Fasc. 40 – Doc. 3By Elio V. Bartolozzi: “Memoria addomesticata, note sulla morte di Rodolfo Zelasco”. Articolo apparso sulla rivista semestrale Studi e ricerche di storia contemporanea, anno 40°, fasc. 76, dicembre 2011, pp. 79/88, ed. ISREC, Bergamo, 2011.

Nota di presentazione della redazione:
Elio Vittorio Bartolozzi, l’autore di queste note, è un pensionato ferroviere, macchinista, nato a Sestri Levante nel 1936 e rimasto orfano di padre, con tre fratelli e tre sorelle, all’età di 3 anni. Nella sua storia di ragazzo i partigiani sono entrati quando ancora non erano importanti. Erano dei giovanotti di una decina d’anni più “grandi” di lui, per la maggior parte operai, che vivevano in case vici­ne alla sua, a Santa Margherita di Fossa Lupara, frazione agricola di Sestri Le­vante. Santa era un “fortino elettorale dei comunisti” e il comunismo con al se­guito la Resistenza era entrato in casa di Elio con tre dei suoi fratelli maggiori. A Santa la Resistenza era storia comune; il suo ricordo genuino e la celebrazione popolare.

La guerra grossa, quella da dove era emersa la Resistenza, ha avuto riscontri precisi nella vita di Elio. Nella piana di Santa, dove c’era la casa che abitava con fratelli e sorelle, stavano acquartierate a partire dal 1943, truppe tedesche, alpini della Monterosa, “mongoli” e dopo la Liberazione, truppe Alleate, “americani di colore, specialmente”. Presenze che hanno determinato una densa produzione di cippi e lapidi a ricordo di caduti partigiani, disertori e patrioti fucilati o vittime di rappresaglie.

Fu nell’occasione della stesura di un opuscolo in memoria del comandante del­la “Coduri, locale divisione partigiana, che Elio venne in contatto con molti par­tigiani del Tigullio. Grazie ad essi, luoghi, persone e cose in mezzo alle quali era cresciuto rivelarono, oltre che nuovi intrecci, problematiche sconosciute. Del partigianato locale divenne un “esperto” al punto che, nel 1975, il quotidiano geno­vese “Il Lavoro ” lo invitò a scrivere in cinque puntate una storia della divisione “Coduri”.

In pensione, “per riempire il tempo “, Elio ha rimesso mano ai suoi appunti di allora e ad altri aggiuntisi in seguito e li ha raccolti su un sito internet – www.netpoetry.it dove, oltre che di poesia, l’antica passione, si parla anche di Resistenza e dove si possono incontrare molti dei suoi protagonisti spesso scono­sciuti ai più. Grazie ad esso molti, partigiani e non, sono entrati in contatto con lui, hanno chiesto e dato informazioni, posto quesiti. Fra questi anche Enzo Galizzi di Bergamo, figlio di Luciano, il partigiano “Argo” della “Coduri”, un so­pravvissuto della squadra dove Zelasco aveva trovato la morte.

Era una storia confusa quella di Zelasco. Ad essa, per quei singolari volteggi di cui è quasi impossibile stabilire l’origine, era stata associata, senza alcun nesso probante, la morte di un alpino della Monterosa, avvenuta lo stesso giorno e nell’ambito del conflitto a fuoco proprio contro il gruppo di Zelasco. Una banale coincidenza, fino a quando qualcuno non aveva cominciato ad usarla per fini me­no nobili e poco rispettosi della storia.

Per Elio il sito web non è stato solo una porta sul passato ma anche sul presen­te. Grazie ad esso, periodicamente, sono molti gli studenti del Tigullio che gli chiedono chiarimenti sugli episodi raccontati. Nel Tigullio, anche grazie al sito di Elio, la Resistenza sembra avere ancora una certa fortuna.

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«RIFIUTANDO D’INFIERIRE / SU ZELASCO / L’ALPINO / CIVATI GIAMPIERO / IMMOLÒ QUI LA SUA VITA / TESTIMONIANZA SUBLIME / CHE LA LOTTA PARTIGIANA / NON FU / GUERRA FRATRICIDA». Queste le parole presenti sul monumento, eretto nella frazione collinare di Montedomenico, dal Comune di Sestri Levante (GE) e dall’ANPI sestrese, nell’aprile 1983: un pesante masso semigrezzo, con una targa posticcia di marmo bianco su cui la dedica è incisa.

