Fasc. 40 – Doc. 6: By Elio V. Bartolozzi, La controversa storia di un partigiano della Div. “Coduri” (Rodolfo Zelasco “Barba”) e di un Caporalmaggiore della Monterosa (Giampiero Civati) caduti in combattimento lo stesso giorno (il 5 dicembre 1944) a Villa Montedomenico (Comune di Sestri Levante).

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Nel rovistare tra memorie, documenti più o meno ufficiali, pubblicazioni (libri, appunti, articoli, opuscoli) e siti internet di vari enti e associazioni – sempre inerenti la Resistenza e i fatti ad essa collegati – m’è capitato molte volte d’imbattermi in piccole discordanze: particolari che non collimavano tra loro nei vari scritti, piccoli scostamenti di date, nominativi che presentavano carenze ortografiche, ecc., ma mai nulla di sostanzialmente diverso, nei loro contenuti essenziali, delle varie realtà o quadri d’insieme dove veniva a inserirsi l’avvenimento stesso. Oppure il suo o i suoi diretti protagonisti.

Gli scostamenti infatti mi sono sembrati sempre non fondamentali nell’insieme storiografico dei singoli fatti. Errori, chiamiamoli così, del tutto veniali in considerazione dell’epoca in cui essi si verificarono, perché non esistevano segreterie attrezzate dove allora i nominativi potessero essere puntigliosamente annotati; le date minuziosamente controllate ecc. ecc.

In un groviglio di situazioni generali così mutevoli nel solo volgere di pochi giorni, se non di pochi istanti, dove nessuno prendeva quasi mai appunti scritti perché, nella disgraziata eventualità di cadere prigionieri, farsi trovare dalla parte avversa con annotazioni o foto in tasca poteva voler dire consegnare al nemico la propria identità o dati personali segreti: riferimenti sempre e comunque tali da poter compromettere sia la sicurezza propria o, peggio, quella dei reparti di appartenenza, se non addirittura la consistenza o, in linea generale, la dislocazione del raggruppamento partigiano proprio. Tutti elementi che invece dovevano essere, per ovvi motivi, mantenuti rigorosamente segreti.

Il tutto aveva, però, una sua giustificazione nella confusione e nella scarsa importanza attribuita a certe procedure che in tempi ordinari sarebbero state eseguite con molta più cura e precisione. Insomma, il vivere alla macchia imponeva ai partigiani delle priorità: e la puntigliosa osservanza delle regole burocratiche non era certamente la più essenziale, né in quanto a precisione né in quanto a rilevanza. Più importante di tutte era per loro, in mezzo ad altre mille difficoltà, la sopravvivenza fisica: e quindi l’esigenza di come potersi procacciare ogni giorno il cibo; di dove reperire in continuazione armi e munizioni; la dislocazione del proprio distaccamento e le persone a cui potersi rivolgere con fiducia in caso di urgente bisogno.

Poi mi sono imbattuto in un fatto più complesso, che sulle prime, mentalmente, avevo considerato come la solita svista da annoverare fra le cose sfuggite un po’ all’attenzione dei memorialisti. Ma poi, a forza di trovarmela davanti, mi sono convinto a considerare con molta più attenzione il tutto e a fare alcune ricerche intorno a questa questione che stava assumendo, via via, contorni sempre più complessi e nebulosi. E per certi versi, abbastanza controversi.

Il fatto a cui mi riferisco è la morte dell’alpino della divisione Monterosa, di nome Giampiero Civati, avvenuta a Montedomenico (nel Comune di Sestri Levante) il pomeriggio del 5/12/1944, e in concomitanza, sull’altro fronte, della morte del partigiano Rodolfo Zelasco “Barba”, caposquadra partigiano. Di quest’ultimo, chi vuole, può approfondirne meglio il profilo leggendo anche i capitoli che lo riguardano più specificatamente, che sono il numero 1 e 3 di questo stesso Fascicolo 40.

Le fonti a cui ho potuto accedere sono state molte e di diverso orientamento. Da parte repubblichina (quindi da fonti Rsi) si dà una certa versione, da parte delle fonti para-partigiane se ne dà invece un’altra, diametralmente opposta. Quale sarà quella più vera? In tutti i resocontisti c’è sempre buona fede oppure no? Sono domande che salgono spontanee e alle quali, chi può, dovrebbe fornire una risposta chiara e possibilmente univoca. Perché, ora stavo un po’ pensando ai ragazzi delle scuole di vario genere e grado che tutti gli anni sono chiamati a svolgere il canonico tema sulla Resistenza, cosa potranno mai dire (o pensare) quando nelle loro ricerche, ad esempio, su internet s’imbatteranno in una specie di “eroe conteso” come è la figura che riguarda appunto l’alpino summenzionato? Per onore e sereno rispetto della memoria dello stesso interessato non sarebbe ormai tempo di definirne più compiutamente la figura, con attenzione e rispetto? anche traguardando la tanto invocata riconciliazione nazionale?

Oppure ai giovani dobbiamo continuare sempre a far credere che la Resistenza è un fatto che riguarda solo la “destra” o la “sinistra”? Un fatto politico che, come tale, in primo luogo presuppone il discredito dell’avversario politico, anche se a scapito della verità più chiara e trasparente? Ormai la Resistenza non può più essere considerata una bega tra interessi molte volte miseramente solo di partito, ma è Storia d’Italia, è Carta Costituzionale, è Patrimonio Nazionale, e quindi appartiene indiscutibilmente a tutto il popolo italiano.

Come sempre, anche in questo momento penso che meriti comunque rispetto chi queste vicende l’ha vissute sul campo, magari perdendoci la vita. Ossia, anche tutti quei giovani, molte volte non ancora ventenni, che erano nati, cresciuti e educati nel famigerato ventennio; e che avevano scelto (molte volte anche in maniera inconsapevole perché non avevano mai avuto occasione di conoscere altro modo né di pensare né di vivere che quello imposto dal regime) di combattere nelle fila della Rsi non solo e non già per difendere il fascismo di Mussolini in quanto tale, ma per una loro concezione di patria, di nazione da onorare e difendere a prescindere, di società che poteva riservare, in prospettiva, ancora qualche residua speranza.

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Detto ciò, credo proprio sia giunto il momento di passare ad analizzare i fatti ai quali si vuol fare qui riferimento. Il giorno che interessa a noi è il pomeriggio del 5/12/1944, verso le ore 14,30/15,00. Giornata molto fredda, dicono le cronache di allora, con un vento gelido che tagliava la faccia in due.

Il luogo: denominato anche rione Pozzuolo, ma più conosciuto come Villa Montedomenico “bassa” (chiarendo che “bassa” – nome tra l’altro non registrato e non presente nella toponomastica comunale – sta per “frazione più in basso”, “più a valle”; e “Villa” sta qui per località/frazione).

