voce. Non l’ho mai detto a nessuno. E la prima volta infatti che ne parlo, anche se questa non è certamente cosa della quale ci si debba vergognare. Ad ogni modo questa boccetta di acqua marina serve, e quanto e come serve per disinfettare le mie ferite, alcuni delle quali risultano già infiammate notevolmente. E proprio su queste che “Matteo” indugia e cerca di ripulirmele. Cristo come bruciano. Nel profumo c’è l’alcool, specie poi in quello prodotto in tempo di guerra. Questa è la ragione. Le ferite sono ora tutte disinfettate, ma io puzzo da capo a piedi come una autentica cocotte. Ora è “Matteo” a sfottermi.
Trascorriamo in questo posto cinque giorni e cinque notti. Loro mangiando continuamente erba ed io il lardo rimasto. In compenso montiamo a turno la guardia. Poi all’inizio del sesto giorno “Succo” e “Matteo” vanno in esplorazione per saggiare come stanno le cose. Tornano dopo qualche ora con pane, formaggio, salame e due fiaschi, uno di vino e l’altro pieno di acqua di fonte. Il vino naturalmente è per loro, mentre io mi delizio dell’acqua che fra l’altro a me piace molto. Si invertono le parti. Ora sono io a dire che preferisco l’acqua a qualunque cosa, ed è realmente la verità, mentre i due sardi per non contrariarmi, così infatti dicono scherzosamente, sono costretti a bere al collo del fiasco pieno di vino. A giudicare però dalle loro espressioni non si deve  tuttavia trattare di un sacrificio molto pesante!

I tedeschi minacciano di tornare per fare
“kaputt a partisani!” – la casa di Alfredo Caleffi
una donna eccezionale: sua moglie Modesta

Mentre ci togliamo un po’ della fame e della sete che nel frattempo abbiamo accumulate, mi informano circa l’esito della loro esplorazione. In giro non c’è più nessuno. I tedeschi dopo aver setacciato in lungo ed in largo tutta la zona alla fine hanno deciso di andarsene. Ma hanno detto minacciosamente che torneranno per fare Kaputt a partisani! Possiamo finalmente uscire dal bosco e riprendere l’attività alla luce del sole. Ora occorre mettersi il più presto possibile in contatto con i nostri distaccamenti che sono occultati in zona per verificare se hanno subito perdite o se invece sono riusciti a passare indenni attraverso le maglie nemiche. Un paio di distaccamenti sono occultati nelle ciappaie (Nda, gallerie per cavare i lastroni d’ardesia) del Capenardo, un altro distaccamento, quello di “Pablo” e “Nevada” è a Tolceto, quello di “Bip” a Libiola, quelli di “Sceicco”, “Bios” e di “Piero” alla macchia. Incarico “Succo” e “Matteo” di ritessere le fila e di predisporre una riunione di comandanti e commissari, a breve scadenza. Per ora non posso ancora muovermi. Mi reggo bene solo su una gamba perché la ferita pur migliorando visibilmente non mi consente ancora di camminare e di affrontare in campo aperto i rischi a cui facilmente ti espone la guerriglia. Temporaneamente l’ordine tassativo, in considerazione del fatto che siamo praticamente alla periferia di Sestri Levante, rimane quello di stare fermi in modo assoluto e ben occultati. Comunicheremo noi quando sarà il momento di riprendere posizione allo scoperto e conseguentemente l’attività armata. Io ho ancora bisogno di recuperare. Come ho già detto sono ancora claudicante, mentre la mia faccia è diventata tutta una crosta. A Campomoneto incontro “Punto”, il figlio di Ugo Caleffi “Alfredo”, che in seguito a questo tremendo rastrellamento che ha scosso il movimento partigiano alle fondamenta è rientrato a casa. La sua famiglia vive qui fra queste casupole che sono piene di sfollati. Mi propone di rimanere con lui e poiché non sono in grado di muovermi e di camminare ringrazio ed accetto. Suo Padre Ugo Caleffi è uno che fa l’esploratore, l’informatore, il partigiano combattente, fa cioè tutto quello che gli viene ordinato dal comando partigiano e siccome è dotato di fegato ed in più può contare su una lingua sciolta e disinvolta che non vi dico, è capace di togliersi d’impaccio anche nelle situazioni più difficili. Alla “Zelasco” ha reso sicuramente grandi servigi. Il suo non è stato un lavoro emergente ma al contrario un lavoro sotterraneo ed è anche per questo che mi pare giusto citarlo e metterlo in evidenza. Conosco sua moglie Modesta, una donna di grande bontà, tutta per i figli e la famiglia. Sempre comprensiva, mai uno scatto, mai una contrarietà. Permettetemi di dirlo con grande schiettezza. Una donna eccezionale. Una famiglia generosa, anche se i mezzi di cui dispone sono quelli che sono. Dimezzano le proprie razioni e aggiungono per me un posto a tavola. Quello che fa per me questa gente non potrò mai ripagarlo. Modesta fa un minestrone squisito che tanto somiglia a quello di mia madre. Ne fa sempre tanto. Piatto unico ma che ce ne sia. Alla sera usciamo di casa ed andiamo a dormire in una buca profonda scavata nella terra dove siamo letteralmente schiacciati solamente in due. Io e “Punto”. E devo dire che quest’ultimo è un ragazzo in gamba e mi aiuta molto nel lavoro di riorganizzazione della Brigata Zelasco. Inoltre fa la guardia, funziona da scorta, e quando è il caso si trasforma anche in staffetta. Con i minestroni sostenuti e ben conditi che Modesta mi mette a disposizione ho riacquistato gran parte delle forze perdute. Sto bene, sono su di morale, ma è la gamba che ancora mi fa male. Soprattutto alla sera. Forse risente della stanchezza accumulata durante il giorno. Rientrano intanto “Succo” e “Matteo” che hanno smesso di mangiare l’erba di bosco. E ora quando possono sbranarsi una bella scodella di minestrone e qualcos’altro di seguito non si fanno di certo pregare. Altroché vegetariani ed erbivenduli! Ed è proprio per questo che non riuscirò mai a dimenticare quello che per me sono stati capaci di fare questi due galantuomini. Con loro arrivano “Tarzan” il milanese dai modi raffinati e gentili, ma partigiano deciso ed intrepido come pochi, “Roma”, “Sceicco” e “Pianta”. Tornano a farsi vivi anche “Scandalo” e “Ciprin” che sono usciti dai loro inaccessibili nascondigli.
Qui incontro i familiari di Umberto Tessier un anziano compagno socialista sfollato in queste case ed è una occasione per parlare con loro di cose vicine e lontane.
Qualcuno mi informa che tutte le sere un pattuglione misto di Alpini e Bersaglieri si spinge fino a Santa Vittoria. Sembra che il sergente che comanda il reparto qui abbia una donna e questo particolare è così interessante che merita di essere approfondito perché potremmo anche farci un pensiero sopra e tentare di catturarli tutti. Decidiamo di controllare se la voce è vera ed in caso affermativo domani sera tenderemo l’agguato.
Ora la mia gamba è pressoché guarita e quando passo in testa faccio tirare fuori la lingua a tutti come ai vecchi tempi. Posso affrontare qualunque sgambata e qualunque fatica. La risposta che mi portano “Succo” e “Tarzan” è positiva. Il Pattuglione è tornato ancora ieri sera a Santa Vittoria e si è soffermato per circa mezzora sulla piazza della chiesa. 

Torniamo a farci sentire: catturato
un pattuglione misto di alpini e bersaglieri

È l’occasione buona per tornare a farsi vivi. La sera dopo partiamo. La mia gamba come già ho detto è totalmente recuperata, mentre le croste sulla faccia sono quasi scomparse del tutto. Il piccolo specchio tascabile di Matteo mi conforta. Sono abbastanza presentabile. Con me vengono Succo, Matteo, Roma, Tarzan e Punto. Siamo più che sufficienti. Conosciamo bene il posto e non dovrebbe essere difficile. Per precauzione andiamo ad aspettarli fuori di S. Vittoria. Ci appostiamo a ridosso di una curva e la posizione è così favorevole che con una corda potremmo prenderli tutti al laccio. Stiamo lì un bel po’ ma non succede niente. Non transita neanche un’anima: ascoltiamo soltanto il nutrito gracchiare dei rospi. Ad un certo punto però, saranno circa le 22, ci sembra di percepire in lontananza delle voci e degli schiamazzi. Sono loro. Vengono avanti a due a due, completamente ignari del pericolo che incombe su di essi. Ormai sono giunti a tiro. Dai ragazzi saltiamo. «Mani in alto, siete circondati!». Soltanto uno cerca di fare il furbo e di svignarsela, ma viene abbattuto da Roma con il calcio del fucile. Alzano tutti le mani e li disarmiamo uno per uno frugando bene in tutte le loro tasche. Il Sergente ha il mitra. Sono due volte contento anche perché il mio se lo erano fottuti i tedeschi. Ora siamo pari e torno decisamente a sentirmi, come dire? più vestito. Questo mitra era proprio quello che ci voleva. I prigionieri invece, sei alpini e sei bersaglieri più un sergente serviranno per fare il cambio e salvare così uno ad uno i compagni che erano stati catturati nella baracca di Azaro dai tedeschi. A conti fatti i distaccamenti della Zelasco erano usciti indenni dal rastrellamento, e si trattava di un rastrellamento che doveva purtroppo lasciare la sua impronta nella storia partigiana. Tutti i reparti della Zelasco guidati dai comandanti e dai commissari, che in questo drammatico e difficile frangente dimostreranno il loro grande valore e le proprie capacità, hanno vissuto giorni tremendi, hanno fatto la fame, hanno sopportato il freddo e la pioggia, hanno visto più di una volta la morte faccia a faccia, ma non hanno mollato né subito perdite. Questo è il risultato che più conta al di là delle vicende personali. I fascisti ed i tedeschi danno la caccia a Virgola, al sottoscritto e forse anche ad altri comandanti partigiani e non comprendono che il movimento partigiano si presenta talmente collaudato ed organizzato che se anche un comandante o più comandanti venissero uccisi o catturati la lotta continuerebbe agguerrita lo stesso, perché è il collettivo che rappresenta la forza fondamentale per affrontare le battaglie decisive ed andare avanti fino alla vittoria.