            L’alpino Civati Giampiero era nato l’8 febbraio del 1923 a Erba (CO). Militare di leva, l’8 settembre ‘43, come molti altri militari italiani lasciati senza ordini, abbandona la divisa e se ne torna a casa. Richiamato dai minacciosi “bandi” della RSI del novembre ‘43, si presenta al Centro Arruolamento di Morbegno per poi raggiungere, nel febbraio successivo, Münsingen (Germania) dove la Wehrmacht aveva il compito di formare e istruire una della quattro nuove divisioni della RSI. E precisamente la 4a divisione alpina Monterosa. Tornato in Patria alla fine di luglio 1944 – cpl mitragliere della Divisione alpina Monterosa (2° rgt, btg Morbegno, 8a cmp) di stanza in Liguria (tra Cavi di Lavagna e Levanto) – veniva assegnato a un presidio posto nel comune di Moneglia. Con lo sbarco degli Alleati in Provenza (Francia) dell’agosto ’44, e, a ottobre, il trasferimento in Piemonte di un secondo battaglione della Monterosa – il btg Tirano – in molte delle postazioni rimaste così sgombre, subentrava il btg. Morbegno.

            Oltre i compiti più generali assegnati alla Monterosa, controllo e sicurezza delle retrovie e della viabilità ligure, al Morbegno di Civati era affidata soprattutto l’azione antiribellistica nell’area comprendente i comuni rivieraschi da Sestri Levante a Levanto; oltre a quelli di Casarza Ligure e altri minori nell’entroterra.

            Anche Rodolfo Zelasco, “Nani” per famigliari e amici, nato a Bergamo il 25 novembre 1924, aveva risposto ai bandi di arruolamento della RSI presentandosi al Centro Arruolamento di Tirano. A marzo, anche lui raggiunge Münsingen per la definitiva formazione militare. E ancora, come Civati, anche lui rientrerà dalla Germania a fine luglio 1944, inquadrato nel btg Tirano della Monterosa dislocato tra i comuni di Sestri Levante e Moneglia esclusa. Ma le analogie tra i due “monterosini” finiscono qui perché il 19 settembre ‘44, assieme ad alcuni suoi compagni d’armi, provenienti come lui dalla Bergamasca, Zelasco diserterà dalla Monterosa per unirsi ai partigiani della “Coduri”, la formazione comandata da “Virgola” (Eraldo Fico), che operava nell’entroterra del Tigullio.

            Le storie di Zelasco e Civati tornano a incontrarsi nelle prime ore del pomeriggio del 5 dicembre 1944 quando, nella parte bassa di Montedomenico – localmente meglio conosciuta come Rione Pozzuolo – [ref] Allora (dicembre 1944) la zona bassa della frazione di Montedomenico consisteva solo in un paio di abitazioni coloniche e alcuni “casoni” a uso agricolo sparsi sul crinale destro di uno stretto e ripido vallone sul fondo del quale scorre il torrente Gromolo.[/ref] un plotone di alpini della Monterosa, scorgendo sul crinale opposto del vallone un gruppetto di partigiani scendere lungo il cosiddetto sentiero delle miniere, si era occultato per tendergli un agguato. I due gruppi si trovavano dirimpetto e a non più di 180/250 metri circa di distanza l’uno dall’altro. Più numerosi gli alpini (25/30) e meglio armati perché dotati di almeno una mitragliatrice (maneggiata dal cpl Civati), di alcuni fucili mitragliatori e di diversi fucili “ta-pum”. I partigiani, una squadra di 5 o 6 elementi comandata da Zelasco, che non si erano affatto accorti della presenza degli alpini, disponevano solo di armi automatiche leggere (MAB, in prevalenza) e qualche bomba a mano. Quando gli alpini cominciarono a sparare – avevano aspettato che il gruppetto si trovasse allo scoperto – il primo a cadere fu Zelasco, da tempo divenuto il partigiano “Barba”. Impossibilitato a muoversi, Barba aveva ordinato ai suoi compagni – tutti fortunatamente rimasti illesi – (( www.netpoetry.it/L-Galizzi.html.)) di porsi in salvo. Poi, da ferito, aveva continuato a sparare sugli alpini riservando per sé l’ultima pallottola. Era un disertore e non aveva dubbi sul trattamento che avrebbe ricevuto se si fosse fatto catturare vivo.[ref] In una successiva lettera a Pistacchio (membro dell’ANPI di Sestri Levante n.d.a.) datata 12.2.88, anche il fratello di Zelasco, Paolo, scrive: “… il racconto della sua tragica fine concorda con quanto mi fu raccontato, nel lontano 1946, dai partigiani che erano con lui e dallo stesso Virgola. Al proposito ricordo che uno di essi mi disse: “Se tuo fratello avesse avuto qualche caricatore in più, forse si sarebbe salvato. L’abbiamo rinvenuto con la faccia bruciacchiata e abbiamo capito che, esaurite le munizioni, si era sparata l’ultima cartuccia”.[/ref]