Questo piccolo rione di Villa Montedomenico – situato nell’immediato entroterra del comune di Sestri Levante – consisteva, allora, solo in un gruppetto d’un paio di casoni ad uso agricolo arroccati sul crinale destro di un profondo e stretto vallone sul cui fondo scorre il torrente Gromolo, che lì è ancora un piccolo rivo. Il costone opposto è invece, in quel punto, molto più alto e si trova sulla riva sinistra del torrente, poco dopo, procedendo in direzione Montedomenico, l’abitato di Villa Libiola.

Un plotone di alpini della Monterosa in missione “antiribelli”, che aveva scorto sul crinale opposto un gruppo di partigiani che scendeva in fila indiana lungo il cosiddetto sentiero della Miniera (allora perfettamente in funzione) s’era appostato, non visto, poco sotto i casoni di cui sopra. Com’è facilmente intuibile i due schieramenti erano, in quel momento, di fronte; e a una distanza, in linea d’aria, di non più di 180/250 metri (che una visura su carta nautica del sottoscritto pone invece ad una distanza massima di m 110).

Le testimonianze riferite (o tramandate) dai pochi abitanti della frazione (in sostanza, allora, da una sola famiglia che abitava poco distante) ricordano che gli alpini erano molto più numerosi (circa 25/30) e meglio armati. Si dice che fossero dotati di almeno una mitragliatrice, qualche fucile mitragliatore, alcuni fucili tapum e diverse altre armi automatiche leggere); mentre i partigiani erano di numero inferiore (non più di 5 o 6). Per quanto riguarda invece l’armamento (tranne il solo Zelasco in possesso di un Moschetto Automatico Beretta 38/40, che s’era portato appresso lasciando la Monterosa; e dal quale, a detta degli stessi suoi compagni, non si separava mai) i partigiani erano molto svantaggiati rispetto agli alpini, perché armati di sole armi leggere, un paio di fucili e qualche bomba a mano. E, in aggiunta, non s’erano affatto accorti degli alpini che s’erano, nel frattempo, molto bene appostati e stavano solo aspettando il momento più propizio per aprire il fuoco su di loro.

Quando i partigiani raggiunsero la passerella pedonale (ancora oggi esistente) che in quel punto attraversa il torrente Gromolo, quindi nel punto più allo scoperto del tragitto, gli alpini aprirono il fuoco e colpirono gravemente il caposquadra dei ribelli (Rodolfo Zelasco “Barba”) ad una gamba, rendendogli quasi impossibile ogni altro movimento. Sempre sotto il fuoco degli alpini, nessuno dei suoi compagni, per fortuna, venne colpito e poterono così porsi al riparo.

Riavutesi dalla sorpresa, solo dopo pochi istanti, i partigiani cercarono di reagire al fuoco di sbarramento, ma la forte disparità numerica e a causa anche dell’armamento inadeguato, ben poche chances restavano loro. Dopo una breve consultazione, decisero così di sganciarsi rapidamente trasportando a braccia il loro compagno ferito. Ma “Barba”, constatato che lui era ferito in maniera troppo grave e poteva rappresentare solo un inutile ostacolo alla loro fuga, e quindi alla loro salvezza, si rifiutò decisamente di assecondarli. E anzi, ordinò loro di mettersi immediatamente in moto e di andar via. Il tono della sua voce, come sappiamo dai racconti che “Argo” fece a suo figlio Enzo, era talmente perentorio che i suoi compagni non poterono fare altro che obbedirgli. E così, dopo averlo sistemato alla meglio dietro a un masso, si allontanarono in direzione di Iscioli risalendo, almeno per un buon tratto, il corso del torrente Gromolo.

Per dare più tempo ai suoi compagni di portarsi fuori tiro, comunque il “Barba” continuò a rispondere al fuoco dalla postazione in cui si trovava; poi, tra dolori sicuramente indicibili e ventre a terra, si trascinò in leggera salita per circa 100 metri lungo il sentiero da cui poco prima era disceso insieme ai suoi compagni. Forse intendeva portarsi in un punto più a monte, da dove avrebbe sorvegliato meglio l’eventuale arrivo degli alpini (che sarebbero stati costretti così a spuntare da dietro una curva qualora avessero deciso di raggiungerlo) per poterli prendere d’infilata su uno spazio più allo scoperto, quindi, nello specifico, a lui più favorevole.

Sempre sotto l’incessante fuoco del nemico, il “Barba” si riparò poi dietro un sasso dove, senza più munizioni, preferì lui stesso darsi il colpo di grazia per non cadere vivo sotto le immani torture e vessazioni dei suoi ex commilitoni: infatti anch’egli era un ex alpino della Monterosa, che il 19/09/1944 aveva scelto, insieme a diversi suoi compagni d’armi, di lasciare la Monterosa (progetto che lui e molti altri suoi compaesani nutrivano praticamente da sempre: da quando, cioè, avevano obbedito al reclutamento forzoso solo per proteggere la famiglia dalle minacciose rappresaglie del regime contro i famigliari dei renitenti) per unirsi ai partigiani di “Virgola” acquartierati nella zona. Questa risulta essere anche la versione direttamente comunicata ai familiari, appena ebbero modo d’incontrarsi, sia dal Comandante “Virgola” stesso sia anche da diversi altri partigiani facenti parte dello stesso distaccamento di Zelasco. E questa, da tutti ritenuta l’unica e incontrovertibile versione dei fatti, fino alla fine degli anni settanta primi anni ottanta.

Ma dall’altra parte cos’era intanto successo? Gli alpini, come detto, avvistati i partigiani scendere lungo il lato opposto al vallone dove loro si trovavano, si portarono, non visti, sotto i vicini casoni, dove si acquattarono lungo un viottolo che attraversava (e attraversa) un tratto cespuglioso d’un minuscolo boschetto, proprio dirimpetto al gruppo partigiano; e dal quale distavano non più di 180/250 (ma poi risultati al massimo 110) metri in linea d’aria. Solo, quando i partigiani raggiunsero il punto più allo scoperto del tragitto, perché avevano appena imboccato la già ricordata passerella pedonale, gli alpini aprivano su di loro un fuoco d’inferno e ne feriscono mortalmente uno. Come già detto: il caposquadra “Barba”, al secolo Rodolfo Zelasco.

Ma anche gli alpini dovettero registrare un caduto, tra le loro file. Infatti, nell’infuriare del combattimento, rimane ucciso il cplm. e mitragliere della Monterosa, Giampiero Civati, raggiunto al capo da una pallottola deviata da un vicino masso dietro il quale s’era poco prima appostato. (Versione, ufficialmente anche riportata sul suo Atto di Morte).       

Ma torniamo alla narrazione dei fatti. Anche dalla gente stessa del luogo (attraverso le memorie dirette o tramandate) si viene comunque a sapere che dopo, cessata la sparatoria, alcuni alpini scesero giù, attraversarono la stessa passerella dov’era stato colpito il “Barba” e lo raggiunsero. Ormai già sicuramente morto, gli diedero lo stesso un ultimo colpo di grazia, gli strapparono l’arma e lo lasciarono poi sul posto: sembra non senza prima infierire sui suoi resti col calcio dei fucili.