Quadretti della vita della famiglia Succo ben inserita nella quotidianità di Statale di Nè

Da A. Vallerio “Riccio”, op. cit., pp. 311/317. Inizi di febbraio 1945.
L’imboscata tesaci da Atessa

Con questo spirito e con questa baldanza tipica del clima che aleggiava fra noi in quei giorni,  parto con Succo e raggiungo Loto, dove da Luigiotto Azaro, troviamo le necessarie informazioni. Arriviamo sul monte Capenardo con il sole che splende alto sulle nostre teste. In giro tutto è tranquillo. Succo indossa abiti normali, io invece un paio di pantaloni da ufficiale degli alpini. Di quelli, tanto per intenderci, con l’elastico sotto il collo del piede, perché rimangano sempre ben tesi. Sul braccio, per ogni evenienza, porto un impermeabile mimetico da paracadutista.
L’erta in quel punto si fa dura e sia io che Succo avanziamo lentamente. Stiamo avvicinandoci all’ingresso della prima ciappaia. La sentinella partigiana che è ben occultata ci vede e segnala la nostra presenza. Dopo un po’ escono Gomel, Patata e Bios, il comandante del distaccamento. Gli altri fra i quali Fagiolo, Geremia, Sammì, Tranvai, rimangono occultati a fare la guardia ad alcuni prigionieri catturati in questi stessi giorni. Mi appresto a dare alcune indicazioni a Bios ed a informarlo sulla situazione in generale; gli assegno alcuni compiti da attuarsi nei prossimi giorni ed infine gli consegno un po’ di soldi ed un po’ di tabacco. Poco dell’uno ed ancor meno dell’altro; ma è sempre meglio di niente.
Virgola, al momento in cui ero venuto in banda mi aveva onestamente messo in guardia: «Fame, freddo e rischio di morire, ora se vuoi puoi anche rimanere». Non aveva raccontato balle, ed ora bisognava vivere di quello che il convento passava. E poi lo ripeto, nessuno ci aveva chiamati. Stiamo parlando fra compagni che da tempo non si vedono, discutiamo dei nostri problemi che sono enormi e persino impellenti, Quando uno dei nostri, mi pare Patata, improvvisamente lancia un grido che ci lascia tutti esterrefatti: gli alpini! Un reparto della Monterosa, avanzando sul dorsale al coperto, è giunto a non più di 50-60 metri da noi.
Procede a ventaglio, ed appena ci scorgono, gli alpini si buttano ventre a terra e frustati a gran voce dal sottufficiale che li comanda, danno inizio ad un fuoco veemente e violento contro di noi, che sorpresi non possiamo fare altro, dopo aver sparato più per istinto che per altro, alcuni colpi di pistola, di tentare di sbandarci in diverse direzioni.
Io, Succo, Gomel, Bios e Patata cerchiamo di portarci fuori tiro, ma lo sbarramento di fuoco degli alpini è impressionante. Mirano ad infilzarci ad uno ad uno nel tentativo di ridurci in tanti colabrodo. Comanda il reparto repubblichino lo stesso sergente che avevo catturato nell’osteria del Ferrà (fabbro) al Bargonasco, la famosa sera in cui eravamo riusciti a catturare l’intero presidio comandato dal capitano Trevisanato. Questo sergente messo di fronte all’alternativa di rimanere con noi o andare a casa, aveva scelto volontariamente di rimanere a fare il partigiano. Si era dato per nome di battaglia quello di Atessa, dal paese di origine, ma in occasione del grande rastrellamento di Gennaio dal quale eravamo venuti fuori fra le vicissitudini che qui sto ancora raccontando, dopo essersi sbandato era tornato a presentarsi alla Monterosa, raccontando chissà quali bugie ai propri ufficiali per apparire candido ed ancora incontaminato.
Ora tuttavia è ancora qui di fronte a noi sulla cima del Capenardo per cercare di renderci pan per focaccia e se è possibile anche il… companatico! Gli alpini presi con lui al Bargonasco volevano che lo fucilassimo perché dicevano che era, e assai giustamente, un fanatico fascista che durante i rastrellamenti passati si era macchiato di crimini, e di violenze su cittadini inermi. Noi ci siamo opposti a questa richiesta sostenendo che era opportuno lasciare a questo sottufficiale la possibilità di riscattarsi. Eravamo stati ancora una volta degli ingenui. Ora infatti Atessa, si accaniva a gridare “fuoco aiuto munizioni”, nell’intento di infilzarci!
A questo si riduceva la possibilità di riscatto che a lui avevamo lasciato. Che schifo fanno certi uomini, senza fede e senza parola. La storia di questo sergente della Monterosa e tutta Italiana.
Ora ditemi un po’ come sarà possibile ricostruire gli Italiani traviati da 20 anni di fascismo, se oggi si inginocchiano ai tuoi piedi e dichiarano di essere tuo amico, e domani sono pronti a spararti addosso, come adesso sta succedendo sul Capenardo?
Il conto con Atessa rimane comunque aperto. Soltanto le montagne non si incontrano. Non è una minaccia. Se l’occasione si presenterà gli darò soltanto uno sputo in faccia. La più giusta ricompensa al valore che egli si è meritata, sparando contro coloro, che malgrado la volontà dei suoi stessi alpini di farlo fuori, gli hanno salvato la vita. Ora tuttavia Atessa c’è l’ha dal manico e nostro scopo immediato e quello di non farci infilzare come polli. Dopo la prima sorpresa, dalle nostre file partirono alcuni colpi di pistola, io stesso vuoto il caricatore in direzione degli alpini i quali sparano così intensamente che sembra giochino a chi fa più punti al tiro a segno! Non ci resta che battere in ritirata, ed è credetemi, una ritirata disordinata, alla “scappa chi scappa” tanto per intenderci. Cosa potevamo fare in quelle condizioni, allo scoperto e armati di sole pistole? E poiché i colpi cadono fischiando tutto attorno e sollevando zampilli di terra, ed io non posso muovermi come vorrei perché sono i pantaloni troppo tesi ad impedirmelo, mi butto a terra, rompo gli elastici sotto il collo del piede che non mi consentono di correre, eppoi strisciando proseguo a zig-zag per cercare di uscire da questo autentico tiro al bersaglio.

Con me vicinissimo si trova Patata con il quale procedo ad una decisa ed impegnativa operazione di sganciamento. Ed è in questa occasione che posso apprezzare tutto il coraggio di questo partigiano, poco più di ragazzo, che non perde la calma ed ogni tanto mi rivolge persino qualche consiglio su come passare indenni fra una raffica e l’altra, di un troppo petulante mitragliatore nemico. È veramente una sorpresa la grinta di questo ragazzo che è al mio fianco, e credo che in avvenire dovrò tenerlo presente per incarichi di un certo tipo. Ad un dato momento mi accorgo e se ne accorge anche Patata che sono rimasto senza pistola. Mi vengono i sudori freddi. Dio mio, senza pistola e come se fossi morto. Patata urla per farsi comprendere, mentre le raffiche continuano a sibilare tutto intorno a noi, che la pistola è appesa lassù ad un cespuglio ed ora dondola come un balocco appeso all’albero di Natale. Strisciando e saltando a balzelli per sfuggire al tiro a segno cui siamo e continuiamo ad essere sottoposti, probabilmente la pistola, sul cui calcio avevo fissato una catenella si è sfilata dal fodero rimasto aperto ed è rimasta a dondolare dolcemente nel vuoto.
Torno indietro mentre Patata mi esorta a non farlo gridandomi che è una follia, un tentativo di suicidio. “Ne troveremo altre di pistole” aggiunge, ma io sono ormai avviato decisamente per tentare di risalire la china. Non posso rinunciare alla mia Browing a 15 colpi, una pistola di fabbricazione Belga, precisa e rapida nel tiro lungo, che avevo tolto ad un ufficiale catturato. Questa pistola, fra l’altro, costituisce per me l’unica possibilità di difesa, e senza di essa, oltre a considerarmi nudo ed indifeso, ora ho l’impressione di sentirmi persino un inetto. Debbo quindi giocare il tutto per tutto e rientrarne in possesso. Eppoi che razza di comandante sarei senza pistola! Come la prenderebbero i miei uomini quando venissero a sapere che avevo perduto la pistola nell’infuriare di una imboscata nemica? Non ci sono dubbi debbo riprendere la pistola, costi quel che costi. Nessuno potrebbe fermarmi. Neanche il sergente Atessa e i suoi giannizzeri con la piuma sul cappello.

Patata continua a gridare di non andare, eppoi visto che io ho ripreso a salire senza incertezze, si acquatta dietro un cespuglio e segue trepidante le fasi movimentate del ritorno della Browing nel mio fodero. Il sergente Atessa continua ad ordinare di sparare, ma ha paura di lanciarsi allo scoperto, anche perché non sa che io sono disarmato. A mani completamente nude, io continuo a salire, appiccicato al terreno mentre i colpi mi sfiorano dappertutto e Patata disperato mi grida da lontano in modo isterico e sempre più forte di desistere, di tornare indietro. Lo sbarramento di fuoco del nemico è veramente allucinante, i colpi si conficcano dappertutto, ma scandendo bene e con lucidità il tempo che intercorre fra una raffica e l’altra e soprattutto approfittando del cambio di caricatore, riesco a portarmi ad un paio di metri dalla pistola che lucida mi ballonzola davanti come a volermi fare marameo sul naso. Gli ultimi metri sono tremendi e per alcuni attimi di fronte al fuoco incessante che mi sfiora la testa, ho la sensazione di dover desistere. Poi colgo uno di quei momenti favorevoli, faccio ancora un balzo e la pistola è ora saldamente nella mia mano destra.