Basta prendere atto del trattamento che gli riservarono da morto gli alpini – che nel frattempo avevano raggiunto il luogo dove si era infrattato a sparare gli ultimi colpi – immediatamente gli avevano tolto l’arma e poi, prima di abbandonarne il cadavere, avevano infierito su di lui col calcio dei fucili.[ref] Castagnino Saetta, “Il cammino della libertà”, pag. 220, Genova 2005, Ed. De Ferrari, dove l’autore così descrive la fine di Dell’Orco Cesare “Biella”, partigiano della Coduri anche lui suicidatosi, come Zelasco, per non cadere prigioniero dei suoi ex commilitoni. “… Sotto quell’uragano di fuoco, Biella il Commissario è come sempre di esempio; nel corso del repentino e drammatico risveglio si sente la sua voce alta e ferma; prima incita al combattimento, poi, ordina di sganciarsi uno alla volta; infine, gravemente ferito si punta il fucile alla gola e tira il grilletto per non cadere prigioniero dei fascisti”.[/ref]

           Per altro, anche tra gli alpini c’era stato un morto: colpito al capo da una pallottola, rimane sul campo il mitragliere Civati Giampiero. Diverso però il loro destino dopo morti. La salma dell’alpino, condotta presso una non lontana casa colonica, era stata ripulita alla meglio da una donna del posto per poi essere trasportata, a braccia, fino in località Balicca; e dopo, con un’ambulanza, al cimitero di Chiavari. Qui il giorno 7 successivo fu tumulata nel “Campo D”, Sezione Militare. Da dove, nel febbraio del 1949, fu prelevata dai parenti e trasferita a Camerlata (CO), suo luogo di residenza. Il corpo del partigiano, recuperato da alcuni contadini locali (tra i quali il marito della donna che aveva ripulito il cplm. Civati) sarà invece consegnato ai compagni di distaccamento che provvederanno a seppellirlo nel cimitero di Comuneglia, nel cuore della zona partigiana.

            A circa due mesi dai fatti, i compagni di lotta intitolavano al partigiano “Barba” una delle tre Brigate, appunto la “Zelasco”, facente parte della divisione garibaldina “Coduri”. A guerra terminata, a Zelasco, sia a Sestri Levante sia a Bergamo, sua città natale, venivano tributati importanti riconoscimenti. A Sestri Levante, il 15 febbraio1948, alla presenza delle autorità cittadine, dell’ANPI e di molti dei suoi compagni partigiani, veniva posta sulla facciata della chiesetta parrocchiale di Montedomenico una lapide a perenne  memoria: “ 2 – 11 – 1924 // 5 – 12 ‑1944: ZELASCO RODOLFO / PARTIGIANO “BARBA” / CADEVA EROICAMENTE NELLA LOTTA NAZIFASCISTA / PER LA LIBERAZIONE DELLA PATRIA / I VILLICI DI QUESTA ZONA SPETTATORI / DI TANTO MARTIRIO VOLLERO ETERNARNE / IL RICORDO QUI NEL TEMPIO DI DIO”. Lo stesso giorno, nel luogo dove Barba era spirato, era stata posta una croce in legno. Deterioratasi col passare degli anni, alcuni abitanti di Libiola e di Montedomenico, spontaneamente e di loro iniziativa, l’hanno poi sostituita con una piccola stele di marmo bianco con scolpito sopra il nome e la data di nascita e di morte di Zelasco. Sei anni dopo, il 2 giugno 1954, di nuovo a Montedomenico, alla presenza del sindaco di Sestri L., Ocule, dell’ANPI e di molti suoi compagni della “Coduri”, a “Barba” Zelasco, caduto per la libertà, era stato intitolato il locale edificio della scuola elementare.