La salma dell’alpino fu invece portata presso l’unica casa colonica lì vicina; in qualche modo ripulita e ricomposta; adagiata su una scala a pioli (di quelle usate in campagna dagli agricoltori) e trasportata a braccia fino nella sottostante località Balicca. E da qui, adagiata su un’autoambulanza, condotta nel cimitero di Chiavari e tumulata nel Campo “D” della zona riservata ai militari. Poi, nel 1948, terminata la guerra, trasferita dai famigliari a Camerlata (CO) sua città di residenza.

Il corpo del partigiano venne invece recuperato all’imbrunire (quando ormai gli alpini s’erano definitivamente allontanati) da alcuni contadini e minatori del luogo, ripulito e ricomposto alla meglio, e, sistemato su un telo, lo condussero a spalle (che ormai era notte) verso la località di Iscioli, sede del Comando del distaccamento. Da dove successivamente i suoi compagni lo trasportarono fino a Comuneglia, dove nei giorni successivi fu tumulato e dove rimase fino alla fine del conflitto.

Ma le grandi fonti storiche o storiografiche, sia quelle dell’una che quelle dell’altra parte, che cosa dicono? Terminata la guerra, a Zelasco, sia a Sestri Levante che a Bergamo sua città natale, viene ufficialmente riconosciuto tutto il suo valore di partigiano generosissimo, coraggioso e altruista e gli vengono attribuiti diversi riconoscimenti che poi vedremo. Sul caporale Civati Giampiero, almeno qui a Sestri Levante, cala invece il silenzio più assoluto. I molti partigiani che ci hanno riferito a voce, oppure che hanno lasciato loro memorie scritte, si ricordano perfettamente tutti di Zelasco e della sua luminosa figura, ma mai fanno cenno all’altra vittima di quel giorno. Forse ritenevano che il fatto fosse tutta una questione interna della Monterosa.

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Poi, nel 1971, viene pubblicato “a cura dei reduci della Monterosa a ricordo ed onore dei Camerati caduti” un libro sulla Monterosa scritto da Carlo Cornia: “MONTEROSA. Storia della Divisione alpina Monterosa della RSI”, 1971, Udine, Del Corno editore – sulla cui sopra-copertina (v. fig. 1), e a pag. 169 dello stesso volume, viene riportato – scritto su un foglio monco e non firmato – il seguente: «Testamento militare 5-12-44: Pochissime parole mi spiego le mie idee e il mio sentimento: sono figlio d’Italia di anni 21, non sono di Graziani e neanche Badogliano; ma sono italiano, e segguo la via che salverà l’onore d’Italia».

L’autore del libro, Sottotenente, appartenente anche lui all’8a compagnia (Btg. Morbegno) della div. Monterosa, inserisce il testamento in un capitoletto riguardante i continui attacchi portati, nel periodo, dai partigiani alla Monterosa; e alla serrata propaganda da questi fatta tra le truppe alpine per convincere il maggior numero di loro a disertare e a unirsi alla lotta partigiana. Il Cornia, infatti, subito prima del testamento scrive: «… La notte del 5 dicembre (1944, n.d.a.) presso la miniera di Libiola, sulla strada dal Bracco a Levanto, una pattuglia dell’8a (compagnia, n.d.a.) si scontrò con una di partigiani. Cadde il caporale Giampietro Civati. Gli trovarono in tasca (altri parlano di tascapane, n.d.a.) un foglio che aveva scritto poche ore prima». Inserisce il testamento di cui sopra e poi seguita: «Quanto alla propaganda per la diserzione, ormai era diventata quasi del tutto vana perché chi aveva animo di andarsene se ne era già andato da tempo. È interessante ricordare che il comandante dell’8a gentiluomo e soldato valoroso, ora scomparso, ricevette per due volte l’offerta di prendere il comando di un reparto che si sarebbe costituito con tutti gli alpini disertori presenti nelle unità partigiane della zona. Il comandante rispose con nobili parole invitando gli altri ad entrare loro nei battaglioni alpini…». 

Successivamente, a pag. 235 dello stesso libro, il Cornia riporta la fotografia di un quadro delle lapidi murata dai reduci della Monterosa nell’oratorio di S. Rocco di Palleroso in Garfagnana, con sottostante una targa con incise sopra le seguenti parole:
“A ricordo dei compagni d’arme caduti sul fronte della Garfagnana sulle Alpi occidentali e ovunque la Patria li volle. I reduci della Divisione Alpina Monterosa restaurarono questo Oratorio esaltando il sacrificio italiano di ogni guerra. (1944 – 1945 *** 1959). Concessione la Pieve di Palleroso e di don Adelmo Tardelli suo Pastore”. Dove nell’elenco dei Caduti è riportato anche il nome Civati Giampiero; e a pag. 238 del suo libro lo inserisce in un altro lungo elenco dei Caduti della Monterosa. Quindi per il Cornia (come per molti altri e come riportato sull’Atto di Morte, n.d.a.) il Civati è morto in un combattimento contro i partigiani. E non per mano del suo comandante quale “condanna a morte” del suo rifiuto a partecipare “ad un rastrellamento” contro i partigiani, come scritto nell’Atto Notorio di cui si parlerà diffusamente più avanti.

Nel 1982 viene pubblicato un altro libro (v. Fig.2) di Amato Berti e Marziano Tasso: “Storia della Divisione Garibaldina Coduri” dove a pag. 235 viene raccontata l’intera vicenda, ma vista tutta sotto un’altra luce. Infatti, qui si dice testualmente:

«… Il 5-12-44, una pattuglia di partigiani della “Coduri”, composta dal capo squadra “Barba” (Rodolfo Zelasco) studente in medicina ed ex alpino della Monterosa e da altri cinque uomini, venne attaccata da un reparto alpino nei pressi della miniera di Libiola mentre stava rientrando da una missione; gli alpini, dotati di mitragliatrice e di armi automatiche erano in agguato su un costone nei pressi di Montedomenico bassa. Avvistata la squadra partigiana, iniziarono contro di essa un fuoco micidiale. “Barba”, vista la impossibilità di scampo, ordinava agli uomini di mettersi in salvo. Egli con sangue freddo imbracciava l’arma automatica facendo fuoco verso il nemico per attirarne l’attenzione e coprire la ritirata ai suoi compagni. Colpito più volte dalle raffiche nemiche, si accasciava al suolo gravemente ferito. I suoi ex commilitoni (inquadrati ancora nella Monterosa, n.d.a.) lo finirono a colpi di arma automatica, mentre gli altri cinque partigiani poterono mettersi in salvo grazie al sacrificio della vita dello stesso “Barba”. A proposito di questo episodio appare sul frontespizio del testo “Monterosa” di Carlo Cornia, una frase manoscritta del caporale Civati Giampietro caduto in quella circostanza (secondo Cornia). La frase suddetta è stata assunta dal Cornia come testamento di un alpino della “Monterosa”. «Testamento militare 5-12-44: pochissime parole mi spiego le mie idee e il mio sentimento: sono figlio d’Italia di anni 21; non sono di Graziani e neanche badogliano; ma sono italiano, e segguo la via che salverà l’onore d’Italia». Citiamo questo testamento del 5-12-44 – proseguono testualmente i due autori del libro – poiché, come si può notare, lo stesso giorno e nello stesso luogo indicato dal Cornia cadde anche Zelasco. È vero che durante quello scontro tra alpini e partigiani cadde anche un alpino, ma secondo testimonianze di contadini di Montedomenico Bassa, che furono involontariamente presenti allo scontro, e tutt’ora viventi in loco, si afferma che anche gli alpini ebbero un caduto, ma non ucciso dai partigiani, bensì da un suo superiore perché l’alpino si rifiutò di sparare contro i partigiani…». [n.d.a.: per quanto a conoscenza, questa è la prima volta in cui si sostiene che il Civati non sia morto in combattimento ma ucciso freddamente da un suo superiore].