Sembrerà un paradosso, ma ora non mi sento più nudo e neanche un inetto. Cambia letteralmente l’ottica delle cose. Il Morale, lo spirito, chiamatelo come volete, mi trasmettono una carica eccezionale e riprendo a sganciarmi con l’agilità di un capriolo. Striscio abbastanza rapido da una insenatura all’altra, imbocco un vallotto di scarico dove dentro sono perfettamente al riparo, e scivolando come una biscia, continuo a procedere mentre i proiettili lambiscono la superficie e piano piano riesco a portarmi completamente fuori tiro.
Patata è sparito. Non lo vedo e non lo sento. Faccio un ultimo balzo ma poggio male il piede per terra e mi produco una slogatura alla caviglia. Un dolore lancinante. Non riesco più ad appoggiare il piede per terra. Da un po’ di tempo mi stanno succedendo tutte. Prima la ferita di striscio alla gamba sinistra e tutti quei tagli sulla faccia, ora slogatura alla caviglia destra. Procedo come posso su una gamba sola o aiutandomi con le braccia. Aggiro Loto dove attorno non si vede nessuno. Hanno sentito l’infernale sparatoria sul Capenardo e gli uomini sono subito corsi a nascondersi. Le donne invece si sono chiuse in casa. Di riffe o di raffa riesco a raggiungere la macchia di fronte ad Azaro dove da un po’ di tempo ho trasferito il mio quartier generale, e qui nel bosco fitto con il mio mitra fidato e le bombe a mano rimasti al sicuro, potrò vendere cara la pelle. Mi raggomitolo nella coperta ben protetto nella macchia e cerco di rilassarmi mentre la caviglia mi duole terribilmente. È stata una giornata intensa. Poteva andare anche peggio considerato quanto accaduto. Incominciavo a convincermi che difficilmente sarei morto in questa guerra. Forse poteva accadermi mentre ero seduto su una sedia. I soliti discorsi scemi ed impossibili che si fanno quando si rimane soli con se stessi a indugiare sul latte versato. Rimango sempre con l’orecchio teso per cogliere immediatamente eventuali rumori sospetti. Chissà dove sarà finito Succo? E Bios? E Patata? E Gomel, Fagiolo, Ulisse, Tranvai, Gotti, Sammi, Geremia e tutti gli altri nascosti nella ciappaia con i prigionieri da controllare? Saranno stati scoperti o saranno riusciti ad occultarsi? Gli alpini infatti erano più interessati a sparare dietro di noi che sull’altro versante. Forse perché avevano riconosciuto qualcuno?

Anche Succo riesce a defilarsi!

Forse Atessa aveva riconosciuto me e poiché era un fascista fanatico da tale si comportava. Era deciso a stendermi, forse perché gli bruciava essere stato preso come un tonno, in una notte di autunno, mentre giocava a carte, in un’osteria di Bargonasco. Non gli era andata bene neanche questa volta, però, malgrado l’accanimento con il quale sparava e sollecitava gli altri alpini a fare altrettanto, Atessa come poi vedremo, rimaneva con un pugno di mosche.
Ed è proprio in considerazione di ciò che mi trovavo costretto a considerare che anche questa volta, visto come si erano messe le cose, poteva andare certamente peggio. Forse è così, ma quand’è che si metterà ad andare meglio? In realtà sono assai contrariato per via della distorsione alla caviglia che ora si è gonfiata e solo a sfiorarla mi fa un male cane. Fra l’altro, in queste condizioni, se riuscissero ad identificare il mio nascondiglio sarei bell’è fritto! Sistemo bene le coperte, allineo con ordine le bombe a mano, porto il mitra e relativi caricatori di scorta al mio fianco, ed in questo bosco fitto di vegetazione, incomincio a montare la guardia…a me stesso. D’altra parte, visto e considerato che non posso muovermi, non mi rimane che attendere il rientro di Succo, sempreché anche lui se la sia in qualche modo cavata. Incominciano a cadere le prime ombre del pomeriggio avanzato e lo stomaco che non è mai stato molto delicato, mi fa sentire certi languori di cui non tardo a comprendere né la provenienza né le cause. Non si tratta comunque solo di appetito. Questa è fame, nel senso più completo del termine! Ma guarda un po’ che strano tipo. Sono lì, semi immobilizzato, con il sospetto non certo del tutto azzardato di essere stato avvistato da qualche occhio indiscreto e di conseguenza correre il rischio di essere catturato, e vado addirittura al pensare al mangiare…
Vorrei vedere ognuno di voi al mio posto. A 20 anni, si ha sempre fame, soprattutto quando non si è più toccato cibo dalla sera precedente, e si è trascorsa una giornata così intensa e movimentata come quella che io mi avevo lasciato alle spalle. E non era ancora finita perché l’orologio segnava appena le 16. Sto arrovellandomi fra mille pensieri e le più strane congetture, quando sento improvvisamente un rumore di sassi e di terriccio che scivolano a valle. Impugno il mitra, tolgo la sicura e mi sdraio ventre a terra in attesa che la situazione si delinei.
Nel frattempo non percepisco altri segni estranei, ma avverto tuttavia la presenza, nei pressi, di qualche essere umano. Dopo un po’ ascolto infatti un rumore di frasche eppoi quello di pietruzze che rotolano. Sono pronto a fare fuoco, ma dopo alcuni istanti, mi giunge distinta alle orecchie l’intercalata sarda di Succo che mi chiama a voce bassa nel tentativo di localizzarmi.
È tutto sudato, anche lui reduce da una sgambata incredibilmente lunga e avventurosa. Ma almeno le sue caviglie si sono mantenute intatte. La mia invece si è rivelata un autentico tallone d’Achille! Mi porta alcune informazioni relative alla imboscata che gli alpini ci hanno teso sul Capenardo. Questi ultimi hanno avuto un morto e un ferito che sono stati costretti a trasportare a valle, su due improvvisate barelle. Erano lividi di rabbia e di paura hanno confidato a Succo alcuni boscaioli. L’impermeabile mimetico da paracadutista che portavo sul braccio e che ho dovuto abbandonare, risulta così sforacchiato dalle pallottole da sembrare un grattuggiera da formaggio. Questo è l’unico bottino catturato dagli alpini. Lo fanno vedere a tutti. Magra consolazione.

Gomel, Patata e Bios sono riusciti a defilarsi sotto il fuoco nemico ed ora si trovano in una zona sicura. Patata in particolare, ha vissuto una avventura rocambolesca, ma dopo essere giunto anche lui a Loto, grazie alla lucidità che non lo ha mai abbandonato, anche nei momenti più drammatici dello scontro, ha trovato il modo di occultarsi. Ecco cosa sono capaci ragazzi poco più che adolescenti. E quando confronto i giovani di oggi con quelli di allora, ne ricavo motivi di profonda riflessione ma anche di grande turbamento. È vero che la situazione era diversa. Ma quale impegno, quale senso di dedizione, allora? Fino a rischiare la vita. Oggi anche i giovani, più impegnati, politicamente parlando, magari sono capaci di discutere, al punto che i loro interventi possono anche riuscire a strappare l’applauso, ma fra il dire e il fare, che da allora ad oggi si è scavato un baratro.

La milizia politica, le ragioni ideali, il modo stesso di concepire la propria appartenenza ad un partito, sono profondamente mutati rispetto ad allora, anche in quegli stessi partiti, che per tradizione, erano considerati da questo punto di vista una specie di “chiesa”. Oggi si inseguono le grandi idee ed anche i grandi discorsi, ma si trascura il legame con le masse, la battaglia giornaliera sulle cose piccole, solo perché tutto ciò costa lavoro, sacrificio e tanta fatica. A questo modo, partiti tradizionalmente operativi ed organizzati come il PCI rischiano di trasformarsi in partiti di opinione o di quadri, con il risultato, che siccome i propri militanti non lavorano e non producono politica fra le masse come dovrebbero e come sarebbe necessario, il risultato sarà e già è, che non fanno neanche… opinione, come invece la situazione esigerebbe.
Ed io credo che anche da questo punto di vista, la lezione della Resistenza costituisca un preciso punto di riferimento, soprattutto per i giovani di oggi che hanno il compito di perfezionare, di concretizzare, di completare l’opera iniziata allora, quando per vivere dovevi essere disposto a sacrificarti a lavorare ed anche a morire.

Ma torniamo nel bosco di Azaro dove si respira un’aria ancora ricca di speranza nei confronti del tormentato domani che ci siamo prefissi di conquistare. Il distaccamento di Bios è riuscito a rientrare non visto, nella ciappaia: gli alpini erano troppo impegnati sull’altro versante a sparare nei nostri gropponi per vedere gli altri che sgusciavano nel loro provvidenziale nascondiglio.
In sostanza gli unici ad avere avuto perdite, un morto ed un ferito, erano stati loro, gli alpini. Ciò poteva apparire incredibile e per certi aspetti persino umoristico. Noi avevamo sparato una decina di colpi di pistola in tutto, nel tentativo di arrestare il fuoco veemente degli alpini, che ci tiravano addosso da tutte le parti, ed avevano causato loro, addirittura due vittime. Per contrasto quelli della Monterosa al comando di quel bastardo di Atessa, ci avranno vomitato addosso, non esagero, centinaia e forse migliaia di proiettili, che avevano finito letteralmente con il vangare la costa est del Capenardo, ma salvo l’impermeabile mimetico, non erano riusciti neanche a scalfirci.
Che pessimi tiratori! Forse è anche perché sparavano con la paura in corpo, ed in quelle condizioni si finisce con lo sparare dove capita.Tutto sommato si trattava quindi di un bilancio positivo, pur nel quadro di una circostanza disgraziata. Sono stati gli assalitori, coloro che ci hanno teso l’imboscata, ad aver riportato i danni più gravi e consistenti. In un certo senso quindi, possiamo dire di aver vinto lo scontro. “Roba da matti” direbbe Leone! Un morto, più un ferito, contro un’impermeabile sforacchiato ed una caviglia slogata, credo costituisca per noi, un risultato persino insperato, visto come si era messa la faccenda all’inizio. Potevamo infatti, essere annientati tutti, ed invece, eravamo riusciti, una volta di più, a farla completamente franca. Le pelle storte, o se volete i matti, riescono sempre a cavarsi d’impaccio. Cristoforo Colombo non aveva forse sentenziato: “e pelle grame i nu mou?” (Nda. “le pellacce grame non muoiono mai!). E a noi non dispiaceva, anche per questo, essere considerati “pelle grame” ed un poco matti. Resi più sereni dalle notizie e dal bilancio dei danni, decidiamo di attendere un paio di giorni all’interno del bosco. Ma bisogna cercare dei viveri, ed insieme ad essi, anche qualche farmaco, capace di fare sgonfiare ed a rimettere in sesto questa mia maledetta caviglia.

Succo parte, procede al coperto fino in fondo alla valle, e nel giro di un quarto d’ora è già ad Azaro eppoi a Campomoneto. Dopo circa un’ora è di ritorno e la bisaccia che porta a tracolla risulta piuttosto imbottita. Ha portato con sé una focaccia da contadini intera, una formaggetta, della polenta fritta, una bottiglia di latte e due fiaschi d’acqua. È riuscito anche a scovare una mezza bottiglia di vegetallumina per fare gli impacchi alla mia caviglia malandata.