           Assieme al padre Giovanni (n. 1893) storico oppositore del fascismo, commissario di zona e fiduciario regionale del CVL locale [morto il 18/10/1944, circa una cinquantina di giorni prima del figlio, in un incidente stradale avvenuto ad Algua (BG) il 30/9/1944, durante una missione connessa alla Resistenza] la città di Bergamo gli intitolava una strada (Via Giovanni e Rodolfo Zelasco); e, l’8/12/1946, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, gli conferiva la laurea Honoris Causa alla memoria. E alla Memoria pure la Medaglia d’Argento al Merito concessa dal Presidente delle Repubblica con  decreto 29.04.1950.

            Sul caporale Civati Giampiero, almeno in Liguria, calava invece il silenzio più assoluto. Fino al 1971 quando vedeva la luce “Monterosa Storia della Div. Alpina Monterosa della RSI”, autore Carlo Cornia, [ref] C. Cornia, “Monterosa Storia della Div. Alpina Monterosa della RSI”, Ed. Del Corno, Udine 1971.[/ref] ex tenente della Monterosa, e pubblicato “a cura dei reduci della Monterosa a ricordo ed onore dei Camerati caduti”. Cornia esaltava il patriottismo e la fedeltà al giuramento prestato dai militari della RSI e, di riflesso, cercava di sminuire il rilievo del movimento partigiano protagonista di azioni solo propagandistiche che pochi danni avevano inflitto alla Monterosa. Scriveva tra l’altro “Anche l’8.a (n.d.a, la compagnia cui lo stesso Cornia apparteneva) del Morbegno fu presa specialmente di mira: in tre mesi otto attacchi a pattuglie, posti di blocco, carrette, con cattura di uomini, rientrati in seguito al reparto […] La notte del 5 dicembre presso la miniera di Libiola, sulla strada dal Bracco a Levanto, una pattuglia dell’8.a si scontrò con una di partigiani. Cadde il caporale Giampietro Civati. Gli trovarono in tasca un foglio che aveva scritto poche ore prima: «Testamento militare 5- 12- 44: Pochissime parole mi spiego le mie idee e il mio sentimento: sono figlio d’Italia di anni 21, non sono di Graziani e neanche Badogliano; ma sono italiano, e segguo la via che salverà l’onore d’Italia». Poco oltre, a pag. 235, Cornia pubblica l’immagine di una grande targa marmorea, suddivisa in quattro quadri, su cui sono scolpiti tutti i nomi (compreso quello del cplm. G. Civati) dei Caduti della RSI, noti fino a quel momento, murata dai reduci della Monterosa, nell’oratorio della Chiesa di S. Rocco di Palleroso in Garfagnana: “A RICORDO DEI COMPAGNI D’ARME CADUTI SUL FRONTE DELLA GARFAGNANA SULLE ALPI OCCIDENTALI E OVUNQUE LA PATRIA LI VOLLE. I REDUCI DELLA DIVISIONE ALPINA MONTEROSA RESTAURARONO QUESTO ORATORIO ESALTANDO IL SACRIFICIO ITALIANO DI OGNI GUERRA. (1944 – 1945 *** 1959). CONCESSIONE LA PIEVE DI PALLEROSO E DI DON ADELMO TARDELLI SUO PASTORE”.   

            La pubblicazione di Cornia mette in movimento gli stati maggiori della memoria. Da una parte i partiti di sinistra e l’ANPI (almeno la sezione sestrese) contestano l’interpretazione “spudorata” che Cornia dava del “Testamento”. Per Cornia, il repubblichino Civati incarnava il soldato ideale, pronto a onorare la patria fino in fondo, fino alla morte se necessario, diversamente da quanti allora la disonoravano disertando o addirittura ponendosi a combatterla. Per la sinistra e l’ANPI, al contrario, il “Testamento” era la prova dell’intenzione dell’alpino di abbandonare la Monterosa per unirsi alla Resistenza armata. Desiderio reso impossibile dalla morte inflitta allo stesso Civati non dal fuoco partigiano ma dalla mano amica di un suo superiore.