Nel 1983, sotto forma di diario del periodo partigiano, esce un altro libro (v. Fig.3). Autore questa volta è: Aldo Vallerio “Riccio”, Medaglia d’Argento ed ex comandante della Brigata “Zelasco” della Div. Coduri. Il titolo dell’opera è: «Ne è valsa la pena?». A pagg. 522/523, “Riccio” parla in maniera commovente della morte del partigiano “Barba” che lui conosceva (anche se non proprio a fondo, come scrive) perché facevano entrambi parte dello stesso distaccamento della “Coduri”; che, in onore proprio di Zelasco “Barba”, diverrà poi la “Brigata Zelasco”. E, facendo capo dal punto che più c’interessa per queste brevi note, egli scrive:

“... (Zelasco)… Fu purtroppo sfortunato, perché rimase ferito mortalmente dal colpo da lui stesso sparato, ma ancora in vita. Ora è lì, agonizzante fra le sterpaglie ingiallite al sole. Il suo cuore batte ancora, ma egli non può più ascoltare le voci degli uomini e i palpiti della natura. E non può assistere al dispiegarsi di un’altra tragedia. L’ufficiale che comanda il reparto nemico, giunto sul posto, ordina all’alpino Giampiero Civati di Como di dare il colpo di grazia all’eroe partigiano che giace a terra moribondo in un lago di sangue. L’alpino guarda quel corpo inerte, ed improvvisamente si sente scosso da un conato istintivo di ribellione. Volta le spalle all’ufficiale e si rifiuta di sparare.

L’ufficiale fascista non ha la benché minima esitazione. Estrae la pistola dal fodero e mira freddamente al capo l’alpino, che in quel preciso momento ha deciso pure lui di morire da partigiano. Si sente una detonazione che corre isolata lungo tutta la vallata, e subito dopo un tonfo sordo. Al fianco di Zelasco ora c’è un altro corpo inerte. Quello di Giampiero Civati. Pietà l’è morta! Subito echeggia un altro sparo. Si tratta del colpo di grazia che raggiunge Zelasco, che ora si è fatto fermo come il marmo: il suo cuore ha cessato di battere. Un rivolo di sangue gli scende lungo la fronte e va a posarsi sulla mano dell’alpino fratello caduto al suo fianco per essersi rifiutato di trasformarsi in assassino. Un abbraccio ideale di colore rosso. Il sangue dell’uno si fonde infatti con quello dell’altro. L’ufficiale ripone la pistola nel fodero e si guarda in giro spavaldo. Ostenta la faccia da eroe, e non sa, che invece egli è solo un Caino. Per questo il Ten. Cornia invece di scrivere libri dovrebbe arrossire di vergogna. Questa è infatti la vera storia di quei giorni scritta con i fatti e con il sangue…”

Peccato che “Riccio” si sia lasciato sopraffare troppo dai sentimenti, e anziché curarsi maggiormente della cronologia storica dei fatti, ci ha lasciato solo lo struggente ricordo d’un suo compagno. Infatti, sappiamo ormai che le due morti avvennero in tempi diversi, anche se di poco, e in luoghi diversi: almeno 180/250 (poi meglio valutata a 100 metri circa) l’una dall’altra. E che nella circostanza, i due non ebbero sicuramente modo d’incrociare i loro sguardi perché l’alpino, quando i suoi commilitoni raggiunsero il corpo ormai esanime di Zelasco, era anche lui già sicuramente spirato e adagiato esanime sul tavolo di cucina della famiglia contadina che cercava di riassettarne il corpo.

E in quegli stessi anni e mesi compare improvvisamente un misterioso “Atto di Notorietà” (v. fig. 4, 5 e 6) redatto davanti al Pretore di Sestri Levante il giorno 29.7.1948, e di cui nessuno, sembra, fin allora, ne conoscesse l’esistenza. E qui le cose si fanno piuttosto intricate e nebulose. Si sa solo, attraverso testimonianze scritte, che ci sono stati colloqui tra alcune segreterie di partito e i famigliari dell’alpino; tra l’ANPI, il Comune di Sestri Levante, i famigliari stessi del Civati ed alcuni ex militari della Monterosa. In primis sembra coinvolto anche il Comune di Como dove il Civati risiedeva in località Camerlata. Insomma, tutto questo lavorio porta ad alcune considerazioni: il Civati moriva infatti il 5 dicembre (in rione Pozzuolo, a Villa Montedomenico) nel corso di un’azione di controllo del territorio effettuata dal suo reparto, e quindi non per essersi rifiutato di partecipare ad un’azione che aveva avuto sviluppi casuali. L’evidente improprietà della formulazione – e l’inutilità dei testimoni di Montedomenico per riferire d’una cosa che più ragionevolmente avrebbe dovuto avvenire in caserma – è rivelatrice, quanto alla stesura dell’atto, di finalità sicuramente strumentali.

Guardiamo per intanto cosa dice l’Atto di Notorietà: (Che come noto non è prova legale circa i contenuti della dichiarazione resa). 

PRETURA DI SESTRI LEVANTE
Atto di Notorietà

“L’anno millenovecentoquaranta otto… e questo dì undici del mese di luglio nell’Ufficio della suddetta Pretura. Allo scopo di porre in essere mediante attestazione giudiziale la verità di quanto andrà qui appresso a specificare: A richiesta di Civati Emilio fu Giuseppe di anni 55 residente a Camerlate (Como); avanti il Pretore Cav. Dott. Dario Castellano assistito dal Cancelliere sottoscritto sono personalmente comparsi i testimoni appresso generalizzati a ciascuno dei quali è stata fatta seria ammonizione a sensi dell’art. 251 C.P.C. sulla importanza religiosa e morale del giuramento e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false o reticenti leggendo loro la formula: «Consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti a Dio e agli uomini giurate di dire la verità, null’altro che la verità.» Gli stessi, stando in piedi hanno quindi giurato pronunciando le parole «Lo Giuro». Interrogati sulle loro generalità hanno risposto essere:

(… qui vengono trascritti i 4 nominativi dei testimoni che si tralasciano…)

Dopo di che gli stessi sotto il vincolo del prestato giuramento hanno reso concordemente, la seguente dichiarazione

Dichiarazione

È vero, pubblico, notorio ed a nostra personale conoscenza che il giorno 5 dicembre 1944, alle ore 15 circa, in Località Montedomenico di Sestri Levante, è deceduto il caporale degli alpini CIVATI GIAMPIERO di Emilio e fu Magni Maria, nato a Erba l’8 febbraio 1923, e residente a Como (Camerlate) Via […] a seguito di un colpo di fucile sparatogli dal comandante del plotone essendosi egli rifiutato di partecipare ad un rastrellamento contro i partigiani.