Da A. Vallerio “Riccio”, op. cit., pp. 389/391, marzo-aprile 1945
POTEVA ESSERE UN’ALTRA GATTEA. LA CALMA E IL SANGUE FREDDO DI SUCCO

(N.evb: il 30/12/1944 un contingente formato da tedeschi e due compagnie di alpini della Monterosa, riesce a infiltrarsi, non avvistato, tra le linee partigiane della Coduri, e a sorprendere un intero distaccamento partigiano che stava riposando dentro il casolare di un vecchio mulino in disuso, in Località Gattea di Valletti. Ne scaturisce un terribile scontro a fuoco che pone gli assalitori in vantaggio logistico perché non visti riescono a circondare il casolare. I partigiani, appena resesi conto della situazione, cercano di reagire ma vengono sopraffatti. Il bilancio è pesante e dolorosissimo: 8 partigiani morti; 3 feriti e 32 fatti prigionieri, contro nessuna perdita nelle file nemiche. (Cfr A.Vallero e M.Tasso, op. cit., pp. 262/276).

Sanno di essere odiati!
Ogni tanto mettono il naso fuori dalla finestra (si fa per dire) e si spingono in periferia. Qualche volta arrivano fino alle prime case fuori di S. Vittoria.
In queste occasioni, peraltro sempre più isolate e sporadiche, si registra la solita sparatoria, che avviene ormai da settimane, senza che nulla cambi, e che consente ai nostri mitragliatori di non perdere il ritmo e neanche la mira.
“Succo” che con il suo distaccamento si è mosso nella notte per andare a fare visita ad un gerarca fascista e per mettere fuori uso un pezzo di strada, se la vede brutta, e rischia di essere annientato con tutto il suo distaccamento.
Si trova con tutti i suoi uomini al c.d. “Colle della Matta”, a cavallo tra Frisolino e Monte Domenico, in una zona che presenta più di un’insidia, ma che se vogliamo può anche essere considerata relativamente tranquilla. I partigiani che avevano camminato tutta la notte sono stanchi e dormono come possono, parte in un vecchio casone, e parte nel pagliaio. Fuori comunque fanno buona guardia sentinelle e pattuglia. Ad un certo punto scatta l’allarme. È da poco che si sono addormentati e qualcuno impreca, mentre altri continuano il sonno. Ma “Succo” balza in piedi ed è subito padrone della situazione.
I compagni che coprono i due versanti scoprono in direzione di Frisolino, un centinaio di alpini della Monterosa che salgono circospetti cercando di non fare rumore. Può succedere un’altra Gattea se non stanno attenti. La posizione è sicuramente migliore, ma il rischio uguale, davvero grosso.
I compagni della pattuglia informano “Succo” che lì per lì crede sia uno scherzo e si arrabbia persino, ma quando poi si rende conto della situazione, prende misure immediate, impartisce ordini secchi, precisi, piazza gli uomini e da una finestra cerca di inquadrare esattamente la situazione. Gli alpini sono già in posizione, esattamente come alla Gattea, le piume dei loro tradizionali cappelli grigio-verdi, fanno capolino, ogni tanto, fra le eriche e fra i giovani piccoli alberi di pino della estesa e lussureggiante fascia boschiva.
Lo scontro è inevitabile, ma “Succo”, che è un combattente tenace, ma anche uno, che non perde la calma tanto facilmente, dimostra in questo frangente, la sua intelligenza tattica e tutto il suo valore.
Passano alcuni istanti ed in giro non si vede neanche una “piuma” e non si sente un’anima.
Neanche il lieve battito d’ali di una farfalla. Soltanto uno scoiattolo, ad un dipresso, continua a schiacciare ed a divorare, goloso, un pinolo dopo l’altro. Gli fa eco più lontano il coccodè di una gallina del pollaio della Matta, che probabilmente ha appena fatto un bell’uovo fresco. Improvvisamente gli alpini, che a quanto pare, non se la sentono di arrischiare più di tanto, malgrado il chiaro vantaggio che hanno sul distaccamento partigiano, incominciano a sparare con i “ta-pum” e con raffiche brevi delle loro mitragliere. “Succo” dà allora ordine di mettersi tutti in posizione, ma di sparare solo ad un suo preciso comando.
Si volta, guarda ad uno ad uno i suoi uomini ed ammonisce fermamente con un gesto assai eloquente i più irrequieti che vorrebbero subito aprire il fuoco ed entrare in azione. Ciò detto esce [fuori] come se vi fosse stato catapultato, seguito da Smilci il partigiano “Tarzan” che è il vice comandante del distaccamento, da “Argo”, un ex alpino di Bergamo, da “Parma” e mi pare anche da “Bandito”. Sono solamente in cinque, ma la loro reazione è così violenta e precisa che gli alpini rimangono sorpresi e qualcuno di essi comincia a sbandarsi. “Succo”, che solitamente la mette sempre sullo scherzo, non perde il buon umore neanche in questa occasione, e sventagliando raffiche in ogni direzione su ogni “piuma” grigioverde che intravede fra le sterpaglie, come se invece di alpini si trattasse di galline, invita energicamente tutti i suoi uomini ad uscire con ordine, prima dal casone, poi dal pagliaio ed infine a portarsi al coperto. La situazione era disperata, ma “Succo” la sta sicuramente raddrizzando.
È uno sganciamento così perfetto, da apparire quasi una esercitazione, un allenamento e nel giro di pochi istanti “Succo”, che è assai pratico del posto, riesce a guidare il suo distaccamento fuori tiro ed a portarlo al sicuro.
“Argo” (Luciano Gallizzi di BG) s’è buscato una pallottola in una coscia, ma aiutato dai compagni riesce a camminare ed a proseguire. Più dolorosa invece risulta la ferita di “Parma”, un compagno, che già allora dissertava disinvolto sulle teorie di Lenin e di Marx, come se fosse gomma da masticare, ed i compagni del distaccamento, che sono una comunità fra le più affiatate della “Zelasco”, riusciranno, dopo avergli praticate le prime cure a portarlo al sicuro.
Gli alpini intanto, che hanno avuto tre morti ed alcuni feriti, dopo aver letteralmente bombardato il casone, e visto che ormai dal di dietro non giunge palpito di vita, partono all’attacco e catturano uno dei nostri, che forse in preda alla paura si era ficcato non visto da “Succo” in un nascondiglio.
Ed è infatti qui che gli alpini lo troveranno. Gli andrà bene perché aveva la presenza di spirito di liberarsi delle armi. Se la caverà infatti con qualche pugno nei denti e tanta paura.
Ormai siamo alla fine e gli alpini sanno che la resa dei conti è imminente e sanno altresi che chi semina vento può raccogliere tempesta. Forse solo per questo, il nostro compagno catturato riuscirà a metterci, come si suol dire, una pezza.

 

Succo” torna a piazzarsi a Iscioli, ma un posto di avvistamento permanente con a protezione una squadra di 15 partigiani, sarà immediatamente installato anche qui, al colle della Matta, crocevia assai importante da mantenere sotto controllo. Siamo verso i primi di Aprile.
Intanto “Succo” si mette ancora in azione. Parte con alcuni uomini per andare a farsi consegnare le armi da un ufficiale della X Mas che ha la famiglia sfollata, in una casa nelle vicinanze (N.evb: in una località detta “dau Pin”) dal “Pino”) che è giunto in licenza dalla Garfagnana.
“Succo” bussa, ed aperto l’uscio si qualifica. Siamo partigiani, non vogliamo fare del male a nessuno: vogliamo solo le armi. L’ufficiale che è in borghese, tergiversa, si alza dal tavolo attorno al quale si trova tutta la famiglia, eppoi sorprende “Succo” riuscendo ad estrarre la pistola. Dalla pattuglia partigiana parte una raffica. Il tenente si abbatte. Il padre di questi, che siede al suo fianco, si alza e cerca di strappare l’arma dalle mani del partigiano che ha fatto fuoco. Parte un altro colpo ed anche il padre cade fulminato. È una tragedia grande. Poteva ancora essere più grave, perché tutto si è svolto alla presenza di altri congiunti, in particolare di donne e bambini.
Sarebbe bastato consegnare le armi, ma questo benedetto orgoglio del militare che non vuole ammainare bandiera, o forse lo stesso fanatismo che sorregge certi ufficiali che hanno aderito e continuano a militare nella Repubblica di Salò, hanno indotto il tenente ad opporre resistenza, incurante di tutto ciò che in quel momento lo circondava.
Incontro “Succo” al ritorno di questa azione, ed è visibilmente amareggiato. Siamo tutti veramente dispiaciuti, ma purtroppo è la guerra, e noi che paghiamo più di ogni altro ben lo sappiamo.
I fascisti sono furibondi e decidono la rappresaglia. La famiglia del tenente potrebbe opporsi, forse si oppone, ma due giorni dopo i fascisti al comando di Barbalace e di Padre Illuminato, fucilano sul posto, sei partigiani per rappresaglia. Si tratta dell’episodio del quale, parlando delle responsabilità del tenente Barbalace, che allora era fidanzato con la sorella del tenente della X Mas ucciso da “Succo”, [ho] già prima riferito. È una guerra tremenda.
E gli ultimi giorni sono i peggiori.
In questo clima viene a trovarmi, da Balicca, Mario Vidali, figlio del fattore che dirige la fattoria Pallavicini e che dovrà diventare, in seguito, direttore della filiale della Banca d’America di Sestri Levante. Mario, è un amico mio, da tempo, ed i suoi sentimenti sono antifascisti. Non parliamo di politica, se io sono comunista, di lui delle sue idee non so niente, e a dire il vero neanche mi interessano.
Di queste cose avremmo tempo dopo per discutere, confrontarci, se sarà il caso, anche scontrarci e litigare, ma oggi, è necessario unire tutte le forze, tutte le energie, e tutte le idee, e fare blocco contro i tedeschi ed i fascisti, i cui ultimi colpi di coda, possono essere devastanti […]

 

Da A. Vallerio “Riccio”, op. cit., p. 626
ANGELO MONNI “MATTEO” e PIETRO SECHI “SUCCO”
Due guardie di finanza diventati partigiani e una coppia di sardi affiatata e ben assortita

 Due fra i più caratteristici e singolari partigiani della “Zelasco” sono stati “Succo” e “Matteo”, conosciuti da un sacco di gente anche come i due sardi o i due finanzieri.
Appartenenti al corpo delle guardie di Finanza, “Succo” e “Matteo” raggiunsero la nostra banda in montagna, dopo aver lungamente e proficuamente collaborato in città fra le maglie del movimento clandestino antifascista.