            La prima versione “di sinistra” della morte di Civati risale al 1982. A pagina 235 dell’opera di A. Berti e M. Tasso, “Storia della Divisione Garibaldina “Coduri” l’intera vicenda, veniva narrata secondo una nuova prospettiva:

Il 5-12-44, una pattuglia di partigiani della “Coduri”, composta dal capo squadra “Barba” (Rodolfo Zelasco) studente in medicina ed ex alpino della Monterosa e da altri cinque uomini, venne attaccata da un reparto alpino nei pressi della miniera di Libiola mentre stava rientrando da una missione; gli alpini, dotati di mitragliatrice e di armi automatiche erano in agguato su un costone nei pressi di Montedomenico bassa. Avvistata la squadra partigiana, iniziarono contro di essa un fuoco micidiale. “Barba”, vista la impossibilità di scampo, ordinava agli uomini di mettersi in salvo. Egli con sangue freddo imbracciava l’arma automatica facendo fuoco verso il nemico per attirarne l’attenzione e coprire la ritirata ai suoi compagni. Colpito più volte dalle raffiche nemiche, si accasciava al suolo gravemente ferito. I suoi ex commilitoni lo finirono a colpi di arma automatica, mentre gli altri cinque partigiani poterono mettersi in salvo, grazie al sacrificio della vita di “Barba”.

I due autori, facevano inoltre notare che la data del testamento del Civati era la stessa dello scontro che avrebbe portato alla morte di Zelasco oltre a quello dello stesso Civati, caduto per mano di un suo superiore [dicevano] essendosi rifiutato di sparare sul nemico. La prova della loro affermazione proveniva dalle testimonianze [dicevano] di alcuni contadini di Montedomenico “presenti” ai fatti nel mentre si svolgevano.

            L’anno successivo, il 1983, la pubblicazione di Aldo Vallerio “Riccio” (ex comandante della Brigata “Zelasco” della Div. Coduri) – “Ne è valsa la pena?” – intrecciava per la prima volta, e in modo sorprendente e nuovo, la storia della morte di Barba e quella di Civati. Zelasco, scriveva Riccio:

“…fu purtroppo sfortunato, perché rimase ferito mortalmente dal colpo da lui stesso sparato, ma ancora in vita. (n.d.a. Riccio confermava così il tentativo di autoeliminazione). […] L’ufficiale che comanda il reparto nemico, giunto sul posto, ordina all’alpino Giampiero Civati di Como di dare il colpo di grazia all’eroe partigiano che giace a terra moribondo in un lago di sangue. L’alpino guarda quel corpo inerte, ed improvvisamente si sente scosso da un conato istintivo di ribellione. Volta le spalle all’ufficiale e si rifiuta di sparare. (Ben strano comportamento quello del mitragliere: finché è lontano e intento a sparare sventagliate di proiettili sui partigiani, per decimarli, non si fa scrupolo, mentre poi… n.d.a.). L’ufficiale fascista non ha la benché minima esitazione. Estrae la pistola dal fodero e mira freddamente al capo l’alpino, che in quel preciso momento ha deciso pure lui di morire da partigiano. Al fianco di Zelasco ora c’è un altro corpo inerte. Quello di Giampiero Civati. Pietà l’è morta!”.

            Una ricostruzione, quella fatta da Riccio, emotivamente forte ma poco rispettosa dei fatti. Le due morti avvennero in luoghi diversi: a 200 metri circa l’una dall’altra e, nella circostanza, i due non ebbero sicuramente modo d’incrociare i loro sguardi perché l’alpino, quando i suoi commilitoni raggiunsero il corpo ormai esanime di Zelasco, era anch’egli già morto in quanto, subito dopo essere stato colpito, fu immediatamente soccorso e portato a braccia in casa della donna che ebbe solo modo di poterlo ripulire (già cadavere, col capo spappolato da una pallottola che gli era entrata dall’occipite e fuoriuscita dalla mandibola sinistra) e prepararlo per l’ultimo trasporto fino in località Balicca.