Del che si fa constatare col presente verbale e, letto, confermato e sottoscritto che segue.

(… come da prassi seguono le firme e timbri vari …)

Come detto sopra, molti sono quelli (sia enti pubblici o para-pubblici, sia segreterie di partito, sia memorialisti) che irrazionalmente si tuffano a capofitto su questa figura che sembra incarnare al momento (per loro) “il più schietto degli ideali partigiani”.

Il Comune di Como sembra (non posso essere più preciso perché, interpellato sull’argomento via e-mail, il sindaco ha ritenuto di non rispondere) gli conferisca una medaglia d’oro alla Memoria. Invece il Comune di Sestri Levante (per sue strane ragioni che poi tanto strane non sono) ritiene doveroso erigergli un momento quasi sul punto stesso dov’egli trovò la morte. Ma, a parere di molti, compreso lo scrivente, commette una piccola ma grave distrazione: accosta questa figura assai nebulosa a quella limpida di Zelasco Rodolfo incidendo sulla lapide queste, per la memoria di “Barba”, sicuramente offensive parole: «Rifiutando d’infierire / su Zelasco / partigiano della Coduri / l’Alpino / Civati Giampiero / immolava qui la sua vita / testimonianza sublime / che la lotta partigiana / non fu / guerra tra fratelli».  
                                                                                 ANPI                                                                   Comune Sestri Levante

Alle iniziative degli enti e dei personaggi di cui abbiamo detto sopra, fanno eco alcune rimostranze o, almeno, manifestano le loro perplessità svariate persone. Tra le quali, per prima, la famiglia di Rodolfo Zelasco, la più direttamente colpita, che da Bergamo fa sentire la sua voce contrariata perché non riesce a capacitarsi come si possa accostare così grossolanamente la figura schietta del loro “Nani” con quella a dir poco nebulosa del caporale alpino: facente parte e schierato, finché vivo, assieme a tutta la sua squadra, sul fronte avverso, con l’ovvio intento – e alla fine in disgraziata parte persino realizzato – di annientare l’intero gruppo partigiano. Intima ferita e offesa che sarà assai difficile possa rimarginarsi nei loro cuori. Infatti, a loro paiono assai poco credibili e pretestuose – in mancanza di altri riscontri probanti che possano definitivamente chiarire il pensiero reale dell’alpino – i riconoscimenti attribuitegli perché il cosiddetto Testamento militare, se letto con attenzione, da solo potrebbe significare invece un caparbio attestato, un giuramento di totale e determinata fedeltà alla divisa militare, da lui indossata ancora e durante e dopo la sepoltura. E tutto fa pensare che le poche righe non siano state scritte (se mai vere) su un campo di battaglia dove da ogni parte fischiavano pallottole, ma semplicemente appuntate in caserma su un foglio e ficcate in tasca, quale improbabile attenuante per sminuire la sua compromissione col fascismo, qualora fosse caduto in mano ai partigiani.   

Comunque, nel 1990, dall’Istituto Comasco per la Storia del Movimento di Liberazione (autore Giusto Perretta e titolo “Un accenno con intelletto d’amore”), viene pubblicato un altro libro (v. Fig. 7) dove a pag 34 è riportato questo breve scritto: “E che dire del giovanissimo Giampiero Civati – vero eroe senza medaglia – fucilato a Sestri Levante il 5 dicembre 1944 perché si rifiutò di partecipare ad un rastrellamento contro i partigiani preferendo la fucilazione? Egli ci ha lasciato questo commoventissimo, nella sua semplicità, testamento spirituale: (… e qui viene riportato il testo dello straconosciuto “Testamento Militare” che tralascio perché ormai fin troppo noto (n.d.a)… Ma si vuole comunque rimarcare che in quei giorni non vi furono assolutamente fucilazioni di nessun tipo nell’ambito del Comune di Sestri Levante).

Nel 1992 esce un altro libro (v. Fig. 8) di Mario Bertelloni e Federico Canale, “Cosa importa se si muore. Chiavari e Tigullio ’43-45″, Res Editrice, dove a pag 235 è riportato questo breve testo: Martedì 5.12.1944. – Dopo un combattimento a Villa Montedomenico muoiono, uno accanto all’altro, il caporale della Monterosa Giampiero Civati e il partigiano Rodolfo Zelasco “Barba”. Zelasco, benché ferito, ha protetto coraggiosamente la ritirata dei suoi. Agonizzante, è catturato. Un ufficiale ordina a Civati di finirlo. Il caporale si rifiuta ed è condannato a morte da un tribunale improvvisato. Ha solo il tempo di scrivere queste parole: “Testamento militare 5-12-44. ecc. ecc…”. E così conclude: “Chi ha detto che la pietà è morta?”.          

Un altro libro (v. Fig. 9) dal titolo “Divisione Monterosa”, autore Ernesto Zucconi, viene pubblicato nel 1996 dall’Editrice NovAntico di Pinerolo. Le circa 80 pagine che lo compongono sono tutte intrise di riflessioni, sia politiche che morali, che esaltano il falso patriottismo di questa divisione militare delle F.A. di Salò. E il tutto è visto e inquadrato in tale direzione. Difatti a pag. 64 viene riportata la fotocopia dell’ormai famoso Testamento militare. E sulla pagina accanto, a commento, è scritto: «Queste semplici frasi, intitolate “Testamento militare”, furono vergate su un foglio trovato in tasca al caporale della Monterosa Giampiero Civati, caduto in combattimento il 5 dicembre 1944».

Ovviamente ognuno tira l’acqua al suo mulino.

A questo punto sarebbe da elencare tutta una serie di siti web dove la vicenda viene menzionata e classificata tutta a favore del colore politico dei siti stessi. Se ne riportano solo alcuni ritenuti i più significativi:

b)- www.italia-rsi.org: In un lungo articolo di 4 pagine, “La Resistenza fu anche questo”, viene ricordato, tra i molti altri, anche Giampiero Civati. Il suo nome è inoltre inserito nel lungo elenco dei Caduti e Dispersi della RSI. E, come causa della sua morte, viene indicata anche qui la fucilazione.