(n.evb) Per chi non ha dimestichezza con la lingua sarda offriamo una traduzione in italiano eseguita dalla figlia di Succo, signora Pina Sechi, che ringrazio: [… Qui ebbe la possibilità di dare uno slancio ai suoi ideali di libertà e di antifascista in quanto mai accettò l’oppressione e l’arroganza di un regime scellerato. Entrato nella clandestinità tra i ranghi partigiani della Divisione Coduri, rimanendo pero’ al posto di servizio, dove poteva controllare meglio l’attività del nemico e aiutare meglio i compagni della montagna Angelo Monni scelse come nome di battaglia “Matteo”, nome del santo protettore della G.di Finanza.
Matteo, con una propaganda seria e convincente, divenne maestro di proselitismo riuscendo a far disertare gruppi consistenti di alpini, già reclutati nell’esercito repubblichino di Salo’. Grazie a lui, infatti, molti alpini passarono alla Coduri con tutto l’equipaggiamento, armi e munizioni comprese. Per questo motivo, Matteo venne elogiato con encomi solenni dal suo comandante di Divisione…
In seguito, scoperto e segnalato, venne ricercato dalla Questura repubblichina di Genova, per questo motivo dovette lasciare il proprio reparto…].

Simili in tante cose, ma alquanto diversi nel temperamento e nel carattere, i due isolani si sono subito adattati alla comunità partigiana, tanto che dopo poco tempo si erano guadagnata al tal punto la fiducia degli uomini e dei responsabili della formazione, da essere entrambi nominati comandanti di distaccamento.
Più misurato, più prudente “Matteo”, più dinamico e persino focoso “Succo”, non era rado vederli disputare con foga e con calore sulle loro quasi sempre diverse valutazioni dello stesso fatto o della stessa cosa.
“Matteo” che intercalava il suo dire con un caratteristico e frequentissimo “o no?”, si dilettava a fare piani strategici a largo raggio, ma aveva il torto di attendere troppo a lungo il momento opportuno per attendere la loro effettuazione che così continuava a rimandare nel tempo.
“Succo” al contrario era per le cose meno elaborate, più semplici e quindi più concrete se non addirittura immediate, per cui puoi tranquillamente dire che si trattava di due grandissimi amici, capaci di dare entrambi la vita per l’altro, ma che pur tuttavia risultavano alquanto diversi, soprattutto quando si trattava di passare dalle parole ai fatti.
Finì infatti che ognuno dei due aspirò a diventare più autonomo nei confronti dell’altro. Cosi avvenne il divorzio fra due anime gemelle, che pure si volevano assai bene, ma che per ragioni del resto comprensibili, preferivano essere inviati ad operare in due diversi distaccamenti.
Qui ognuno fece la propria strada, e la fecero entrambi così bene, da essere alla fine considerati, non due belle figure partigiane, ma decisamente due fra i più importanti primattori, fra i tanti primattori che abbiamo avuto nella brigata garibaldina “Zelasco”.
Ricchi entrambi di grande umanità e di senso del rispetto, “Succo” e “Matteo” costituiscono, per me in particolare, un esempio vivente e forse irripetibile di come e di cosa si debba intendere con la parola amicizia.
Eravamo bloccati su un bosco sulla spalliera di Azaro (n.evb: Azaro, piccola località che s’incontra lungo la strada S.Vittoria-Loto), e poiché risultavo ferito al collo del piede sinistro, “Succo” e “Matteo” mi assistettero facendo la guardia continuamente, senza chiudere per diversi giorni e diverse notti, e con uno zelo ed un impegno tali, da pensare che stessero proteggendo Giuseppe Garibaldi. Avevano in saccoccia un pezzo mica tanto grosso di lardo, ma loro si cibavano solo e sistematicamente di erbe di bosco, che dicevano essere roba rara e squisita, per lasciare tutto a me il lardo, in quanto asserivano, dovevo recuperare rapidamente il sangue e le forze perdute per poter tornare al più presto possibile ad assolvere attivamente al mio compito.
Riusciamo a collocare un ragionamento di questo tipo nel tempo in cui viviamo dove gli uomini sono abituati a pensare solo alla pancia propria?
Erano circostanze diverse? Sicuro, ma diversi, se permettete erano anche gli uomini, membri di una generazione che a questo riguardo, ha scritto pagine memorabili e irripetibili!
Due compagni meravigliosi, dalle personalità e dalle caratteristiche non convergenti, ma uguali, tanto uguali nell’intendere la lezione della vita, nell’interpretare e valutare il senso della solidarietà e della amicizia, che come ho detto, gli portava persino alla rinuncia di cibarsi, per consentire al loro comandante, molto più giovane rispetto alla propria età che li faceva già uomini maturi, di poter tornare al ruolo e ai compiti che su di lui incombevano.
Dopo il 25 Aprile sono tornati ad essere Guardie di Finanza con il grado di brigadieri, e quando poi dopo diversi anni, per limiti di età, e finito il loro impegno, non hanno saputo resistere entrambi al fascino ed al richiamo della loro tanto amata e mai dimenticata Sardegna: si sono imbarcati e sono partiti. “Matteo”, quello che aveva studiato le scarpe con la suola di gomma, per poter meglio arrivare di sorpresa sulle sentinelle nemiche, e che insegnava ai suoi uomini la tattica partigiana muovendo sullo scacchiere le patate, è morto nel frattempo e noi ne siamo stati informati tanto tempo dopo. Riposa in pace caro compagno. Uomini come te meritano di essere ricordati e citati d’esempio!
Soprattutto ai giovani che si sono trovati in un certo senso la pappa fatta e sprecano il fiato a contestare tutto e tutti, invece di rimboccarsi le maniche e battersi e lottare per cambiare concretamente senza inutili strilli, questa società di merda, che neanche assomiglia a quella per la quale “Matteo” ha sofferto, ha lottato con le armi prima, e con la lotta democratica dopo, quando aveva raggiunto l’età della pensione.
“Succo” invece risulta essere vivo e vegeto ed in perfetta salute malgrado gli anni che cominciano a pesare. Risiede ad Oschiri e le sue forze gli consentono ancora di accudire e di gestire un allevamento di conigli.
Agli amici che ogni tanto lo vanno a trovare e lo incontrano, racconta volentieri i suoi trascorsi nella Resistenza.
Ricorda con lucidità uno per uno gli amici, i compagni, i comandanti e continua a dire e ha promettere che un bel giorno finirà col decidersi di ritornare per alcuni giorni sul “continente” a visitare i luoghi dove, quando si chiamava “Succo”, ha fatto il partigiano. E guarda il mare, mentre una lacrima brilla nei suoi occhi un tempo così decisi ed ardenti.
La stessa lacrima che pensando a lui, fa riscontro nei nostri occhi.

Cfr ivi, Fasc. 5 – Doc. 9 bis: B. Monti “Leone”, comm. Div. “Coduri”. Genova XXV Aprile 1980. “Testimonianza storica sulla spia Ossegna Pappalardo e il degno compare Pisa”

Una domenica sul finir dell’Ottobre 1944, in un dopopranzo festivo, mentre al Comando partigiano a Valletti vi erano affluiti alcuni partigiani dei distaccamenti più vicini e ci si intratteneva a conversare, erano circa le 15, quando improvvisamente entrava un tizio (che poi avrebbe preso il nome di battaglia “Pisa”) il quale presentandosi come medico inviato dal direttore dell’Ospedale di Albareto per prendere visione sull’attrezzatura sanitaria e i medicinali giacenti della formazione, chiedendo di vedere l’infermeria e che lui sarebbe stato disposto a dare una mano per degli eventuali rifornimenti sulle carenze. Volle il caso che tra noi in quel pomeriggio vi fosse il dr. “Canna” Giorgio Canale, direttore del nostro Ospedaletto da campo situato in Valletti. Virgola, senza esitare, invitava Canna e l’interlocutore a seguirlo in un appartamento appena sopra il Comando che fungeva da infermeria, dove vi era qualche partigiano degente. Tra i rimasti vi fu qualche perplessità sul modo in cui si era presentato il sedicente medico, senza nessun documento di presentazione ecc. ecc. Allora il sottoscritto raggiunse l’infermeria, dove vi era Virgola con Canna e notava che con tanta sfrontatezza il presunto medico impartiva proprio a Canna istruzioni sulla cura terapica da adottare a un partigiano effetto da tracheite. Quando ebbe finito mi avvicinai a lui in modo garbato chiedendogli se poteva ripassare al Comando prima di andarsene per parlare in merito alla sua eventuale opera medica in formazione. Dopo un po’, in compagnia di Virgola e Canna scendeva tra noi e lì lo sottoposi subito a delle domande indagatrici sul suo arrivo, senza una documentazione di presentazione e delle credenziali di qualcuno che poteva garantire la sua presenza, scusandomi diplomaticamente dicendogli che se era partigiano non doveva offendersi, ma apprezzare l’azione. Mentre si guardavano le foto, la carta d’identità e altri documenti che teneva nel portafogli su cui io lo tempestavo di domande, forse, sentendosi imbarazzato mi disse: chiedilo a quello là chi sono, che lui mi conosce bene. Dato che gli giravo le spalle a colui che mi indicava, mi girai di scatto per guardarlo e non conoscendolo dissi: chi è costui? (Quello era il Pappalardo). Intervenne immediatamente “Foce” Fossati, che di lui noi avevamo la massima fiducia, dicendomi: “Leone, questo lo conosco io e mi ne rendo garante”. L’intervento di Foce smorzò un po’ il nostro comportamento ostile nei riguardi del Pisa e continuando sul dialogo medico convenimmo che egli si tenesse in contatto con Canna per eventuali collaborazioni mediche.