            Le due pubblicazioni che rivendicavano l’appartenenza del Civati all’area resistenziale avevano in realtà un antefatto di cui però all’epoca quasi nessuno era a conoscenza. L’11 luglio 1948 era stato steso e depositato nel Comune di Sestri Levante un Atto Notorio fatto redigere su istanza di Civati Emilio, padre dell’alpino, nel quale davanti al Pretore della città di Sestri Levante quattro testimoni dichiaravano che “il giorno 5 dicembre 1944 è deceduto il caporale degli alpini Civati Giampiero […] a seguito di un colpo di fucile sparatogli dal comandante del plotone, essendosi egli rifiutato di partecipare a un rastrellamento contro i partigiani”. Le deposizioni rese nel 1948 non semplificano lo scenario di quanto avvenuto a Montedomenico in quel famoso 5 dicembre 1944 ma al contrario lo complicano. Il Civati infatti moriva il 5 dicembre a Montedomenico nel corso di un’azione di controllo del territorio effettuata dal suo reparto, e quindi non per essersi rifiutato di partecipare ad una azione che aveva avuto sviluppi casuali. L’evidente improprietà della formulazione – e l’inutilità dei testimoni di Montedomenico per riferire d’una cosa che più ragionevolmente avrebbe dovuto succedere in caserma o quanto meno nell’accampamento – è rivelatrice, quanto alla stesura dell’atto, di finalità sicuramente strumentali. Abbondano versioni interessate a fronte delle quali i documenti esibiti sono scarsi e di non immediata interpretazione. A cominciare dalle testimonianze raccolte e presentate dal padre di Civati di fronte al pretore di Sestri Levante, per proseguire con quelle dei compagni d’arme di Zelasco che lo ucciderebbero per sua stessa mano, e quelle degli abitanti di Montedomenico che hanno contribuito alle varie ricostruzioni invocando una loro presenza sul luogo dei fatti mentre questi si svolgevano – problematica e tutta da dimostrare – fino allo stesso “testamento” mai sottoposto a perizia grafica e steso su un foglio monco. E ancora fino alle descrizioni delle ferite rilevate sul Civati nel ricordo che in seguito ne diede il fratello interrogato da A. Berti;[ref] In merito, ecco cosa riferisce A. Berti al fratello di R. Zelasco in una lettera del 20 aprile 1988: «… Il fratello Carlo Civati confermò al sottoscritto che durante la traslazione della salma del fratello, avvenuta poco tempo dopo la morte [febbraio 1949 n.d.a.], ebbe l’occasione di toglierli una salvietta che la “signora” [la signora che l’aveva inizialmente ripulito n.d.a.] gli aveva legato attorno al capo. Con la salvietta vennero via anche i capelli: notai – disse – che mio fratello aveva una larga ferita sotto la mandibola sinistra e un piccolo buco sulla parte destra della sommità della scatola cranica. Alcuni affermano che il Civati non è stato ucciso da una pallottola rimbalzata sparata da armi partigiane, ma bensì da un proiettile di armi in dotazione alla Monterosa [Si fa notare che varie fonti riferiscono che Zelasco era munito di un MAB 38 che s’era portato dietro lasciando la Monterosa, e che non abbandonava mai. N.d.a.]. A questo proposito, il fratello Carlo, dichiarò recentemente che nel certificato di morte del CIVATI si poteva leggere che la causa della morte era dovuta ad una pallottola sparata dai partigiani e, rimbalzando su una roccia colpì mortalmente il caporale alpino. Si sa invece per certo che l’ufficiale dopo aver sparato a bruciapelo contro il Civati sparò altri tre colpi di arma (non si sa se di pistola o di fucile) da fuoco contro una pietra allo scopo di far apparire che chi aveva ucciso l’alpino erano stati i partigiani durante il conflitto a fuoco».[/ref] e poi, non meno importanti, le conclusioni che della vicenda ha fornito,  nel luglio 2010, il fratello di Zelasco:

“Mentre la fine eroica di mio fratello e le divergenze sulle sue modalità sono irrilevanti e comprensibili, non lo è quella dell’alpino Civati.  A distanza di anni si stila un improbabile atto notorio, si sbandiera un enigmatico “testamento militare” e, mentre autori fascisti si appropriano della sua figura basandosi su realtà oggettive (la sua appartenenza alla Monterosa, la partecipazione ad azioni di rastrellamento ecc.), inspiegabilmente sezioni di partito, amministrazioni comunali di sinistra e la stessa ANPI di Sestri si attivano per trasformarne la figura in senso democratico. Ho il sospetto che tutto sia partito dai suoi famigliari i quali, essendo comunisti, mal tolleravano l’idea che il loro congiunto fosse caduto combattendo contro i partigiani e indossando la divisa fascista. Ciò premesso tengo ad affermare di non aver nulla contro di loro e contro i loro puerili tentativi di trasformare un caduto in un eroe. Vorrei solo che venisse almeno rispettata la verità storica e che, soprattutto,  non ci si servisse di un eroe autentico (che non scriveva testamenti militari ma aveva fatto una scelta chiara in favore della democrazia), per farne una fasulla. Nulla unisce i due caduti. Uno combatteva per la libertà, l’altro, forse senza neppure rendersene conto, per una sanguinosa dittatura.            (F.to Paolo Zelasco.)