Inoltre sulla rivista NUOVO FRONTE N.164 (1996), a cura di M. Bruno, viene riportata questa nota: «Su un foglio di carta, in tasca al Caporale Alpino della Monterosa Giampiero Civati, fu trovato un “Testamento militare datato 5-XII-1944, redatto poche ore prima di cadere in combattimento, così compilato: “Pochissime parole, ma spiego le mie idee ed il mio sentimento. Sono figlio d’Italia di anni 21. Non sono di Graziani e nemmeno Badogliano ma sono italiano: e ‘segguo’ la vita che salverà l’onore d’Italia”. Frasi semplici che l’errore di ortografia non sminuisce, anzi ne accresce il valore perché espressione di un figlio del popolo, con un chiaro concetto della dignità e dell’Onore d’Italia, a condanna dei tanti che ancora oggi negano l’opportunità della pacificazione e della giustizia che debbono essere rese alle anime più nobili che l’Italia abbia espresso. Forse diamo troppa importanza agli atti formali, forse l’amore per la nostra terra ci induce a chiedere ciò che spetta per diritto naturale a chi s’è fatto padrone della legge senza merito proprio. È sufficiente la coscienza a posto. I soldati della RSI hanno la coscienza a posto».

c)- www.italia-liberazione.it: (v. Fig. 10) in questo sito, gestito dall’INSMLI, nel capitolo “Presentazione”, oltre al già noto Testamento viene riportata anche una foto ed un ampio profilo dell’alpino G. Civati, che si può direttamente leggere nell’immagine sotto.  

Fig. 10 – Presentazione e Profilo dell’alpino Giampiero Civati, di anni 21. Nato a Erba (Como) l’8 febbraio 1923. Di professione giardiniere.

 

Nel capitolo intitolato ATTIVITÁ NELLA RESISTENZA, sono poi elencate le seguenti specifiche: 1)- Condizioni al momento della morte: Combattente. 2)- Agente della condanna: Decisione di un comando militare. 3)- Tipo di esecuzione: Fascista. 4)- Circostanza della morte: Eccidio. 5)- Descrizione della circostanza della morte: Caporale della 8.a armata [8.a compagnia n.d.a.] del battaglione “Morbegno”, delle forze armate della Rsi, il 5 dicembre 1944 partecipa ad un rastrellamento contro una piccola squadra di partigiani garibaldini. Uno di essi, Rodolfo Zelasco, nonostante fosse gravemente ferito permette agli altri 5 di fuggire. Una volta catturato il partigiano, un ufficiale ordina a Civati di ucciderlo, malgrado il prigioniero sia ormai agonizzante. Ma Civati si rifiuta, persino dinanzi alla minaccia della condanna a morte. 6)- Causa della morte: fucilazione. 7)- Modalità dell’esecuzione: Il 5 dicembre 1944, nei pressi della miniera di Libiola, un reparto del battaglione Morbegno compie un’azione di rastrellamento in cui individua una piccola squadra di 6 elementi della Divisione garibaldina Coduri. Uno dei partigiani, Rodolfo Zelasco, ferito, si sacrifica per far fuggire i compagni e viene catturato. Nonostante le sue condizioni siano gravi ed egli praticamente agonizzante, un ufficiale della Rsi ordina al caporale Giampiero Civati di uccidere il ribelle. Al ripetuto rifiuto di quest’ultimo di eseguire il comando, scatta immediata la condanna a morte, che viene eseguita in loco: Civati e Zelasco vengono fucilati insieme e sommariamente sepolti nei pressi della miniera. (Dati, documenti e presentazione inseriti da Igor Pizzirusso. Ultimo aggiornamento: 17-7-2007).

Ma ora, prima di procedere, credo sia necessario fare alcune precisazioni:

a)- Montedomenico non è un comune, ma delle frazioni collinari del Comune di Sestri Levante (GE). Non dico questo per saccenteria né per “sapienteria”, ma solo perché sono nato e vissuto sempre a Sestri Levante, e queste cose non mi possono essere che arcinote. Anche la storia di Civati, del resto, mi è abbastanza nota perché avvenuta, allora, a circa 6/7 Km da casa mia. E a quei tempi la Monterosa era qui accampata a non più di m 100 dalla soglia di casa mia.

b)- Nell’Atto Notorio (chiaramente strumentale) viene detto che il Civati è stato ucciso perché s’era rifiutato di partecipare ad un rastrellamento. Ma per quanto viene riportato nella motivazione quel diniego non vale per il rastrellamento del 5-12-44 in quanto l’alpino, insieme ai suoi commilitoni, eseguono il rastrellamento in questione, e praticamente feriscono a morte il Partigiano nella sparatoria iniziale. Solo alla fine si dice che l’ufficiale ordina al Civati di finire il prigioniero, tra l’altro agonizzante. Ma non era possibile perché è anche arcinoto che il caporale rimase ucciso prima che parte del plotone alpino arrivasse dove al partigiano verrà comunque inferto il colpo di grazia, anche se probabilmente fosse già spirato. Infatti il caporale, ormai morto pure lui, giaceva nello stesso punto dove s’era appostato all’inizio dell’operazione antiribbelistica.

c)- Alla fine della nota di cui più sopra viene affermato che i due vengono fucilati assieme, e poi sepolti alla meglio nei pressi della miniera. Anche qui emerge una grossa incongruenza. I due morti (e anche da vivi) non vengono mai a trovarsi fianco a fianco, o di fronte, perché le due salme si trovano e si sono trovate sempre ad una distanza di almeno 180/250 metri circa l’una dall’altra. Attraverso la Mappa Google della zona, la distanza tra i due punti (in linea d’aria) non supera però i 100/110 metri. 

Poi la salma dell’alpino, come già detto, viene condotta presso una famiglia contadina vicina, in qualche modo ripulita e ricomposta, e, a braccia, successivamente portata dai suoi commilitoni, più sotto, in zona Balicca, dove, stesa poi su una autoambulanza, viene condotta al cimitero di Chiavari e tumulata nella fossa n.6 del Campo “D” dell’allora zona Militare.

Invece – come dettomi personalmente dalla figlia della donna che allora ha ripulito la salma del Civati – e figlia anche del minatore che insieme ad altri ha nottetempo aiutato a portare a spalle la salma di Zelasco a Iscioli – il corpo del partigiano viene pietosamente raccolto da un gruppo di contadini e minatori, ripulito e ricomposto, e poi condotto nottetempo, avvolto in un lenzuolo, verso Iscioli, già grossa base partigiana. E poi da qui, portato dai suoi stessi compagni, a Comuneglia, altra grossa base partigiana, dove verrà cristianamente tumulato nel minuscolo cimitero parrocchiale. E a fine guerra riportato a Bergamo, sua città natale.