Dopo una settimana, […] andai da Canna e seppi dallo stesso che il Signore in parola quasi tutte le mattine si presentava sul mezzogiorno per magiare e che non faceva nulla, e prima di partire prendeva anche degli alimenti per portare in famiglia che era sfollata ad Ossegna (da indagini fatte pure Pappalardo risiedeva ad Ossegna con la famiglia). Gli dissi a Canna che quando sarebbe ritornato di mandarlo al Comando […] e dopo uno scambio di opinioni sull’attività medica da svolgere ci sedemmo per pranzare. Io avevo preso posto al suo fianco mentre Virgola gli stava di fronte. Dopo circa un quarto d’ora entrava Saetta a comunicarci che aveva predisposto perché saltasse il ponte di S. Lucia. In quel mentre, io che non levavo gli occhi su di lui, per qualche istante ri­masi agghiacciato per il suo sconcertante atteggiamento: vidi i suoi occhi torvi e scrutatori, le orecchie si erano appuntite in ascolto come quella dei conigli. Il mio istinto mi suggeriva di strozzarlo, […] e feci un cenno a Virgola perché mi seguisse. Quando fummo nella cameretta soprastante gli confidai quanto avevo visto, intuito, che non mi sbagliavo affatto sul giudicarlo una spia, e che ne ero tanto sicuro che l’avrei liquidato all’istante. Ma ecco che Virgola dopo di avermi sentito, con la sua nota saggezza mi disse: “Leone, lo fac­ciamo pedinare da due nostri partigiani”. […] Erano quasi cinque ore che durava l’interrogatorio, […] senza aver ricavato il minimo sufficiente. […] Alle 21 come era stato stabilito, “Moschito” con altri due partigiani che erano i suoi angeli custodi vanno a prelevarlo alla mensa che era sopra al Comando e mentre lo accompagnavano, quello, con un uno strattone, si svincolava e nelle tenebre riusciva a dileguarsi. Fuggendo si era slogato un piede e zoppicando si era portato sulla strada di Centocroci dove s’imbatté in una pattuglia della “Centocroci” che lo fermarono e lo interrogano, […] lui  ammetteva di essere partigiano della Coduri e di essere in missione per Bedonia, ma essendoci sorti dei dubbi lo portarono al loro Comando, e venne riconosciuto essendo stato con la loro formazione, in precedenza, per qualche giorno, con un certo Pappalardo, i quali avendo avuto sentore e dei dubbi su di loro si dileguarono. Il giorno dopo il Comando della Centocroci, tramite un loro corriere, mandarono al nostro Comando una nota in marito: asserendo di aver preso nella notte il suddetto fuggiasco, il quale dichiara di essere partigiano della Coduri, ma dato che lo stesso in precedenza era stato con loro per qualche giorno, insieme ad un certo Pappalardo e di avere dei motivi di dubitare che fossero agenti della Ghestapo, se avessimo con noi il Pappalardo di consegnarglielo per essere processati.

Noi che avevamo il diritto di chiedere il Pisa per essere sottoposto al nostro giudizio con il Pappalardo, […] ritenuto opportuno consegnare ad essi anche il Pappalardo con premessa che al processo fossimo presenti anche noi. Invece non fu così perché […] li processarono a nostra insaputa, lasciandoli liberi per mancanza di indizi. Ovviamente il Pisa che aveva dei conti da pagare con noi non si presentò, mentre il Pappalardo si ripresentava dicendo che a suo carico non erano emerse alcune colpe e che lui se lo si accettava era disposto a conti­nuare la collaborazione. […] gli dissi che noi eravamo in quel momento molto occupati e di non aver tempo di pensare a lui e che si recasse per un certo periodo presso la propria famiglia in attesa che lo mandassimo a chiamare. Ma ecco che dopo una settimana si presentava con una proposta: che lui ormai, avendo perso la fidu­cia nostra, aveva pensato di andare oltre il fronte presso i suoi genitori nel meridione e che avrebbe lasciato la famiglia a Ossegna aiutata da qualche famiglia contadina del luogo per gli alimenti e che sarebbe ritornato a fine guerra per sistemare ogni cosa. Venne accettata la sua proposta con un certo sollievo, […] Purtroppo dopo 4 giorni era di ritorno […] perché in quei giorni vi era un servizio stretto di vigilanza nemica da non poter passare. […] verso la fine di novembre del c.a., quando la Coduri scese su Lavagna, dopo qualche giorno una giovane donna di Sestri Levante, la quale di tanto in tanto si recava al Comando per ottenere dei permessi per il trasporto di generi alimentari, venne da noi e in disparte mi confidava che il giorno prima della notte che si scese su Lavagna, lei si trovava nella sede dei fascisti di Sestri Levante per avere un lasciapassare, in quel mentre entrava un tizio con occhiali neri e un bastoncino il quale informava il tenente delle brigate nere che i partigiani durante la notte sarebbero scesi su Lavagna, ciò che il tenente non voleva credere tanto era ritenuta azzardata l’azione, ma lui ha più volte insistito e quindi se n’è andato, […] Andai direttamente da Virgola a informarlo e a chiedergli se il Pappalardo fosse stato con loro, il quale non essendo certo mi disse di domandarlo a Naccari o ad altri. […] Dalle indagini esperite risultava che il Pappalardo era presente all’azione e che si era allontanato solo per un breve periodo di tempo, circa un’ora per una missione esplorativa nella zona senza precisare la meta prefissa. Dato che il tempo segnalato sulla sua assenza non poteva essere sufficiente a coprire una sua eventuale scappata a Sestri, perché come minimo da Loto a Sestri e ritorno ci sarebbero volute 3 ore a farle di corsa, sorsero delle perplessità. Ciò nonostante, dato che era scesa la sera, pregai la giovane perché cortesemente ripassasse all’indomani, allo scopo di mandare a chiamare l’individuo per farglielo vedere di nascosto onde accertare se era lui. (In seguito si seppe che era lui la spia segnalata dalla donna al Comando fascista). […] e poi con il pretesto che gli mancava 1’aria, usciva dalla tana preparando l’infame delazione che portò alla cattura degli otto partigiani su accennati. La losca figura non si limitò solo a quella delazione, ma pensando che i partigiani in quell’azione sarebbero stati vinti e finiti, si mise apertamente alla testa dei nazi-fascisti portandoli in ogni luogo dove vi erano state le dimore partigiane, facendo bruciare le case dei collaboratori e i loro arresti ecc. ecc. […] Dopo il rastrellamento ovviamente lasció la montagna e si mise liberamente ad ope­rare giù in città. Venne pedinato e seguito ed una volta poté sfuggire per sua fortuna. Vennero così le giornate insurrezionali e la Liberazione: al giorno 26 Aprile 1945, i partigiani Succo e Matteo facenti parte della Guardia di Finanza, si recarono a Genova al loro Comando per riprendere i contatti e il loro incarico e conversando con dei loro colleghi seppero che poco prima di loro si era presentato, per essere preso in servizio, un certo Pappalardo il quale ammetteva di aver appartenuto ad una formazione partigiana del Levante, ma che non essendosi stato in quel momento il Comandante gli dissero di passare all’indomani mattina. Essi dai connotati avuti pensarono che fosse la spia “Ossegna”, e messesi d’accordo con i colleghi lo sorpresero al Comando e lo portarono al Comando partigiano della Coduri, in Via delle Palme a Chiavari. Venne processato, giudicato colpevole dei crimini commessi e in seguito fucilato. Prima di morire, forse pentito, disse: sono colpevole e faccio schifo a me stesso.

Il suo degno compare Pisa, che non avevamo più visto, da criminale nato, nell’estate 1945 si recava in zona con un complice, prendendo alla stazione di Sestri Levante un taxi e arrivati sulla strada sotto il Santuario di Valva uccisero l’autista depredandolo dei portafogli e dell’autovettura, con la quale raggiunsero Genova, dove di lì a qualche giorno venivano presi e processati, con una condanna a 24 anni di reclusione.

Imbracciato un “bren” iniziava a sparare…

Brano tratto da “Come sul Penna e sul Zannone… per la storia della Coduri i partigiani raccontano” giornale stampato il 2 giugno 1959, come numero unico, di 8 pagine e diffuso durante la 1a riunione della costituenda commissione “Per la storia della Coduri” voluta e presieduta ancora dal suo stesso ideatore, il comandante “Virgola” (1915/1959).

… erano stanchi come… bracchi. Avevano marciato per tutto il giorno e buona parte della notte ed ora non ne po­tevano più. Succo, il comandante del distaccamento decise di aspettare l’alba al Colle della Matta. Entrarono nel­la casa abitata da una famiglia di contadini e dopo aver lasciato uno di guardia, vinti dalla stanchezza, si addormen­tarono. Le ore passarono veloci come minuti, ed improv­visamente il sonno dei parti­giani fu rotto dallo sgranare di una vicinissima mitragliatri­ce. Era accaduto questo. Una compagnia di alpini si era ap­postata proprio davanti alla casa della «matta» ed ora aspettavano di effettuare il… tiro al piccione. Benché assonnato Succo si rese imme­diatamente conto della gravi­tà della situazione. Parlò quin­di molto chiaro ai suoi uomini: «Bisogna uscire, perché se stiamo qui dentro facciamo la fine del topo».
Ma la mitragliatrice nemica spazzava tutto il cortile, e guadagnare una via d’uscita era alquanto problematico. Resosi conto che più passa­vano i minuti e più la situa­zione si faceva difficile, Succo non aveva esitazioni. Imbrac­ciava un «bren», usciva al­l’aperto e iniziava a sparare contro la mitragliatrice nemi­ca. Approfittando dello smar­rimento degli alpini, i parti­giani, uno per uno riusciva­no a guadagnare l’esterno, mentre Succo, una volta si­curo che tutti i suoi uomini erano ormai fuori della casa accerchiata, strisciando e spa­rando si metteva a sua volta al sicuro. Poi con calma e con ordine, l’intero distaccamento si sganciava senza alcuna per­dita, mentre il nemico lamentava morti e feriti. (Articolo s.f.).