La storia dell’imboscata di Montedomenico è sicuramente piccola cosa ed è richiamata come occasione per riflettere sullo scarso interesse per la verità storica, diffuso almeno quanto la passione celebrativa “a prescindere”, o addirittura dall’ignoranza. Se non nella falsificazione dei fatti. Come sembrerebbe il caso della lapide – con cui principiano queste note – dedicata nel 1983 dal Comune di Sestri Levante retto da una amministrazione di sinistra all’alpino Civati, che associa la morte di un partigiano ucciso in un agguato fascista ad un alpino della Monterosa che faceva parte dello stesso plotone che tese l’agguato e lo uccise.

Non è tutto. Nel giardino “Luogo della Memoria” dedicato a Giorgio Perlasca dal comune di Cernobbio il 4 novembre 2001 – presente, tra gli altri, il figlio di Perlasca, Franco – a fianco alle targhe dedicate a Ettore Fumagalli e altri protagonisti della guerra partigiana del Comasco si trova anche quella dedicata all’alpino Civati. “Arruolato nel 1943 negli Alpini della Repubblica di Salò nel battaglione “Morbegno” di stanza a La Spezia. Il “Morbegno” fu peraltro impiegato anche in scontri contro i Partigiani. In un’azione sul monte Domenico Basso, il 5 dicembre 1944 venne a contatto, insieme ai suoi commilitoni, con una formazione partigiana che fu sopraffatta e passata per le armi. Il caporale Giampiero Civati, con altri compagni, fu chiamato a far parte dell’improvvisato plotone di esecuzione: I suoi ideali erano manifesti: voleva solo il bene dell’Italia, il Sangue dei fratelli non l’avrebbe mai sparso. Questo moto di generosità fu da lui pagato a caro prezzo: Giampiero si rifiutò di sparare sui Partigiani e il capo plotone lo colpì a morte con un colpo di fucile”. Una approssimazione e un disinteresse per la verità storica, quanto mai scandalosa, che dovrebbe far pensare. I fascisti vittoriosi su una formazione partigiana, che viene passata per le armi (mentre si sa con matematica certezza che la squadra dei partigiani riesce a mettersi tutta in salvo, eccetto il solo “Barba” che muore riuscendo nell’intento di coprirne la fuga) che si trasformano in plotone di esecuzione dei partigiani vinti, e che è all’origine del rifiuto del Civati a parteciparvi, e, quindi, causa della sua morte.
Non è stata da meno nel 2003, l’amministrazione (di sinistra) del Comune di Sestri Levante, che insieme all’ANPI, poneva all’inizio della vallata del Gromolo, una nuova lapide al fine di mantenere “nel cuore e nella mente delle future generazioni la memoria dei partigiani caduti in questa vallata e nelle vicine frazioni per la libertà della patria”. Nei nomi elencati nella lapide quelli di Zelasco e di Civati – di nuovo nell’indifferenza dei fatti – compaiono, ormai, assieme a quelli di altri, definitivamente affiancati. Inoltre, nella lapide, viene riservato al Civati un ulteriore riguardo: considerato che questi non era partigiano, e quindi privo di un nome di battaglia da poter esporre, elencano tutti i partigiani, quelli veri, privandoli dei loro nome di battaglia. Il che è come nominare Dio nostro senza la D maiuscola.
Oggi, a oltre mezzo secolo da quelle vicende, nessuno nutre più animosità o mostra pregiudizi verso i militari della Monterosa (in gran parte vittime della tragedia che l’Italia di allora stava attraversando) né, in particolare, verso l’alpino Civati. O verso la sua famiglia che merita comunque rispetto e comprensione. Ciò che invece turba è l’uso spregiudicato della storia, fino alla falsificazione, e il cinismo che la politica mostra mentre rivendica il valore della memoria. La stessa memoria di cui a parole si arroga quale protettore. (evb)