Poi, navigando in internet, sono incappato in una notizia di giornale. Infatti nell’archivio del Corriere della Sera, e di molti altri quotidiani a tiratura nazionale, in data 4 febbraio 2003, sotto la voce Civati Giampiero trovo un articolo firmato Bottagisi Claudio e intitolato: “Offesa la memoria dell’eroe Perlasca“ (v. Fig. 11) che reca come sottotitolo: “A Cernobbio divelta la stele dedicata all’uomo che salvò migliaia di ebrei. Il ministro Stanca dice: «Barbara aggressione». Il sindaco Isola: «Soltanto gente ignobile può aver compiuto un simile atto che offende l’intera comunità». Incuriosito, ma soprattutto urtato da notizie così avvilenti leggo avidamente l’articolo e vengo così a conoscenza di altri particolari. Per esempio: …//…Il cippo è collocato nel «Parco della Memoria» (v. Fig. 12) vicino al municipio, che accoglie anche le lapidi a cinque eroi della Resistenza. Due di queste sono state deturpate: quella alla memoria di Ettore Fumagalli, partigiano-simbolo per i cernobbiesi, e di Giampiero Civati (v. Fig. 13), alpino di Erba che sui monti presso La Spezia, in Liguria, fu ucciso per aver rifiutato di sparare ad altri soldati italiani. …//… Vorrei tanto approfondire la cosa. Magari sapere cosa c’è scritto sulla targa di tutti, ma soprattutto su quella dell’alpino. Cerco anche nel sito del comune di Cernobbio ma non trovo altro. Allora decido di scrivere al Sindaco di Cernobbio, che persona particolarmente gentile, mi fa rispondere così dal suo staff:

«Egregio signor Vittorio, le trascrivo il testo che il visitatore può leggere sulla targa dedicata a Giampiero Civati nel “Luogo Della Memoria” inserito nel Parco Giorgio Perlasca:

“GIAMPIERO CIVATI alpino morto per la Sua Patria”.

Nasce a Erba l’8 febbraio 1923, da una famiglia della Brianza poi trasferitasi negli anni trenta nel comasco, più precisamente a Camerlata. Nel 1943 fu arruolato negli Alpini della Repubblica di Salò. Divenuto caporale, è aggregato nel “Morbegno” di stanza a La Spezia. Il “Morbegno” fu peraltro impiegato anche in scontri contro i Partigiani. In un’azione sul monte Domenico Basso, il 5 dicembre 1944 venne a contatto, insieme ai suoi commilitoni, con una formazione partigiana che fu sopraffatta e passata per le armi. Il caporale Giampiero Civati, con altri compagni, fu chiamato a far parte dell’improvvisato plotone di esecuzione: I suoi ideali erano manifesti. Voleva solo il bene dell’Italia. Sangue dei fratelli non l’avrebbe mai sparso».

Anche in questo caso viene ripetuto l’errore fatto in altri riferimenti, e viene detto che il gruppo di partigiani viene fucilato e che il Civati sarebbe stato chiamato a far parte del plotone di esecuzione. Né in quella data e né mai vi sono state fucilazioni di gruppi di partigiani (né di alpini) in quel sito del Comune di Sestri Levante. Per il resto, può valere quanto detto sopra nel commentare il pezzo dell’INSMLI.

Ma da questo momento ho deciso di non proseguire più ad elencare le varie incongruenze riscontrate. Ricordo solo altre due cose:

a)- Il 6 aprile 2003, (v. Fig. 14) in località S. Margherita di Fossa Lupara (sempre nel comune di Sestri Levante) viene inaugurato una lapide a ricordo dei fatti avvenuti durante la guerra nella vallata di S. Vittoria di Libiola, nelle frazioni limitrofe, e dei partigiani e patrioti che ivi hanno trovato la morte o in combattimento, o giustiziati dai fascisti. Ed ecco come vengono riportati i fatti relativi all’alpino Civati in una cronaca relativa all’inaugurazione della suddetta lapide:

«È stata ricordata la Medaglia d’Argento al V.M. Rodolfo Zelasco, che diede il nome ad una delle più attive Brigate Partigiane della Divisione Coduri. Il 5 dicembre ’44 a Montedomenico, durante un’azione, rimane ferito ma riesce a far mettere in salvo i suoi uomini e per non cadere prigioniero dei fascisti si uccide. Insieme a Zelasco, cadde anche Giampiero Civati; era tra i fascisti che avevano avvistato i partigiani. Al suo rifiuto di far fuoco il suo sergente gli spara un colpo alla tempia uccidendolo all’istante. Il comune di Como, suo luogo di nascita, per questo atto gli ha concesso una Medaglia d’Oro».

Anche su questa Lapide il nominativo di Giampiero Civati è incluso, insieme a quello di Zelasco e altri, nel corposo elenco dei martiri partigiani. E per non far torto al Civati, che non è partigiano, e non ha quindi nessun soprannome partigiano, non vengono riportati neanche i nomi di battaglia dei partigiani veri, che – come ben sappiamo – ne vanno particolarmente fieri. (Solo per inciso, si sa che dell’appellativo “partigiano combattente” possano fregiarsi solo quelli riconosciuti come tali dall’apposita Commissione di Riconoscimento Qualifiche a suo tempo istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dove Civati, giustamente, non compare).

b)- Nel sito della Fondazione della R.S.I. – Istituto Storico onlus – è riportato inoltre un corposo “Albo Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana, a cura di Arturo Conti, Edizione 2009: tra le migliaia di nomi viene elencato anche quello di Giampiero Civati. E nella causa della morte viene indicata una “A”. Che secondo l’annessa legenda starebbe per “assassinio conseguente ad agguato, aggressione o cattura”.

Lo storico Claudio Pavone nella sua opera “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza” (ristampa maggio 2017, Bollati Boringhieri Ed., Torino) nel riportare a p. 61 il testamento di Civati scrive:

… Questi fascisti pensano che la Repubblica sociale sia l’ultima occa­sione di ritrovare la purezza offesa dal fascismo del ventennio. Scrive dalla Germania un uomo che ha chiesto di arruolarsi nell’esercito repubblicano che egli vuol combattere «per la Patria e per l’idea», e che è sicuro di trovare «veri uomini», non «usi solo ad evviva, sbandieramenti, divise di tutte le fogge, come prima e come gli uomini del passato regime ci avevano abituati, ma uomini di poche parole, ma pronti a prendere le armi per lavare il disonore di cui ci hanno macchiato i traditori che si sono venduti al nemico». «Eravamo pochi ma sani», si legge in un’altra lettera, che spiega i motivi dell’adesione al Partito fascista repubblicano; e un tenente di vascello dichiara che «tutto sommato il partito ci ha guadagnato» liberandosi «della zavorra degli opportunisti».
Il capo della provincia di Genova, Basile, ostenta di fronte al Comando delle SS la convinzione che «l’onta del tradimento non può essere lavata che nel sangue di una minoranza agguerrita che dimostri che non tutti gli italiani hanno un’anima di servi». Un milite della Guardia nazionale repubblicana gioisce, in una lettera privata, all’idea di vendicarsi dei traditori usando il ferro e il fuoco. Il maggiore Carità nega a un condannato la fucilazione al petto invece che alla schiena: «No, tu sei un traditore, hai combattuto contro la tua patria nelle file dei miliziani rossi, e devi morire come muoiono i traditori». Nella stessa occasione, il fratello del tenente colonnello Gobbi, per la cui uccisione veniva eseguita la rappresaglia, anch’eg­li ufficiale fascista, così insolentì le vittime: «Vigliacchi, ringrazino Dio che sono morti alla luce del sole, mio fratello è stato ucciso sta­notte a tradimento, all’angolo di una strada mentre rincasava dopo aver compiuto il proprio dovere». Qui il cerchio sembra chiudersi: i traditori non possono colpire che «a tradimento». Anche chi si fa quasi un vanto di anteporre l’Italia – l’Italia in guerra – allo stesso fascismo appare convinto di doversi vendicare dei traditori: «Sono figlio d’Italia di anni 21. Non sono di Graziani e nemmeno badogliano ma sono italiano: e seguo la via che salverà l’onore d’Italia».*
       * [ “Testamento spirituale” di Giampietro Civati, ucciso il 5 dicembre 1944 (LRSI, p. 180)]