Da A. Vallerio “Riccio”, op. cit., p. 436
IN GIAPPONE SI CONTINUA A SPARARE…
L’INCONTRO CON PALMIRO TOGLIATTI

La guerra è finita, ed in Italia quasi non c’è posto per noi. In Giappone invece si continua a sparare e ancora si muore. Perché non andare laggiù?
Abbiamo 20 anni o poco più, siamo pieni di ardore, ed il mondo ha altre dimensioni. Sono pronti a partire un centinaio di partigiani Zelasco e della Dell’Orco. Otteniamo un salvacondotto per andare a trattare con Roma, a firma del Col. Ardesio del Comando Regionale Ligure.
Un reparto partigiano italiano, al fianco degli eserciti alleati in Giappone, sarebbe un fatto importante, anche agli effetti del ruolo e della valorizzazione a livelli internazionali della stessa Resistenza Italiana.
Io, Scoglio, Succo e Gronda, siamo pronti per partire ma non riusciamo a trovare una macchina.
Studiamo uno stratagemma, e rischiamo con ciò di giocarci tutta la reputazione. Scoglio invita il dottor Cosenza, Commissario di P.S. a Chiavari a prendere un caffè alla Taverna Bianca di corso Millo. Io nel frattempo, non visto, mi impossesso della macchina dello stesso dottor Cosenza, con il quale siamo in buonissimi rapporti. Non crediamo che si arrabbierà. Continua a ripetere in giro che io e Scoglio siamo come suoi figli. Ed ai figli poi si finisce col perdonare…
Arriviamo a Roma e grazie alle nostre divise (siamo ancora tutti armati di pistola) e soprattutto grazie alle nostre “grinte”, riusciamo a farci ricevere da Ferruccio Parri, che è presidente del consiglio dei ministri.
Si porta i suoi occhiali ben alti sulla fronte, ci ascolta con simpatia ride ed infine ci manda dal Ministro della Difesa, il liberale Jacino, con una sua personale raccomandazione. Ci sono dei generali in anticamera, pieni di greche e con mezzo metro di nastrini sul petto, ma entriamo prima noi che ostentiamo soltanto i gradi di ufficiali del corpo volontari della Libertà. Siamo fatti così. Il Ministro della Difesa si dichiara impotente, non può fare nulla. Apprezza comunque le nostre intenzioni. Sembra sincero, ma non è tuttavia molto entusiasta dell’idea.
Andiamo allora da Togliatti: ci ascolta divertito e sorride anche lui. Alla fine ci dice che c’è ancora molto da fare in Italia, anziché pensare al Giappone.
«La battaglia per la libertà, la democrazia ed il progresso è ancora da giocare e da vincere» osserva il segretario del PCI, che porta all’occhiello della giacca il distintivo del CVL. Aveva ragione, ma allora a noi non sembrava.
Anche Carlo Farini ci ripete subito dopo le stesse cose. A Roma in effetti i problemi assumono una dimensione diversa: qui regna la forza della burocrazia. Il Giappone è un sogno troppo lontano, e non ci rimane che ritornarcene indietro delusi e con le pive nel sacco.
Telefoniamo con tante scuse al Dottor Cosenza perché venga a riprendersi la macchina, che gli abbiamo sottratto, come autentici ragazzacci di strada, e che ora si trova parcheggiata davanti al caffè Deffila, il locale frequentato dalla cosiddetta “Chiavari bene”.
Buonanotte, ci vediamo domani. Per intanto cerchiamo di studiare soluzioni.

Dal libro di B. Pellizzetti “Scoglio”: “Dalla Montagna vedevamo il mare”,
ed. 1995, pp.193/198.
Gli uomini politici di Roma: Palmiro Togliatti

L’Italia era ancora divisa in due parti, malgrado la totale liberazione del Paese. Gli Americani avevano creato una frontiera nei boschi di Viareggio in Toscana. Riccio, sempre alla ricerca di azioni spettacolari, non aveva digerito la rinuncia alla nostra partecipazione alla guerra in Giappone e convinse me e Gronda ad andare a Roma per parlarne con il Ministro della Guerra. Ci organizzammo. Ero riuscito ad ottenere un salvacondotto dal comando americano e [Riccio era riuscito a impossessarsi della Balilla del dott. Cosenza, commissario di P.S. di Chiavari, di cui era buon amico]. I politici antifascisti della zona, quando seppero che saremmo andati a Roma, ci portarono lettere da consegnare ai loro colleghi rimasti bloccati al sud, che si erano stabiliti nella capitale. Ricostituivano i partiti dov’era la sede del Governo. Accettai un po’ alla leggera quelle lettere, senza pensare che Roma è una città molto grande e che non sarebbe stato facile rintracciare tanta gente. Dopo molte peripezie lungo il percorso arrivammo a Roma.
Vestivamo la divisa partigiana con scarponi, pantaloni e camicia dell’esercito Americano, un giubbotto con il triangolo del grado e l’immancabile pistola alla cintola, e così ci presentammo al Ministero della Guerra: quando capirono chi eravamo ci portarono in un immenso salone, così grande che vi si sarebbe potuto giocare a tennis. Tra finestra e finestra c’erano dei seggioloni dall’alta spalliera, tutto il resto era vuoto e dava l’impressione di un santuario. Seduti a quattro metri di distanza l’uno dall’altro era molto scomodo parlare per cui portammo tre seggioloni in un angolo e ci sedemmo vicini. Da decenni nessuno doveva avere mosso quei mobili perché subito apparvero dei valletti del Ministero, scuri nelle loro vesti e silenziosi nel camminare. Non dissero nulla, venivano solo a sbirciare ciò che facevano quei tre giovani partigiani venuti dal nord. La nostra presenza creava un vero scompiglio in quella tranquillità. Ci fu un lungo andirivieni di persone che ci chiedevano tutti le stesse cose: chi eravamo? Perché volevamo vedere il ministro? Poi si decisero a farci passare nel suo studio. Non ricordo come si chiamasse. Ci sorrideva, voleva dimostrarci la sua simpatia e manifestava il suo stupore vedendo a Roma dei partigiani del nord. Eravamo che gli si presentavano. Ascoltava le nostre avventure e, incuriosito, continuava a farci domande. Mi aiutò quando gli dissi che avevo lettere di politici del nord da consegnare a politici del sud.
Quando arrivammo all’argomento della partecipazione di un corpo di spedizione alla guerra in Giappone, aggregati ad una compagnia dell’esercito americano, si fece più attento e pensieroso: non poteva credere che fossimo stati ad un passo con l’andare con una nostra formazione a combattere in Giappone. Non poteva credere neppure che Marzo, che non conosceva, avesse fatto l’impossibile perché non vi andassimo. Pensava, credo, che fosse possibile che una partecipazione, anche solo simbolica, alla guerra in Oriente, avrebbe potuto migliorare la posizione politica dell’Italia. Ci disse che si era persa una buona occasione e che avrebbe studiato il caso. Due mesi dopo seppi che realmente aveva consultato il comando americano ma che l’opportunità di mandare un corpo di spedizione Italiano sul fronte del Pacifico era passata.
Rimanemmo a Roma alcuni giorni per consegnare le lettere. Conobbi Bonomi, Parri e Togliatti.
L’incontro con quest’ultimo merita di essere raccontato. Una mattina, verso le otto, mi recai all’appartamento di un vecchio palazzo, sede del Partito Comunista, dove aveva il suo ufficio Palmiro Togliatti. Nella sala d’ingresso c’era una scrivania dalla quale mi scrutava un signore sulla quarantina.
“Veda” gli dissi, “sono un partigiano del nord, della zona di Genova, e il Dr. Fabrizio Maffi mi ha dato una lettera per Togliatti”, e gliela mostrai. La prese e cominciò a strappare il bordo, cosa che non mi piacque affatto. Gliela presi dalle mani e manifestai il mio dissenso: “Mi scusi! Maffi mi ha dato questa lettera da dare a Togliatti, non a lei; per peggiorare le cose, lei la apre!”.
Sentii una mano posarsi sulla mia spalla e mi voltai. Era Togliatti, sorrideva e mi osservava con uno sguardo confortante:
“Fai bene a sgridarlo, quello mi legge tutte le lettere”, e mi prese di mano la lettera di Maffi. Passò mentre mi faceva segno di seguirlo. Il signore dell’entrata non intervenne. Seppi che era Spano che per un paio d’anni fu direttore dell’Unità, il quotidiano organo del partito. Togliatti lesse la lettera di Maffi poi si trattenne con me chiedendomi della nostra guerra. Ero il primo partigiano del Nord con cui gli capitava di discorrere. Rimasi un’ora e poi gli dissi che i miei compagni mi aspettavano. Mi ringraziò e sorprendentemente mi chiese:
“Dove vai a mangiare a mezzogiorno?”. Gli risposi che non lo sapevo ed allora mi disse:
“Se vuoi mangiare con noi va’ in quella sala; sulla tavola troverai un quaderno, scrivi il tuo nome nella lista, metti cento lire e ci vediamo alle dodici e mezza”.
Accettai l’invito, feci come mi disse. All’ora stabilita tornai, ero curioso di conoscere meglio quell’uomo che tanto ebbe a che vedere con la storia del nostro paese. Mangiai con cinque o sei persone e feci vivere loro gli episodi della lotta partigiana in Liguria. Me ne andai col sentimento di un dovere compiuto. Mai mi chiesero se fossi comunista, né io pensai di approfittare di quel contatto che mi era stato offerto dal destino. Neppure mesi dopo, quando mi trovai in situazioni difficili con i dirigenti comunisti di Genova, mi venne il pensiero di dirigermi a Maffi o a Togliatti.
Inutilmente, scrissi una lettera a Ferruccio Parri, a quell’epoca presidente della nuova repubblica italiana.
La permanenza a Roma si era fatta lunga e dovevamo ritornare. Le nostre magre risorse stavano terminando ed una domenica mattina iniziammo il viaggio di ritorno. Nel pomeriggio arrivammo a Civitavecchia, esultanti del nostro viaggio. Ognuno raccontava come aveva trascorso le giornate romane. Arrivammo alla conclusione che gli uomini politici di Roma ci avevano trattato molto bene!
Gronda raffreddò il nostro entusiasmo avvertendoci che avevamo soldi solo per comprarci la benzina e dovevamo risolvere il problema del vitto. Quella mattina avevamo comprato lungo il percorso una cassa di datteri che portavamo legata sul tetto della Balilla e con quei frutti dalla dolce polpa avevamo fatto colazione.
Attraversavamo Civitavecchia quando sentimmo venire grida ed un forte vocio dallo stadio. Ci fermammo all’ingresso. Si stavano correndo delle gare in bicicletta e noi pensammo di prenderci un’ora di riposo partecipando alla festa. Spiegammo all’entrata ci eravamo e subito venne il presidente del club che organizzava la manifestazione, che ci fece passare al palco d’onore e ci presentò ad altri signori e, non contento, prese un microfono e dagli altoparlanti dello stadio diede la grande notizia: “Ci visita un gruppo di partigiani del nord. È un orgoglio per la nostra città avere tra noi questi eroi della Liberazione Italiana”. Il pubblico dalle tribune applaudiva e noi eravamo gonfi di orgoglio.
Vedevamo le corse, nella pista c’erano una ventina di corridori che giravano e giravano ma ogni tanto un commerciante della città offriva un premio per il giro seguente ed allora inarcavano la schiena e pedalavano a tutta forza. La gente li incitava con grida di incoraggiamento.
Fu Gronda ad avere l’idea. Andò dal presidente e gli disse che noi offrivamo 5000 lire per il giro seguente. Lo comunicarono al microfono e nuovamente ne seguì uno scroscio di applausi. Quando Gronda gli chiedemmo dove aveva trovato le cinquemila lire e subito comprendemmo che per noi quella bella festa era finita. Gronda aveva un buono del Comitato di Liberazione Nazionale, un foglietto della misura di mille lire. Su fronte c’era il Nome del Comitato e nel centro diceva: “ Questo Buono vale 10,000 lire “. Sul verso cera stampata una ammonizione: “Chi non accetta questo buono non crede negli alti destini della nostra Patria”.
Non so dove Gronda lo avesse trovato. Erano buoni stampati durante la guerra partigiana che, a volte, davano ai contadini in cambio di vettovaglie. Poi erano spariti dalla circolazione. Gronda spiegava che, dando diecimila lire, ne avrebbe ricevuto cinquemila di resto. Riccio lo guardò fisso, poi gli sibilò tra gli occhi: Ma non capisci che non ti daranno nulla e ci faremmo una figura di merda?!
Gronda sosteneva che avrebbero preso il buono ma, per fortuna, prevalse l’opinione di Riccio.
“Squagliamocela in silenzio” consigliò ed alla chetichella scendemmo le scale e ci allontanammo con la nostra Balilla, mentre udivamo il boato della folla che incitava i corridori senza sapere che il vincitore non avrebbe trovato il suo mecenate. Decisamente, facevamo meglio la guerra.
 [N.d.evb, vedere anche A.Berti-M.Tasso, op.cit., pp.340/41].