Conclusione: Adesso, per essere coerente, so che dovrei trarre alcune conclusioni. Ma per primo vorrei dire che assolutamente non nutro nessuna antipatia né verso i militari della Monterosa (che considero, tranne alcuni fanatici impenitenti) mere vittime del tragico momento che l’Italia stava vivendo in quel momento) né, in particolare, verso l’alpino Giampiero Civati, né contro i suoi famigliari. Chi mi crea disturbo sono solo quelli che s’attaccano a questo o a quel nome per fare solo della dietrologia politica. Anzi, sono per dire, soprattutto, che se il Civati avesse dei meriti, gli dovrebbero essere riconosciuti, ma chiaramente, senza tanto arrampicarsi sugli specchi, e senza (per far sembrare più veritiera la sua figura) farlo salire per forza sul carro dei meriti altrui, avvilendo, in tale modo, specialmente la sua di immagine, che penso comunque non lo meriti. Perire nella drammatica confusione che la situazione politica di allora aveva generato; dall’odio, palpabile, per tutto e per tutti che essa aveva fatto maturare in troppi italiani; dalla paura che s’era insinuata in tutti e in chiunque; dalla paranoia che attanagliava molte coscienze ormai giunte a tale disorientamento interiore da non riuscire più a discernere il bene dal male; oppure di scorgere in ogni interlocutore il tradimento e a erigersi magari a suo giustiziere senza minimamente riflettere che ogni vita umana è, sopra ogni altra cosa, sacra. Insomma, morti per questo, morti per esprimere una propria idea, anche se poi la storia dirà che era sbagliata, già mi sembra una morte degna di un certo rispetto. Se poi si vuole apparire oltremodo concilianti, non serve certo costruire alchimie ad ogni costo, ma bisogna guardare le cose nel loro insieme, accettare le ragioni altrui non una per una, singolarmente, ma pluralmente e tutte insieme; e così com’esse sono, senza perseguire ideologie ormai logore e largamente trapassate.

Altra possibilità mi pare non vi sia. Comunque non è certo sufficiente che un Comune e un’associazione, per altri versi meritoria, erigano un monumento dove due caduti vengono parificati, e quindi resi uguali solo perché morti nello stesso giorno e, più o meno, nello stesso luogo, a pareggiare i conti. Sono le due ragioni per cui sono morti che già li distingue e li distinguerà per sempre: uno (Rodolfo Zelasco “Barba”) perché aveva fatto una sua scelta precisa e la stava lucidamente portando a compimento; l’altro (il caporale Giampiero Civati) perché non era riuscito a decifrare in tempo la realtà che lo soffocava e lo rendeva succube di una ideologia ormai giunta alla sua fine più ovvia.

Vorrei soltanto aggiungere che il Comune di Sestri Levante, per primo, dovrebbe farsi un piccolo esame di coscienza e analizzare più compiutamente l’intera vicenda, e agire poi di conseguenza. Senza aver paura di nuocere a chicchessia (davvero non mi sembra proprio più il caso) che in passato ha agito magari troppo frettolosamente e senza la dovuta dose di attenzione.

E questo solo per essere coerenti e rispettosi della storia e delle cose effettivamente accadute in quel tragico 5 dicembre 1944 a Montedomenico: località per altro molto legata e amica della Resistenza. Impavida e, soprattutto, che ha agito sempre a suo proprio rischio e pericolo nel prestare aiuto massimo ai partigiani.

*   *   *

A questo punto riterrei opportuno anche riportare alcune considerazioni del Signor Paolo Zelasco, fratello di Rodolfo “Barba”, al quale ho sottoposto, prima di pubblicarle sul sito, le seguenti due note:

1A – “Come si vede neppure la fine di Civati è chiara. Una cosa sola è certa: comunque siano andate le cose è morto con addosso la divisa fascista mentre partecipava, non certo per la prima volta, ad un rastrellamento. Servirsi di un “Testamento militare” per farne un eroe mi sembra assurdo e fa parte del piano in atto per equiparare vittime e carnefici in nome di una non auspicabile riconciliazione.
A questo punto si potrebbe sostenere anche che mio fratello, comunista e figlio di socialisti, pur essendo caduto con il fazzoletto rosso al collo sparando fino all’ultimo contro gli ex commilitoni della Monterosa, era in realtà un fascista convinto e come tale andrebbe onorato tra i caduti della RSI”. 

2A – Mentre la fine eroica di mio fratello e le divergenze sulle sue modalità sono irrilevanti e comprensibili, non lo è quella dell’alpino Civati.
A distanza di anni si stila un improbabile atto notorio, si sbandiera un enigmatico “testamento militare” e, mentre autori fascisti si appropriano della sua figura basandosi su realtà oggettive (la sua appartenenza alla Monterosa, la partecipazione ad azioni di rastrellamento ecc.), inspiegabilmente sezioni di partito, amm.ni comunali democratiche e la stessa ANPI di Sestri si attivano per trasformarne la figura in senso democratico.
Ho il sospetto che tutto sia partito dai suoi famigliari i quali, essendo comunisti, mal tolleravano l’idea che il loro congiunto fosse caduto combattendo contro i partigiani e indossando la divisa fascista. Ciò premesso tengo ad affermare di non aver nulla contro di loro e contro i loro puerili tentativi di trasformare un caduto in un eroe. Vorrei solo che venisse almeno rispettata la verità storica e che, soprattutto,  non ci si servisse di un eroe autentico (che non scriveva testamenti militari ma aveva fatto una scelta chiara in favore della democrazia), per farne una fasulla. Nulla unisce i due caduti. Uno combatteva per la libertà, l’altro, forse senza neppure rendersene conto, per una sanguinosa dittatura».

*   *    *

 

(Foto di EVB) – Otto scatti di come appaiono attualmente i luoghi di Montedomenico dove si svolsero i fatti raccontati sopra.