Nei giorni immediatamente precedenti la Liberazione.

Circa venti giorni prima della Liberazione, nella zona di S. Vittoria, Libiola e Tassani, la RSI sferrò il suo ultimo e disperato attacco alla Coduri. Forse il più sanguinario e bruto di tutta la guerra. Dove, anche questa volta riuscì appieno a mostrare tutto il peggio di sé. Era il 9 aprile i945 e specialmente gli ultimi alpini della Monterosa, insieme alle residue B.N. della zona, marciarono verso S. Vittoria. Gli alpini si spinsero fino a Libiola dove vennero, per errore, bombardati da due loro batterie di obici. Una piazzata alla Lapide (Pila sul Gromolo) e l’altra a Battilana (Casarza Ligure) nel luogo dove mesi prima era accampato il serg. Arduino, della Monterosa, con la sua salmeria e i suoi muli. Lo scoppio di una granata caduta al centro dell’abitato investì in pieno un capitano (o un tenente) degli alpini (che molti indicano essere lo stesso che uccise Zelasco) in piedi su una seggiola posta sotto “u Vortu” (il volto) di Libiola tuttora esistente, che tronfiamente e minaccioso arringava alcuni villici della borgata. Questa morte inattesa stravolse i suoi commilitoni che si trasformarono in vere e proprie bestie umane, senza più nessun controllo o freno. Una cronaca dettagliata di tale evento la si può leggere in: ivi/ Fsc.40-Doc.2/ La Resistenza nel Tigullio…ecc./ Testimonianza del partigiano “Leo” (Tassano Giovanni). E in B. Pellizzetti “Scoglio”, “Dalla montagna vedevamo il mare”, p.137.

All’inizio del mese stesso, intanto Virgola aveva trasferito il comando della sua Coduri da Valletti a Iscioli, e il 20 successivo, da Iscioli a Nascio. E questo per venirsi a trovare al centro del teatro degli ultimi eventi che era facile prevedere si sviluppassero nelle vallate retrostanti Chiavari e il Tigullio, e, con un più ampio sviluppo, proprio lungo il litorale, dove ancora erano accampati gli ultimi contingenti germanici, della Monterosa, della X Mas, dei Bersaglieri e delle B.N.
In questo modo, venendosi a trovare i contingenti partigiani molto più vicini tra loro, ne approfittarono per riunirsi più volte onde studiare meglio la logistica e la consistenza dei reparti e assegnare a ciascuna unità una propria zona da liberare. Rimanendo inteso che i reparti volanti, con alla testa Virgola, in caso di necessità, dovevano dare manforte alle altre formazioni, e complessivamente, tenere sotto controllo la situazione generale.

Alla brg Dell’Orco, comandata da Tigre e Gronda, venne affidato il compito di liberare Velva, Castiglione Chiavarese, Casarza Ligure, e, all’occorrenza appoggiare la liberazione di Sestri Levante, Lavagna e Chiavari.
Nei giorni 21 e 22 aprile seguenti, i partigiani della Dell’Orco occuparono il caposaldo di Velva, indi il 23 liberarono Castiglione Chiavarese e Casarza Ligure, senza, in nessun caso, incontrare resistenza.
Alla brg Zelasco, al comando di Riccio e Scoglio, venne affidata la liberazione di Moneglia, Riva Trigoso, Sestri Levante, Lavagna, e occorrendo, appoggiare quella di Chiavari. Durante la notte tra il 23 e il 24 aprile, reparti della Zelasco liberarono Moneglia e Riva Trigoso (S. Vittoria era già in mano loro da più di ventiquattr’ore). E nella mattina del 25 raggiunsero Sestri Levante; precludendo così ogni via di fuga, verso il levante, ai nazifascisti in rotta. Ma a Lavagna, nei pressi del Cotonificio Olcese, asserragliati dentro un vecchio castello, era ancora attivo un contingente di alpini che venne spazzato via il 25 dai partigiani della Dell’Orco, comandati da Tigre affiancato da Virgola.
Alla brg Longhi comandata da Saetta e Leone, alla quale si unirono alcuni reparti della Caio, venne affidato l’incarico di liberare Borzonasca, Carasco, Chiavari, Zoagli, Rapallo, S. Margherita e Portofino. Per primi si mossero tre distaccamenti condotti da Saetta, che liberarono la Val Graveglia. Ma quando giunsero presso la caserma di Caperana, dato che la zona era infestata dai nemici, per proseguire dovettero guadare il fiume Entella; e scivolando poi tra le maglie dello schieramento avversario, riuscirono a salire indenni fino a Rì Alto. Ma a un certo punto, vennero comunque avvistati e attaccati in forze. Nella sparatoria che ne seguì, purtroppo i partigiani subirono alcune perdite. Ma Saetta riuscì a svincolarsi e alla fine raggiungere, durante la notte del 25 aprile, Chiavari. Dove ormai il grosso della Coduri convergeva in massa e il nemico era costretto a dirigersi verso Rapallo e Genova, ormai quasi completamente in mano alla Resistenza.
Nella mattinata del 25, intanto, dal Bracco stavano arrivando gli Alleati. Gli americani della V Armata. Naccari gli va incontro per farli scendere passando da Moneglia, perché la strada del Bracco era impraticabile dai pesanti mezzi militare in quanto fatta saltare in più punti dagli artificieri partigiani per impedire ogni via di fuga dei nazifascisti in direzione della Spezia. Sul mezzogiorno la prima camionetta della Bufalo arriva comunque a Sestri Levante, in Piazza S. Antonio, dove ad accoglierla c’è buona parte della popolazione di Sestri acclamante. Ma proseguendo la sua marcia verso Chiavari, la colonna alleata viene bersagliata più volte dai cannoni nemici piazzati sulle Grazie. Quattro camionette americane sono colpite lungo l’Aurelia, sul rettifilo tra Cavi e Lavagna. Gli Alleati, per poter proseguire, devono per forza abbattere quest’ultimo residuo di resistenza, e pensano di far intervenire la loro flotta ancorata al largo delle acque liguri. Temendo che un bombardamento navale potesse provocare un’infinità di morti e distruggere, irrimediabilmente, buona parte del patrimonio turistico del Tigullio, i comandanti della Coduri, nel corso di un colloquio avuto con i militari americani, chiesero che gli venissero concesse 24 ore di tempo per poter liberare essi stessi la Riviera; nel modo tradizionale e senza arrecare troppi danni alle città della costa. E così fu fatto. E la Coduri precedette la colonna americana nella parte finale della liberazione di Chiavari, e proseguì poi con la liberazione di Rapallo, S. Margherita e Portofino. Nella città di Genova e sue Delegazioni, che intanto erano già state liberate dai partigiani della VI Zona, quando vi giunsero gli Alleati, non ebbero che da prendere atto della situazione in essere.

Ultimi riconoscimenti ottenuti da Succo: Encomio Solenne e nomina a Comandante di Brigata.

In questi stessi giorni, i vari Comitati di Liberazione Nazionali delle città Tigulline, procedettero ad eleggere i loro Sindaci e le loro Giunte democratiche. E la vita civile poté così iniziare il suo nuovo corso, tra qualche polemica, atti di eroismo e contraddizioni a non finire. Ma questo fa evidentemente parte della vita di ogni democrazia scaturita da guerra civile. E il 26 Aprile 1945 la Coduri venne finalmente promossa sul campo Divisione; e Succo, che avevamo un po’ abbandonato, la notte tra il 24 e il 25 ebbe modo di guadagnarsi un altro Encomio Solenne dal Comando della Divisione Coduri. E il 27 la promozione Comandante di Brigata per meriti di guerra partigiana.

Genova, nell’euforica sfilata della Vittoria Partigiana, i vari gruppi di combattenti si mischiano sotto una selva di bandiere e striscioni sventolanti. Nel bordo bianco della foto, qui non visibile, è riportata a mano la seguente nota: “Genova 26/5/45, Vecchi e Nuovi Garibaldini sfilano per le vie della Città Martire della Resistenza). Segue un annullo postale indecifrabile, tranne la data, 26/5/’45. Succo, è il terzo da sinistra.
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 Editing: Elio V. Bartolozzi 2018